I migranti e le geografie immaginarie de La Terra Inquieta | Rolling Stone Italia
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I migranti e le geografie immaginarie de ‘La Terra Inquieta’

Abbiamo parlato con Massimiliano Gioni, curatore e ideatore della mostra adesso alla Triennale di Milano

I migranti e le geografie immaginarie de ‘La Terra Inquieta’

“Spero di vivere come chiunque altro, niente di più”. Questa frase disarmante è una delle cose che mi colpisce di più della mostra La Terra Inquieta alla Triennale di Milano. È una delle tante pronunciate nell’installazione The Mapping Journey Project dell’artista marocchina Bouchra Khalili, che raccoglie le storie di migranti che hanno attraversato interi continenti alla ricerca di un varco nella fortezza Europa, mentre con un pennarello tracciano su una cartina il percorso fatto, nascondendo sotto la semplicità di quel gesto un’odissea drammatica.

Questa esposizione ha aperto i battenti in questi giorni e raduna 65 artisti che fino al 20 agosto affronteranno una sfida molto difficile: può l’arte essere strumento di rappresentazione della realtà, in questo caso sottraendo questo primato alla banalità della comunicazione di massa o, peggio ancora, a quegli arnesi scassati della politica? Il tema è ostico, il più ostico e centrale della nostra epoca: l’immigrazione. Attraverso installazioni, video, immagini di reportage, materiali storici e oggetti di cultura materiale, La Terra Inquieta ci mette davanti al fatto compiuto e affronta il tema con profondità e con un punto di vista completamente nuovo.

Dalla Panda stracarica di storia e senso di non appartenenza di Manaf Halbouni, che ha lasciato Damasco per sfuggire al servizio militare e che ora non può più fare rientro in patria, a una bellissima Mappa di quelle che Alighiero Boetti faceva ricamare alle artigiani di Kabul. Dal mondo ridisegnato con sfere di vetro dalla libanese Mona Hatoum, che ci fa vedere quanto il concetto di confine sia labile e astratto, fino alla fotografia di Dorothea Lange che tutti conosciamo, quella di una madre appena emigrata negli Stati Uniti, dal volto scavato e triste di chi non ha più nulla, se non i due bambini che le si stringono addosso per sfuggire all’obiettivo.

Tanti artisti si confrontano con questi problemi tutti i giorni in prima persona. Ci siamo chiesti quale sia il ruolo dell’arte di fronte alla storiaMassimiliano Gioni

Questa mostra è una delle più intelligenti e commoventi che si siano viste negli ultimi anni ed è la vita umana a tornare al centro di un dibattito che, in pasto alla politica, sta partorendo una delle pagine più buie della storia, nelle quali rimarrà scritto che dietro un “rimandiamoli a casa loro” o un “non possiamo accoglierli tutti”, in realtà si cela una condanna a morte di esseri umani che fuggono da guerre e carestie in cerca della vita.

Si sente questo tra le sale della Triennale, uno spaccato di geografie reali e immaginarie che danno il senso del dramma dei migranti e delle storie individuali e collettive dei viaggi disperati dei nuovi dannati della Terra: le vittime del conflitto in Siria, i profughi dei campi, quelli di Lampedusa, i nomadi, gli apolidi. Sicuramente ci vuole coraggio per fare una mostra del genere in questo momento, e per questo un plauso va alla Fondazione Trussardi che l’ha promossa e realizzata, e che da anni mette in campo una programmazione di livello internazionale e ci dice che è nella responsabilità sociale che si manifesta la più alta delle peculiarità dell’arte.

Ma soprattutto al bravissimo Massimiliano Gioni, curatore e ideatore della mostra. Classe 1973, è Direttore Artistico della Fondazione Nicola Trussardi e del New Museum di New York. È stato curatore della Biennale di Venezia e dobbiamo dire che oggi è una delle personalità più interessanti e influenti del mondo dell’arte. Noi l’abbiamo incontrato e gli abbiamo fatto qualche domanda.

Questa mostra è la prima a trattare questi temi in maniera tanto audace. Cosa vi ha spinto a fare questo lavoro?
È un tema che ne contiene tanti altri. L’emergenza è sotto gli occhi di tutti a un tale punto che ne siamo quasi anestetizzati: la mostra si chiede quali siano i modi per riavvicinare le persone a questi temi attraverso gli sguardi degli artisti.

E come si inserisce questa iniziativa nel mondo dell’arte?
Beh, in maniera più interna all’arte è una mostra che magari esula dall’emergenza più scottante e riguarda più genericamente il ruolo e la responsabilità dell’arte e dell’artista di fronte a eventi storici. Ci siamo chiesti quale sia il ruolo dell’artista in qualità di testimone della storia.

Una domanda piuttosto complessa.
Una domanda specifica e vasta all’interno della storia dell’arte. Ci tengo a dirlo anche per sottolineare che non siamo partiti dal “facciamo una mostra sull’immigrazione”, che forse sarebbe anche cinica come scelta. Siamo partiti dalla constatazione che tanti artisti oggi si confrontano con questi problemi non solo per la loro bruciante attualità, ma anche perché in un certo senso sono chiamati in causa in prima persona e questo pone tutta una serie di questioni, appunto, su quale sia il ruolo dell’artista di fronte alla storia.

Molti di questi arrivano da zone “calde”: Albania, Algeria, Bangladesh, Egitto, Ghana, Iraq, Libano, Marocco, Siria…
Sì molti di loro non sono occidentali. Anche se lavorano in America e in Europa, provengono da luoghi del mondo differenti. Credo sia uno spartiacque importante vedere come artisti di luoghi diversi del mondo si stiano confrontando in maniera diretta con questo tema e con il carico di responsabilità che comporta.

Serve maggiore responsabilità da parte del mondo nell’arte? Nella storia si parla spesso della lateralità dell’artista, che non deve essere coinvolto direttamente.
È esattamente ciò che la mostra pone ed è una domanda che rivolgo prima di tutto a me stesso. Non ho mai fatto mostre in cui l’attualità o la politica sono parte trainante, anzi di norma mi interessano approcci più trasversali, laterali o metaforici. Però negli ultimi anni è emerso un approccio molto diverso, che si sovrappone a queste tematiche e a una nuova forma di responsabilità, del desiderio di narrare la storia da un punto di vista che non è quello dei mezzi di comunicazione di massa.

Cercando quindi la verità?
Voglio capire se sia possibile per un artista raccontare la storia in un momento in cui il concetto stesso di verità è messo in crisi. Quindi, a prescindere dal fatto che sia o meno l’arte alla quale sono più sensibile, c’è stato un cambiamento recente, negli ultimi 10 o 15 anni.

Come è stato accolto questo approccio dal mercato?
Questo tipo di arte non trova molto spesso visibilità nelle gallerie, ma ha una posizione molto importante e che dobbiamo mostrare. I mezzi di comunicazione di massa ci mostrano tutto questo in un certo modo, costruendo il caso umano magari, ma non dimostrano che anche da quei Paesi ci sono tante altre storie, addirittura più complesse, di cultura e di arte.

Perché il mercato dell’arte snobba questo filone?
Credo sia una combinazione di fattori. Indubbiamente è raro che collezionisti privati si mettano in casa opere che parlano del conflitto in Siria o delle barche che affondano. Però dobbiamo ricordarci che l’arte non è semplicemente intrattenimento visivo, ma è anche ricerca sul modo di rappresentare il conflitto. Un tema ostico, ma centrale nella storia dell’arte. Quante battaglie si conoscono, dal medioevo all’800, grazie all’arte? Oggi ci troviamo in una situazione paradossale in cui gran parte di quelle rappresentazione sono affidate ai media.

Quindi gli artisti che hai chiamato sono diventati reporter?
Molti di questi artisti occupano una sorta di duplice spazio, perché da una parte sì, fanno a loro volta reportage. Un reportage in prima persona, più sentimentale, più lirico, che cerca di ridefinire e acciuffare una sorta di prospettiva reale, e non quella dei media che paradossalmente consuma la realtà o la occulta. Dall’altra parte c’è anche il tentativo di dimostrare come questa verità o realtà sia sempre parziale, frammentata.

In mostra si può vedere chiaramente che la maggior parte degli artisti hanno usato proprio i mezzi tipici dei media.
Ci sono soprattutto fotografia e video. Sono presenti anche pittura e disegno, ma sempre ispirati a quei mezzi, in una sorta di testa a testa tra gli artisti e l’industria della rappresentazione. Spero che questa mostra dimostrerà che il nostro tragitto è la ricerca dell’attualità attraverso l’arte, per comprenderla meglio, al di là degli stereotipi. E poi, in maniera polemica se così vogliamo dire, è anche un modo di mostrare ai giovani artisti che si può fare arte con strumenti anche molto semplici, perché l’arte risiede nelle storie che vuoi raccontare.

L’avresti fatta in modo diverso in un altro Paese?
Quando fai una mostra devi essere sensibile all’ecosistema in cui questa mostra si svolge. Ad esempio a New York, dove vivo, non avrebbe senso farla.

Come ha vissuto New York, melting-pot per antonomasia, l’elezione di Trump?
La prima sensazione, quella mattina, è stata di stordimento. Ricordo una New York spettrale, con un cielo grigio. Molta gente era stata sveglia fino a tardi per seguire i risultati e quindi era anche semi deserta. C’era la chiara sensazione di una città presa di sorpresa.

E tu? Cosa hai pensato?
Mi sentivo spaesato, in senso etimologico. Nel senso che la sensazione era quella di essere in un Paese diverso da quello che avevo immaginato. Ho pensato “forse il Paese che io credo di conoscere non è quello vero”, ma anche “chi sono queste davvero queste persone?”. Quindi anche una sensazione di tradimento, cosa che hanno provato milioni di persone in quel momento.

Ti senti un immigrato?
Sì. Di grande privilegio, ma mi sento un immigrato. Ho ruolo istituzionale e sono un uomo bianco ed eterosessuale, ma la mia simpatia è con le minoranze. Mi identifico con loro.

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