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Akira Toriyama era di tutti

Il creatore di ‘Dragon Ball’ è riuscito in ciò che un grande artista dovrebbe sempre cercare di fare: immaginare mondi, costruire universi e personaggi in cui la gente si rivede. Manga o non manga. E per questo, ancor di più oggi che non c’è più, è patrimonio dell’umanità

Foto: Flickr/Jaula De Ardilla

Akira Toriyama – lo storico fumettista giapponese morto lo scorso 1 marzo a 68 anni, anche se la notizia è stata data stanotte – giocava un campionato a parte rispetto ai colleghi.

Di solito s’immaginano i manga come un mondo a sé state, con le loro regole, i devoti, i codici d’ingaggio e il resto. A volte è giusto, a volte no, ma è vero che per vicinanza di stili e linguaggio chi si appassiona a un titolo spesso poi passa a un altro, e così via (poi, certo, uno non vale un altro, ma ci sono punti in comune). Quella degli otaku, cioè di chi ama manga, anime e mondo circostante, è una sottocultura (ammesso che esistano ancora), per quanto enorme, e lo è anche in Italia. Solo che con Toriyama questo discorso non ha mai funzionato. Toriyama era e resta, davvero, di tutti, senza ghettizzazioni di sorta, senza confini. Ha parlato a chiunque, tutti gli devono qualcosa, fosse anche solo un’emozione. Come fosse la Disney, o lo Studio Ghibli: una roba universale, tra i pochissimi a riuscirci. Basta citare i suoi titoli: Dr. Slump e soprattutto Dragon Ball.

Con qualcosa come 230 milioni di copie vendute in tutto il mondo, la storia di Goku, Vegeta e gli altri per gli anni ’80, ’90 e i primi 2000 – ma con un’eredità di percezione enorme, viva ancora oggi – è stato il fumetto giapponese: se nel mondo si parlava di manga, si parlava di Dragon Ball; se si parlava di un autore, c’era lui. Anche chi non conosceva altre opere, non sapeva neanche contestualizzarle, chi in qualche modo era pieno di pregiudizi sul suo Paese e la cultura che da fine anni ’70 aveva cominciato a esportare, in un’epoca in cui le comunicazioni erano più difficili, le egemonie culturali andavano sudate davvero; ecco, perfino in un momento così, perfino in Italia (!), tutti sapevano di cosa si parlasse. E alla fine, non gli resistevano. Dragon Ball è stato il primo manga a diffondersi dovunque, e a livello di vendite oggi è secondo solo a un altro fenomeno di massa come One Piece; che però è del 1997, ha beneficiato di un terreno già spianato e per certi versi, sul piano narrativo ed estetico, deve tanto proprio all’opera di Toriyama. Non può essere un caso, in nessun senso. Anche qui: chi non ha mai visto Dragon Ball?

Dr. Slump era stato un bel successo, sì, ma soprattutto una palestra. Lo aveva disegnato prima, tra il 1979 e al 1984, facendosi un nome sulle riviste giapponesi che avevano la capacità d’indirizzare il destino di una pubblicazione: andò alla grande. Qui arriverà in forma di anime, con il personaggio di culto di Arale, il robot-bambina (o la bambina-robot), ma sarà soprattutto un modo, per lui, di prendere confidenza con il tratto rotondo dei suoi disegni, la ricerca dei personaggi assurdi e uno stile che mischia i toni epici del film d’azione a un umorismo brillante, quasi grottesco, pruriginoso – nelle sue opere c’è quasi sempre, per dire, un signore anziano fissato con le ragazzine, a cui la carta d’identità mostra il conto.

Dragon Ball, che nascerà subito dopo e a cui lavorerà undici anni, dal 1984 al 1995, sarà la svolta: parte come una fiaba, un racconto d’avventura tra un ragazzino con la coda e una ragazza, figlia di ricchi, che cerca le famigerate Sfere del Drago, che esaudiscono qualsiasi desiderio, per chiedere quanto di più tenero possiate pensare (… un fidanzato); finisce che si scontrano guerrieri provenienti da altri pianeti, la Terra esplode un paio di volte, le sfere in questione resuscitano amici, fidanzate e compagni di lotta varie volte, le arti marziali sono la moneta di scambio attorno a cui ruota tutta la narrazione ma intanto si accumulano personaggi ben caratterizzati, i cattivi non sono cattivi davvero e fanno figli con i buoni, e la vicenda si trasforma in un grande racconto sull’amicizia, la lealtà e il resto, ma senza mai diventare sentimentalista, ma anzi mettendoci molto sporco, molto sangue, che poi è un aspetto per cui i manga, rispetto a tanti fumetti occidentali, sono imbattibili. Dentro c’è molto della tradizione giapponese, ma anche tanto altro. È una formula magica che, con colpi di scena e quant’altro, pure in una trama alla lunga ripetitiva (i comprimari si danno un gran daffare contro i nemici senza riuscirci, aspettano Goku, che arriva e risolve tutto), incanterà. Perché Toriyama è riuscito in ciò che un grande artista, regista o scrittore dovrebbe sempre cercare di fare: immaginare mondi, costruire universi e personaggi in cui la gente si rivede. Manga o non manga.

Da lì, a cascata, un anime che sarà tra i più visti di sempre, farà da traino a tutto e pure da noi diventerà un appuntamento imprescindibile, all’ora di pranzo, per almeno due generazioni, molto più di quanto prima avessero fatto Lady Oscar e soci; e poi videogiochi, spin-off, gadget. Qualcuno lo accuserà di vendere la sua creatura al mercato, come in fondo avrà fatto nel frattempo anche George Lucas con Star Wars: ma siamo uomini o caporali?

E tutto questo, comunque, non deve sminuirlo. E cioè: non è che Toriyama fosse l’autore di manga per chi non conosceva, o non capiva, i manga e basta, né che Dragon Ball derivasse della banalizzazione di una tradizione gigante, dalla voglia di rendere pop e fruibile a tutti i costi. Anzi. Il suo successo è servito a nobilitare la narrativa giapponese, perché lui è stato capace di andare oltre gli steccati, di parlare a tanti. Certo, sottoscrivendo anche dei compromessi, adottando uno stile più generalista; ma per tanti duri e puri, oggi, Dragon Ball resta il primo contatto con un mondo di fumetti enorme e ricchissimo, quello che ha dato il via alla scoperta. Per questo, a Toriyama si vorrà sempre bene. Gli altri, quelli che si sono fermati a Dragon Ball, lo ringrazieranno lo stesso per aver vissuto, grazie a lui, e solo grazie a lui, una bella storia. Non è poco.

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