Kehinde Wiley, un 'black painter' per Obama | Rolling Stone Italia
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Kehinde Wiley, un ‘black painter’ per Obama

Anche per il suo ritratto, Barack Obama ha rotto con la tradizione e si è affidato a un artista afroamericano che unisce barocco a gangsta rap. Per raccontare l'America confusa di oggi.

Kehinde Wiley, un ‘black painter’ per Obama

Nel 1797, con il ritratto di George Washington, Gilbert Stuart iniziò la serie dei dipinti di fine mandato dei presidenti americani, oggi tutti in mostra al Smithsonian Institution di Washington. Sono ritratti di uomini carismatici, immortalati in giacche o uniformi, a volte parrucche. Ma la Storia insegna che è giusto cambiare, e l’uomo giusto per farlo era Kehinde Wiley, artista afroamericano scelto per ritrarre Barack Obama. «È stata una grande responsabilità. Ci siamo incontrati più volte, perché volevo capire i suoi gusti e lui voleva essere sicuro che il dipinto rappresentasse la sua eredità culturale e le sue radici. I fiori simboleggiano le tappe della sua vita: il gelsomino le Hawaii, dove è nato e cresciuto, i gigli blu il Kenya di suo padre e i crisantemi Chicago, dove ha cominciato la carriera politica», racconta.

I lavori di Wiley, classe 1977, fanno parte delle collezioni dei più importanti musei americani: L.A. County Museum of Art, Museum of Contemporary Art, Hammer Museum, Metropolitan Museum of Art e Brooklyn Museum. La sua arte “parla” di politica e razzismo, e rimanda a Tiziano, Joshua Reynolds, Caravaggio, Ingres e Turner. I suoi quadri sono un mix di codici etnici e culturali, con un occhio critico sul consumismo e il classismo della società. Il Barocco e il Rococò incontrano il gangsta rap, il lowbrow la fine art.

«Ho iniziato dipingendo la gente del mio quartiere. Sono cresciuto a South Central, L.A., che alla fine degli anni ’80 accoglieva tutti i delinquenti della città. Ricordo la violenza, la droga, le rapine, gli omicidi e gli abusi della polizia. Mia madre mi ha salvato la vita, facendomi conoscere il mondo dell’arte». Kehinde Wiley ha basi creative in Nigeria (nel 1997 è andato in cerca di suo padre a Lagos, e lo ha trovato: «È un posto che mi ispira molto, anche l’artista Yinka Shonibare, uno dei miei migliori amici, lavora lì»), a Pechino, a Brooklyn e in Colombia. «Per me è importante viaggiare. Le ispirazioni per i fondali dei miei dipinti vengono dalle stoffe che trovo nei mercati». In futuro vorrebbe avere un programma che aiuta i giovani artisti. «La prima volta che sono venuto a New York, fu grazie a una borsa di studio di 500 dollari dello Studio Museum di Harlem. Dormivo nel museo e dipingevo. Il mito degli artisti che fanno la fame è una enorme bullshit».

Wiley prende spesso spunto dalle persone che vede per strada, sconosciuti che fotografa durante le sue giornate. «Guardo sempre all’Africa, alla comunità a cui appartengo. I miei soggetti vanno dai 18 ai 25 anni, perché sono interessato ai giovani e ai loro problemi. Alcuni dei ragazzi che ritraggo diventano poi miei amanti: l’aspetto intimo delle relazioni sessuali mi dà accesso, attraverso i loro occhi, a un’altra cultura. Per me l’arte è un processo di collaborazione: non è vero che tutti gli artisti sono creatori unici delle loro opere. Io sono la mano che esegue, ma, spesso, il mio lavoro è facilitato dalla mente di altre persone, con cui condivido le esperienze».

La sua passione per l’arte classica europea viene da lontano. «Da piccoli, per tenerci lontani dal ghetto, mia madre ci faceva frequentare corsi d’arte e musei. Sono sempre stato affascinato da sovrani e nobili, il mio obiettivo era diventare un maestro delle tecniche pittoriche, olio e acquerello. Una volta in grado di riprodurre i capolavori del passato, ho ricominciato da capo, cercando la mia visione». A Yale, dove ha frequentato un master, ha imparato a riempire di attualità la sua arte. Non lavora molto su commissione: oltre a Barack Obama, ha ritratto Michael Jackson, LL Cool J e Ice-T. «Ho un’altra passione: la moda. Mi piace essere elegante, anche quando dipingo».

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