Provinciale di nascita, Marciano di Romagna, provincia di Rimini, Arnaldo Pomodoro è l’ultimo di una generazione di irregolari capaci di disegnare l’Italia partendo dai suoi orizzonti meno prevedibili. Là dove il suo concittadino Federico Fellini troverà patria a Roma, Pomodoro la trova a Milano, fin dal 1954 dove si presenta al cospetto dalla madunina con in tasca un diploma da geometra preso a Rimini.
Nel mezzo la guerra, l’istituto d’arte di Pesaro e una tentata laurea presso la Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Bologna. Ma sopratutto un indole irrefrenabile dotata di un dilettantismo benjaminiano frutto di letture sparse e ossessive, ma anche di un intuito rapido e veloce. Arnaldo Pomodoro vive con una curiosità assoluta che lo porta a scoperte e avventure dell’anima che spesso si sovrappongono a quella di una giovinezza mai arginabile all’interno dei confini e delle ricette di una società ancora molto bacchettona e classista.
Le scenografia e la fotografia sono i primi elementi che ne rivelano l’originalità artistica. Paul Klee è il primo artista da cui subisce una forte influenza, una traccia visibile in tutta la sua produzione artistica, quasi come un marchio di fabbrica, una paternità artistica dichiarata esplicitamente. Ma è sopratutto la grande mostra a Palazzo Reale dedicata a Picasso nel 1954 a offrire ampiamente a Pomodoro una visione contemporanea dell’arte e dell’essere artista.
Milano dunque, anni Cinquanta e quindi ovviamente il bar Jamaica, Brera e tutto quel mondo che fu arte, gioia, circo, performance, idee, ideologie, tuffi e futuro, tagli di tela e comicità, canzoni e premi Nobel. Fuori da ogni obbligo istituzionale, spesso con i pantaloni rattoppati e nemmeno due lire in tasca nascono amori disperati e amicizie inossidabili. Arnaldo Pomodoro trova la usa isola che non c’è in quel miscuglio di follia e dabbenaggine, grande arte e tragedie sempre possibili e sempre dietro l’angolo. In poche parole, l’amicizia e l’eccentricità con Lucio Fontana, Enrico Baj, Sergio Dangelo, Umberto Milani, Roberto Sanesi e Ugo Mulas.
I passaggi d’obbligo sono la Biennale di Venezia e una mostra alla Galleria del Cavallino di Carlo Cardazzo, snodo dell’arte contemporanea italiana sulla scena internazionale. La Galleria del Cavallino infatti si supportava dal 1946 anche di una sede milanese, la Galleria del Naviglio, da cui passarono tutti i più promettenti artisti di Brera. L’Italia si apriva alle avanguardie internazionali dopo gli anni dell’oscurantismo fascista, e con loro venivano scoperti nuovi artisti italiani capaci di connettere finalmente un paese ancora culturalmente arretrato se non arcaico con la contemporaneità.
Il passaggio successivo per Arnaldo Pomodoro fu raggiungere New York, dove negli anni Sessanta si produce l’arte contemporanea che conta, quella che sta disegnando la cultura mondiale dall’architettura alla letteratura dalla musica al cinema. Un nuovo immaginario si sta imponendo e nuove pratiche stanno offrendo nuove possibilità di elaborazione artistica. A New York stringe amicizia con gli scultori David Smith e Louise Nevelson. Il percorso artistico di Pomodoro assume le note di un attraversamento macchinico della materia come del segno. La ricerca astratta diviene in Pomodoro il tramite per una ricaduta in forma nuova della medesima sostanzialità della materia. Nasce il Gruppo Continuità insieme a Turcato, Perilli, Dorazio, Novelli e al fratello Gio anche lui scultore, interpreti e fautori del gruppo i critici Giulio Carlo Argan e Guido Ballo.
Ma è il 1967 che segna la svolta nella carriera di Arnaldo Pomodoro con la Sfera Grande esposta originariamente sul tetto del padiglione italiano dell’Expò di Montreal e poi collocata davanti al Ministero degli Affari esteri a Roma, dove troneggia tuttora. Con questa opera Arnaldo Pomodoro esprime una firma identitaria chiara e assoluta, dando corpo a una serie di sculture sferoidi che segneranno l’immaginario pubblico identificando subito negli anni il suo lavoro.
Dagli anni Settanta in poi Arnaldo Pomodoro assume i gradi di artista internazionalmente riconosciuto, divenendo ricercato dalle più importanti e prestigiose istituzioni mondiali e tramutandolo spesso in quell’artista istituzionale che intimamente non è mai stato, anche se certamente la sua grande capacità di produzione artistica ha più volte ingannato il pubblico e parte della critica riducendone ai loro occhi la valenza artistica e lo sguardo originale.
Negli anni Ottanta, Pomodoro abbandona Milano per andare a insegnare al Mills College di Oakland in California dove resterà fino al 1984, ma Milano resta il suo baricentro, il luogo delle grandi collaborazioni e delle grandi amicizie come quella con Carlo Orsi, il grande fotoreporter milanese. Con le fotografie di Orsi pubblicherà nel 1984 in occasione della grande mostra a lui dedicata al Forte Belvedere di Firenze un catalogo che comprenderà tutte le sue principali opere, circa una sessantina a partire dal 1955.
Un punto di arrivo e anche un momento di riflessione in anni in cui la Milano da bere è al suo culmine e la new wave fiorentina tra moda e musica sta rivoluzionando non poco la scena culturale italiana. Grandi contraddizioni stanno per arrivare a rivelare i propri nodi sociali e politici. I conseguenti e depressivi anni Novanta saranno per Arnaldo Pomodoro un’occasione di riflessione e di riorganizzazione di un materiale artistico enorme. Prende così corpo la Fondazione Pomodoro per stabilizzare, studiare e comprendere meglio il percorso di un artista materico, pre-performativo e capace d’imporre il proprio immaginario a livello internazionale.
Molte sue opere oggi sono sparse lungo tutto il Paese, spesso utilizzate disgraziatamente come sparti traffico e in alcuni casi considerate ovvie, banali per non dire scadenti. Uno sguardo frutto di una rivalsa beghina e provinciale, perché quelle opere in realtà rappresentano ancora oggi il tentativo – e molte volte un tentativo riuscito – di portare l’Italia e la sua cultura oltre i confini stretti della propria stessa subalternità. Pomodoro raccolse la sfida alla partecipazione e all’inclusione che oggi pare, più che un traguardo lontano, un principio spesso negato. La carriera di Pomodoro è infatti intrecciata di collaborazioni e partecipazioni con enti, istituzioni, ma anche con artisti, fotografi, scenografi. In mischiamento mai vergato da opportunismo, considerato dall’artista assolutamente necessario per meglio esprimere le proprie idee e la propria identità.
Oggi Arnaldo Pomodoro avrebbe compiuto 99 anni, numero che indica completezza e compimento, ma anche illuminazione e risveglio, tutte possibilità che Pomodoro ha dato e offre ora a chi voglia esplorare e guardare con occhio critico e libero le sue opere, a partire dallo stupendo labirinto in bronzo, rame e fiberglass che si sviluppa per centosettanta metri all’interno degli spazi ipogei dell’ex Officine Meccaniche Riva-Calzoni (Via Solari 55 a Milano), oggi sede milanese della maison Fendi che lo ha da poco restaurato. Nulla più di questo labirinto rappresenta la sostanza di un percorso artistico ed esistenziale capace di entrare in relazione con lo spazio-tempo.
«Per me la massima aspirazione è quella di avere come ambiente, per le mie opere, l’aperto, la gente, le case, il verde», avvertiva Pomodoro, artista che seppe interpretare tra i primi in Italia il senso di una comunità partendo da una Milano allora eroica ed ecletticamente borghese. Fu un artista di provincia come lo sono quasi tutti in Italia e per quello fu sempre curioso di piazze, spazi aperti e di conoscere nuove persone. Il modo migliore per imparare a vedere lontano è sempre infatti saper parlare con il vicino, recuperando nella contemporaneità anche le forme più arcaiche di scrittura e comunicazione. In un ribaltamento di senso capace di rivelare e mostrare aspetti imprevisti di sé e dell’altro.