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non più anonimi veneziani

Biennale ovunque

“Il Tema” della Biennale Arte di quest’anno (e di cui tutti nella laguna parlano) è ‘Foreigners Everywhere’. E gli stranieri – queer, indigeni, coloratissimi – si prendono davvero la città, e (finalmente) anche il mercato. Contagiando chiunque

Biennale ovunque

L’ingresso del Padiglione Centrale alla Biennale Arte 2024

L’altra sera, durante uno dei consueti aperitivi della Biennale a Ca’ Giustinian, si parlava ovviamente di una sola cosa, e cioè: “il Tema” di quest’anno, però con detour pettegolo che mi ha molto divertito. Dunque, l’avrete letto, il Tema scelto dal curatore della Biennale Arte 2024, Adriano Pedrosa, brasiliano, è Foreigners Everywhere, Stranieri ovunque, ovvero – la faccio breve – artisti indigeni, queer, i sepolti dalla Storia e dal mercato, gli esuli, quelli fuori dal mainstream, e via riabilitando. Poi vi racconto quello che ho visto. Però ecco, di fronte al Tema, un artista famosissimo di cui non farò il nome (vabbè: Anish Kapoor) pare si sia messo di traverso, ha detto che sembra un messaggio neofascista, come a dire «mamma mia, i forestieri ci hanno invaso», e a me sembra un punto abbastanza sciocchino, «lo dice solo perché il suo momento è un po’ passato» (riporto sempre quello che dicevano tra una flûte di prosecco e una tartina di baccalà). Che poi, il suo momento non mi pare passato per niente, c’ha mostre e installazioni e tubi rossi giganti da tutte le parti, però è anche vero – ho googlato – che lo scorso ottobre la base d’asta di un suo cerchione d’oro comprato dieci anni fa per 1,8 milioni di dollari era oggi fissata a 1 milione appena. Comunque, dicevo, il punto di Kapoor mi pareva sciocchino, ma poi ho pensato: e se l’avesse fatto solo per animare il dibattito, per far restare viva l’arte anche grazie al gossip lì dove tutto (qualcosa) accade, alle voci messe in giro, ai tiri tra artisti? Se no resta solo Ultima Generazione coi suoi tiri di vernice.

Louis Fratino alla Biennale 2024

La Biennale Arte 2024 è vivissima, o almeno così è parso a me, fosse anche solo perché del Tema parlano tutti. «È magnifico», «è furbo», ma è così per tutte le cose, sempre, e allora tanto meglio tifare per l’arte. E anche: «è molto meglio della Biennale del 2022», «non sarà mai come la Biennale del 2019», c’è sempre ’sta spada del Covid che amplifica o ridimensiona tutto. Di Pedrosa, da spettatore, mi piace la direzione chiara, la vocazione perfin didattica. E mi piace, più di tutto, che non ha quell’ansia di horror vacui che prende un po’ chiunque, nella vita dico (ho appena traslocato: buttare le cose, fare posto al vuoto, fa benissimo). Al Padiglione Centrale c’è spazio, e c’è tantissima arte figurativa, cosa sempre più rara nel mondo dei video delle performance degli nft (parlandone da vivi). Ci sono i giovani emergenti («hai visto Louis Fratino che meraviglia?», «quel Louis Fratino è un bluff totale») vicino ai grandi vecchi (nella fattispecie, una parete splendida e commovente tutta per De Pisis, scappato a Parigi per poter ritrarre i suoi ragazzi, o da questi farsi tragicamente e teneramente derubare). Tutta la Biennale è puntellata di questi “nuclei storici”, così li ha chiamati Pedrosa, che sono un po’ la firma di questa curatela, mettere dentro il corpo dell’arte di oggi (del cos’è, cosa può/deve essere, l’arte oggi) tutti gli artisti che finalmente possono essere storicizzati, non essendolo stati mai. Ci sono, per dire, i cento e più ritratti di questa immaginaria galleria che oggi finalmente esiste, e pensi «che differenza c’è con tutti i musei che abbiamo visto finora?», nessuna, solo che qua è tutto più misto, meticciato, per usare un aggettivo orrendo (e forse oggi vietato). C’è pure un autoritratto di Frida Kahlo, che nell’insieme non si distingue dagli altri (ce ne sono, anzi, di assai più belli), se non per il fatto che c’è una guarda di sicurezza a proteggerlo – dai tiri di vernice di Ultima Generazione?

Ci sono, come sempre e forse quest’anno di più, code ovunque, code everywhere, e allora segui il consiglio degli amici, «entra alle dieci in punto e corri subito al padiglione della Germania», e però non sei l’unico, ed è solo giovedì, chissà i poveretti del sabato. La Germania è il solito totem a sé stessa e alle sue rovine, stavolta in chiave fabbriche contaminate e con conseguente speranza di fuggire in un imprecisato spazio profondo, l’Eternit contro l’Eternità (o la sua utopia), ma anche un po’ Melancholia, finiteci-per-sempre, siamo esausti. Qualcuno dice che è il più bello, qualcun altro che è il più paraculo, tifo anche qui. La Corea è in odorama (l’assunto è proprio “qual è il profumo della Corea?”, perché forse i profumi sono la cosa più apolide, dunque più straniera, di tutte). Gli Stati Uniti sono in piena autocoscienza killers-of-the-flower-moon, inevitabile e corretto, con tanto di canto tribale al posto del solito discorso inaugurale (meglio così).

Il Padiglione della Germania

Si va verso l’Arsenale, in una calle si calpesta la scritta “bambini ovunque” fatta coi pastelli a cera, e in effetti è vero, famiglie soprattutto francesi (francesi everywhere) con cinque, sei figli però ordinatissimi, tra le tele colombiane. Anche lì c’è spazio, si respira, ci sono tantissimi quadri (parlando come parlano i profani), brava l’albanese Iva Lulashi con le sue donne in amore, e i mosaici che diventano pixel per nascondere gli amori proibiti dall’Islam, e l’Italia che nel suo padiglione, bello, fa suonare una specie di organo destrutturato (anche qui: il suono, e il conseguente ascolto, è la cosa più straniera di tutte, forse). C’è, qui alle corderie, il “nucleo storico” degli italiani ovunque, Italians everywhere, scappati o strappati o solo un po’ raminghi, spesso finiti a morire in Sudamerica o in soffitte parigine, varie generazioni di artisti patri da Gnoli a Tina Modotti, a cose bellissime e sepolte come Aligi Sassu, anche lui coi suoi ragazzi però non nelle stanzette bohémienne ma al tramonto. «È l’arte come dev’essere raccontata in questo nostro tempo», «sembra un mercatino»: tifo ovunque, ribadisco.

C’è l’umanità bella che sempre s’incontra ad ogni apertura di Biennale, con meno milanesi per colpa del Salone che va in contemporanea (e qualcuno dai district del design si lamenta di non poter essere qui). E però quest’anno l’umanità è ancora più colorata, multiforme, si mischia agli apertivi e alle feste (gettonata quella per gli ottant’anni della moglie di Rick Owens all’aeroporto del Lido, ma la convocazione era 11pm-4am, e molti di noi col cavolo che si sono avventurati fin là). C’è questo mix strambo ma in fondo giusto tra quest’arte che rivendica, finalmente, sé stessa e gli Stefano Zecchi di passaggio, mentre in sottofondo si sente discutere di aste, quotazioni, future vernici, prossime fiere. È la Venezia sempre divisa in due, il popolo della Biennale e il turistificio di massa, due mondi che non s’incontrano mai e quest’anno il secondo pare anche, almeno in questi giorni, un po’ svuotato, vincono gli artisti e i galleristi, affermatissimi, wannabe, spesso pieni di soldi – e allora l’arte è davvero di tutti, è davvero ovunque, o resta privilegio?

I ragazzi di Aligi Sassu

Stranieri ovunque anche tutt’attorno, il Tema sembra aver contagiato le mostre che aprono nella settimana della Biennale, tantissime, everywhere. La Fondazione Prada, tra i posti più belli di Venezia sempre, ricrea, sotto la supervisione di Christoph Büchel, il Monte di Pietà che era proprio lì, a Ca’ Corner, un progetto pazzissimo ma col genio del filologo appunto pazzo, dove pare di vedere gli stranieri di ieri e di adesso, gli ultimi ma anche quelli che si nascondono nel deep web, in tutto quello che resta cripto, e poi le opere di carità, il bling bling trumpiano, gli accumulatori, gli stranieri a casa propria, invasa da noi stessi e dalla nostra ròbba. Al Museo Correr, diventato con Francesco Vezzoli il Museo delle Lacrime (anche quelle della Ferragni tornata in spolvero glam all’inaugurazione), si vedono Kim Kardashian, Claudia Schiffer, Mae West, tante altre, tutte madonnine straniere imperlate di pianto tra le madonnine autoctone del Bellini. All’Accademia c’è il meraviglioso de Kooning nel suo periodo italiano, straniero lui da noi, con i suoi colori che sconfinano, letteralmente, e vanno dappertutto. A Palazzo Grassi personalona di Julie Mehretu, etiope naturalizzata americana che mappa il suo mondo e la sua storia su tele maxi, e alla Punta della Dogana, sempre chez Pinault, la monumentale installazione di Pierre Huyghe è immersa nel buio, e non si vede più niente, non ci si trova, e forse è in quel punto, in quell’ovunque, che si capisce che si è tutti stranieri per davvero.

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