Da qualche settimana, tra le mie storie Instagram hanno fatto capolino delle strane lattine, quelle classiche delle bibite gassate, con una grafica che rimanda all’immaginario mediorientale: la bandiera della Palestina, una texture à la kefia, caratteri arabi. Ma soprattutto un nome inequivocabile: Gaza Cola.
A prima vista potrebbe sembrare un qualche rischioso esperimento di marketing, se non fosse che la persona dietro questa bevanda, messa in commercio alla fine del 2023, è un volto noto della resistenza palestinese. Il quale, nonostante non vada assolutamente matto per le bibite gassate e zuccherose, ha pensato che lanciare sul mercato una “fake” Coca-Cola per combattere la causa del suo popolo fosse una trovata efficace.
Osama Qashoo è un attivista palestinese rifugiato a Londra dal 2003, dopo che era stato tra gli organizzatori di dimostrazioni pacifiche contro la costruzione di un muro, chiamato da lui stesso “muro dell’apartheid”, voluto da Israele nella West Bank. Nel Regno Unito ha continuato a supportare la causa palestinese, girando documentari e organizzando in prima persona diversi progetti insieme al Free Gaza Movement. Per esempio la Gaza Freedom Flotilla, una flotta che trasportava aiuti umanitari e materie prime verso la striscia di Gaza, rompendo il blocco imposto da Israele. Il 31 maggio del 2010 era a bordo della Mavi Marmara quando l’imbarcazione venne assalita da un raid dell’esercito israeliano in cui vennero uccisi nove passeggeri. Qashoo fu tra le 682 persone arrestate e venne estradato in Turchia. All’inizio degli anni Duemila è stato tra i fondatori dell’International Solidarity Movement (ISM), un’organizzazione non violenta nata per fronteggiare pacificamente l’occupazione israeliana in Palestina.
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Ma per capire il senso dell’operazione Gaza Cola è necessario fare una serie di passi indietro. Il primo fino al 2005, quando da una coalizione di organizzazioni della società civile palestinese nasce il movimento, poi diventato internazionale, Boycott, Divestment, Sanctions (BDS), il cui acronimo – che riassume anche il suo modus operandi – sta per boicottare le aziende che sostengono la causa israeliana, spingere le aziende a disinvestire da Israele, esortare gli altri Paesi a imporre sanzioni diplomatiche ed economiche contro il governo di Tel Aviv.
Uno delle aziende più attenzionate da BDS è Coca-Cola, simbolo già dagli anni Novanta dell’imperialismo capitalista e da sempre, degli Stati Uniti, tra i partner più stretti di Israele. Non è un caso se oggi sia tra i marchi bersagliati con maggior tenacia dalle campagne di boicottaggio. Tanto che, come riportava Il Post, alla fine del febbraio di quest’anno in Cisgiordania era difficile trovare una lattina di Coca-Cola.
Da ben prima degli episodi del 7 ottobre 2023, i commercianti palestinesi nascondevano bottiglie e lattine di Coca-Cola dagli scaffali dei loro negozi, ma il boicottaggio del marchio fondato ad Atlanta risale, almeno, agli anni Sessanta. Nel 1968 infatti la Coca-Cola aprì il suo primo stabilimento in Israele, a Bnei Brak, una cittadina a est di Tel Aviv abitata principalmente da ebrei haredi (tra i più ortodossi). L’apertura coincise con l’avvio di un boicottaggio, sostenuto dalla Lega Araba, la cui indiretta beneficiaria fu Pepsi, che nei trent’anni successivi acquisì importanti quote di mercato nei paesi arabi.
Le campagne contro Coca-Cola hanno ritrovato linfa dopo l’apertura nella seconda metà degli anni Novanta di nuovi stabilimenti in Terra Santa, alcuni negli insediamenti israeliani all’interno dei territori palestinesi occupati. Ma è qui che la situazione diventa più complessa. La Coca-Cola infatti ha due licenziatari: la National Beverage Company (NBC) per la Palestina e la Central Bottling Company (CBC) in Israele. E la cosa ha spesso creato confusione.
La National Beverage Company (NBC) è una società nata da imprenditori palestinesi, fondata da Zahi Khouri, di religione cristiana, passaporto statunitense e sostenitore della creazione di uno stato palestinese accanto a quello israeliano. La NBC ha iniziato le sue attività dopo gli accordi di Oslo, con l’obiettivo di rafforzare l’economia locale e creare posti di lavoro per i palestinesi. Negli anni ha portato avanti iniziative sociali come quella di costruire biblioteche per i bambini negli ospedali palestinesi o sviluppare impianti di trattamento delle acque reflue in due stabilimenti che riescono a convertire gli scarichi rendendoli utili per l’irrigazione.
Le parole del General Manager Imad Hindi, scritte sul sito della NBC, rendono bene l’idea della vision aziendale: «Rendo omaggio a ogni palestinese che si impegna per costruire uno Stato palestinese forte, con un’economia stabile e in crescita – uno Stato sovrano che sostenga ogni cittadino palestinese». A molti però sembra un’ambiguità di fondo proporsi di fare del bene per i palestinesi attraverso la vendita di un prodotto che, come detto, è molto più della bevanda gassata più consumata al mondo, e viene considerata uno strumento di soft-power a stelle e strisce. La Central Bottling Company (CBC), invece, possiede uno stabilimento ad Atarot, insediamento israeliano a nord di Gerusalemme che la comunità internazionale considera illegale. È ovviamente un’azienda distinta dalla NBC che però lavora sotto la stessa multinazionale statunitense. Questa situazione non facilmente districabile ha creato molte ambiguità, che hanno al tempo stesso penalizzato e premiato un po’ tutti gli attori in gioco, quando si parla di Coca-Cola tra Israele e Palestina.
Ma come Pepsi qualche decennio fa, anche oggi c’è chi viene favorito da un drastico calo dei consumi di Coca-Cola. In particolare se alle campagne BDS si aggiungono quelle che incentivano il comprare locale: è il caso di Chat Cola, una bevanda made in Palestina con materie prime che non provengono da Israele, e sottoposta quindi alle dure imposizioni di Tel Aviv sulle importazioni che ne rendendo molto complessa e onerosa la produzione. Nonostante questo, Chat Cola ha acquisito diverse quote di mercato sul territorio e nei Paesi limitrofi. Un’altra protagonista di questa storia è la Salaam Cola – la cola della pace. Marchio creato in UK dalla giovane imprenditrice Aykiz Shah, nata nel Regno Unito da genitori migranti di fede musulmana. La Salaam Cola, prodotta in Turchia, è una bevanda halal ed è distribuita in oltre 14 Paesi e i suoi proventi sono destinati allo sviluppo di progetti umanitari in Palestina, Yemen e Siria.
La distribuzione della Gaza Cola è più limitata, ma nel 2024 ha venduto circa 500.000 lattine, soprattutto nel Regno Unito, e come detto, dai primi mesi del 2025 inizia a vedersi sempre di più anche in Italia. Il successo della bevanda va trovato non solo in una generica associazione del prodotto alla causa palestinese: i proventi sono destinati alla ricostruzione dell’ospedale di Al-Karama, nel Nord di Gaza, distrutto dai bombardamenti israeliani. Un progetto ambizioso che, come si legge sul sito internet italiano, «unisce il gusto rinfrescante di una bevanda di alta qualità a una missione potente:sostenere il nostro popolo e ricostruire le nostre comunità». E poco conta che Gaza Cola sia prodotta in Polonia, perché «è al 100% di proprietà palestinese, dagli ingredienti che utilizziamo alle mani che realizzano ogni lattina».
Come era avvenuto durante la Guerra Fredda, anche in questi conflitti moderni le bevande gassate come Coca-Cola sono strumenti internazionali di soft-power, diplomazia parallela del consumo. La sua presenza in territori come la Palestina continua a essere oggetto di boicottaggio, mentre altre bevande come la Gaza Cola si impongono come simboli di una contro-narrazione economica e politica. Per usare le parole di Osama Qashoo, le «puoi bere senza sensi di colpa per il genocidio».