Apologia dei buongustai | Rolling Stone Italia
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Apologia dei buongustai

Vivono tra noi, sono sempre pronti per quell'accostamento bizzarro, sono spesso definiti "sbagliati". E potrebbero farvi rimanere letteralmente a bocca aperta. Un manifesto dell'orgoglio dei golosi, perché in fondo, ognuno di noi lo è

pasta cibo golosi

Foto: Alfredo Burgos su Unsplash

Da bambino facevo sciogliere il gelato alla panna dentro uno dei tanti bicchieri della collezione Nutella. Quelli con i Looney Tunes, per intenderci. Poi ci aggiungevo dei frollini sbriciolati, la panna montata e del Baileys (credevo fosse una crema alla nocciola). Una porcata, di quelle colossali. Oltre una gastrite per l’alcool che avevo inconsciamente assunto, è da tempo che (per così dire) nutro un attaccamento per il cibo e la sua preparazione. Lontano dall’essere un eccellente critico culinario, mi abbandonavo (abbandono?) a ingredienti scombinati, altre gastriti (il liquore alla liquirizia confuso con una crema al cioccolato) e un riso crudo cotto in forno con i würstel. Ciò che può sembrare una follia, in realtà nasconde una cultura del cibo più profonda, spesso ignorata o addirittura confusa con dei “pessimi gusti”. Ordinare la pizza più strana, quella alla fine della lista nel menu, non ti rende una persona da cui stare alla larga. Semplicemente sei una persona golosa, un buongustaio, in un mondo in cui ogni incrocio merita di essere provato. Almeno una volta.

Alla stregua dei panda, anche i golosi (che d’ora in poi chiameremo buongustai) sono una specie da proteggere. Loro sì che sanno godersi il cibo, senza pretese e con una sana curiosità che non esclude i gusti degli altri, piuttosto li amplifica. Il buongustaio moderno deve fare i conti con anni e anni di snobismo cultural-culinario, in nome di un più sano amore per il cibo, senza etichette e senza rimproverare il cameriere di turno. Un po’ come uno sport a livello agonistico, si consumano pietanze non semplicemente con la pretesa di giudicare, piuttosto per renderle appetitose agli occhi dell’altro.

La figura del buongustaio ricopre, da secoli, un ruolo importante: narrare il cibo come forma di potere. Non a caso, nell’antichità (in particolare a Roma), gaudente faceva rima con potente perfino oltre l’evidenza. Il generale e politico Lucullo racconta sontuosi banchetti in cui si servivano selvaggina, pesci esotici e vini rari. Da lui l’aggettivo, appunto, luculliano. L’imperatore romano Vitellio, poi, è storicamente noto per le sue abbuffate quotidiane e piatti straordinari come le lingue di fenicottero. Durante il Rinascimento e l’età moderna, il buongustaio si evolve in un sovrano raffinato: Enrico VIII d’Inghilterra riempie le sue tavole di carni e Luigi XIV di Francia trasforma i pranzi a Versailles in spettacoli gastronomici.

Accanto a loro emergono anche i filosofi del gusto: Jean Anthelme Brillat-Savarin, autore de La fisiologia del gusto e Primo Goloso di Francia; Grimod de La Reynière, critico gastronomico primigenio; e Alexandre Dumas padre, autore del monumentale Grand Dictionnaire de Cuisine. Queste figure codificano la cultura gastronomica, trasformando il buongustaio da semplice amante del cibo a pensatore e ambasciatore del piacere conviviale. Con l’Ottocento e il Novecento arrivano i più moderni chef e divulgatori: da Auguste Escoffier a Julia Child, queste figure portano il gusto nelle case di milioni di persone attraverso libri (prima) e televisione (poi).

Detto ciò, in una panoramica storica è giusto porre l’accento su una grande differenza: da una parte il buongustaio, dall’altra il critico culinario. E fidatevi: è facile confonderli.

Il critico culinario, così come chi svolge la funzione di critico e non criticone in generale, assolve al proprio ruolo giudicando un piatto a partire da una struttura più ampia, che spesso non lascia spazio al giudizio degli altri, limitandosi a criteri personali, spesso rigidi. È una professione legata al giudizio del cibo: la lunghezza del chicco di riso, quell’ingrediente marinato nel modo giusto o quella spezia introvabile. Nella critica culinaria, il connubio di certi sapori o la scelta di ingredienti raccolti in chissà quale villaggio degli Umpa Lumpa è una constatazione ovvia. Non c’è spazio per errori: il critico ama il cibo, ma deve disintegrarlo per un bene superiore. Quella stessa critica, quindi, finisce per girare intorno a se stessa e a chi può permettersi di comprendere certi linguaggi. Il buongustaio, invece, è spinto da un giudizio più empatico, perché orientato alla scoperta del cibo senza troppi fronzoli o sovrastrutture. Il buongustaio è di per sé un critico culinario, ma scevro di criteri prestabiliti. Ama il cibo e quando espone il suo giudizio lo fa riconoscendo l’altro e le sue possibilità economiche, sociali e geografiche. Insomma: il buongustaio sa che bisogna pareggiare i conti a fine mese.

In una società in cui ci identifichiamo nel cibo che consumiamo, il buongustaio fa spesso scelte etiche, ma si concede volentieri lo spazio per il comfort food prediletto. Quella pizza con le patatine fritte, la tavoletta di cioccolato del supermercato, la cotoletta prefritta. Il buongustaio, insomma, venera la scoperta di gusti nuovi ma anche l’abitudinarietà della sicurezza.

Questa stessa società, poi, offre tantissimi strumenti per interpretare la nostra personale idea di cibo e di gusto. Da anni, grazie alla televisione e alle serie tv, ci vengono presentati modelli (o archetipi) che funzionano grazie al nostro senso di appartenenza. O di somiglianza.

C’è il critico gastronomico severo e raffinato, come Anton Ego in Ratatouille, che scopre il valore della memoria e dell’affetto dietro un piatto semplice. C’è il cuoco visionario come Remy, il topolino-chef dello stesso film Pixar, simbolo di creatività e passione. C’è la cuoca seduttrice Vianne Rocher in Chocolat, che usa il potere del cioccolato per sciogliere rigidità e convenzioni sociali. Nelle serie TV, emergono i buongustai quotidiani: Monica Geller di Friends, chef professionista che rappresenta la passione domestica per la cucina; Tony ne I Soprano, simbolo dell’abbondanza italo-americana; Tyrion Lannister nel Trono di spade, sempre pronto a un buon calice di vino. E non manca la parodia del golosone moderno: Homer Simpson, che ingurgita ciambelle e birra diventando un vessillo globale. Il cibo al cinema non è solo un elemento scenografico: diventa narrazione e identità. In alcuni casi è potere, in altri consolazione, infine nostalgia e memoria (come nel flashback che commuove Anton Ego). Il buongustaio cinematografico è spesso un personaggio che impara qualcosa di sé attraverso il cibo o che lo usa per entrare in relazione con gli altri.

È partendo da questo concetto che è importante aggiungere un’altra distinzione: quella tra il buongustaio da una parte, e il mancato critico culinario dall’altra (un Anton Ego che non ce l’ha fatta). Per l’occasione, lo chiameremo “esteta snob del cibo”. L’esteta snob del cibo vive una terribile insoddisfazione verso qualsiasi cosa che non reputi alla sua altezza. Soffre l’impossibilità di essere un critico culinario autorevole denigrando e criticando i gusti altrui. L’esteta snob del cibo odia i cibi confezionati, i prodotti da fast food, il gelato in vaschetta e pure la cucina di tua nonna. È una persona che preferisce cucinare in autonomia e guai a presentarsi a casa sua con un formaggio prodotto a più di 10 km di distanza. Quando il buongustaio goloso e l’esteta snob del cibo si incontrano sono dolori, perché il primo difficilmente riesce a star dietro allo snobismo del secondo. Alla fine sono due figure che amano starsene alla larga l’uno dall’altro. Mentre il buongustaio rosola al mare con una busta di patatine con jalapeño prese al supermercato, l’esteta snob del cibo si chiede se il rabarbaro in frigo sia ancora in buone condizioni.

Ecco perché oggi abbiamo bisogno della figura del buongustaio (e anche di ripensarlo in una veste più intima e personale, insomma più vicina a noi). Il buongustaio pulsa. Parla la nostra stessa lingua, ma magari con gusti differenti. Il buongustaio non critica, suggerisce. Non ti giudica per quello che mangi, perché semplicemente lo sta mangiando insieme a te. Non ti manda in tribunale se ti azzardi a comprare dei ravioli in busta, ma ti suggerisce come sfruttarli al meglio. Ognuno di noi è a suo modo un buongustaio, solo che alcuni non lo sanno. La regola principale per esserlo è semplice: amare il cibo.

Un’affezione che si racconta attraverso il corpo. Digitale, girovitico, social. Da tempo i food blogger hanno permesso a intere generazioni di raggiungere luoghi e pietanze, senza il bisogno di partire e standosene comodamente sul proprio divano. Ma anche qui, fermiamoci un attimo.

Il food blogger è un buongustaio? Be’, dipende. Seguire i trend virali, mangiare quel panino senza mollica o fare la fila per il bubble tea diventato trend su TikTok non sempre è sinonimo di autenticità. Quella barretta proteica sponsorizzata su ogni canale social nasconde spesso un guadagno. Non c’è nulla di male, sia chiaro, ma c’è da comprendere quanto quel guadagno sia capace di nascondere la propria reale opinione. Sarà che con le barrette proteiche non vado d’accordo, ma quando è che un contenuto sui social diventa “genuino”?

Di esempi non ne mancano. Da molto tempo seguo il profilo @cosamangiamooggi gestito da Giano e Franci, due esemplari autentici di buongustai che hanno fatto del cibo un interesse comunitario. Nei loro viaggi in giro per il mondo, portano alla scoperta di gusti nuovi, senza nascondere possibili delusioni. Due Super Sayan del cibo che sanno far venire fame. Il loro segreto è insito nei valori in cui credono: quelli di un cibo alla portata di tutti, e che non faccia distinzioni.

 

 
 
 
 
 
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Come non citare lo shaky shaky di @alessio.pellizzoni, altro esemplare di buongustaio da proteggere a ogni costo: non si limita a cucinare un piatto con ingredienti facilmente reperibili, ma ti porta in una cucina in cui si respira aria di buono. E sì, a fine video avrete sempre fame. Per azzardare ricette non convenzionali, il profilo di @gigimuraro fa al caso vostro: piatti studiati in ogni dettaglio ma tranquillamente replicabili. Anche qui, ci troviamo di fronte a un buongustaio che non ha le pretese da grande critico gastronomico. E ci piace.

 

 
 
 
 
 
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Gli esempi si sprecano quando si tratta di ex concorrenti di MasterChef. Giusto per citarne alcuni: Niccolò Califano (@niccolo_masterchef13) è ormai un veterano della cucina accessibile. Per lui la scatoletta di tonno non è un nemico da affrontare, ma un ricordo vivo degli anni dell’università. C’è chi ti porta in giro per il mondo, come Franco della Bella (@franco_masterchef14), semifinalista della scorsa edizione e grande sostenitore di una cucina sempre più inclusiva, senza distinzioni di genere e orientamenti sessuali. Ah, non dimentichiamoci di Irene Volpe (@irenevolpe_masterchef) che con la sua ironia dai mille colori è il simbolo di una cucina nuova, in cui c’è sempre un posto in più per accomodarsi.

 

 
 
 
 
 
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Per concludere, la ricetta perfetta per essere un buongustaio non esiste, perché non esistono quantità o limiti quando si parla di amore per il cibo. Il buongustaio se ne nutre, e riesce a trasmettere quella passione anche agli altri, in maniera anticonvenzionale. L’unico limite, forse, è la salsa troppo piccante, o il bicchiere di liquore alla fragola confuso con il Fruttolo. Eh, sì; ancora oggi lascio sciogliere il gelato nel bicchiere.

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