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Addio a Carlo Ambrosini, il più grande fumettista contemporaneo

Lo Sgargabonzi rende omaggio a un maestro del fumetto (ai più conosciuto per ‘Napoleone’, ‘Dylan Dog’ e ‘Jan Dix’) scomparso lo scorso primo novembre

Addio a Carlo Ambrosini, il più grande fumettista contemporaneo

Un autoritratto di Carlo Ambrosini

Credit: Carlo Ambrosini

Il primo giorno di questo novembre è venuto a mancare Carlo Ambrosini. Disegnatore, sceneggiatore, creatore dei personaggi di Napoleone e Jan Dix, per me a mani basse il più grande fumettista contemporaneo.

Un’antica mattina di settembre, prima di prendere il treno per l’università, comprai in edicola il primo numero di Napoleone. S’intitolava L’occhio di vetro. Già conoscevo Carlo Ambrosini da tanto tempo per le sue tavole su Dylan Dog. Alle scuole elementari L’isola misteriosa era stata la prima storia che mi aveva folgorato, già per l’intro che cita l’episodio La morte solitaria di Jordy Verrill in Creepshow, mio film di culto. Ma Ambrosini aveva disegnato anche albi fondamentali come Inferni, I vampiri e soprattutto Il lungo addio. Sceneggiature di un Tiziano Sclavi al suo apice, ma impensabili senza il suo tratto elegante, cerebrale, malinconico, sempre più ruvido ed espressionista col passare del tempo.

Facevo le medie quando recuperai tutto Ken Parker e fui sorpreso e felice di trovarlo anche lì, dove era stato quasi un esordiente ma senza nessuna incertezza degli esordienti. Ma quello che mi colpì fu quando, poco prima e poco dopo il numero cento di Dylan Dog, Ambrosini era stato autore di un paio di sceneggiature. Gli albi erano Dietro il sipario e Il guardiano della memoria, sempre disegnati da lui. Ero rimasto colpito per come quelle storie erano consonanti con l’ordine delle idee del creatore della serie, ma al tempo stesso molto laterali e procedevano sicure, senza nessuna ansia di somigliargli.

Napoleone fu, tra le tante cose, la conferma di quell’indipendenza rispetto a Dylan Dog, col quale condivideva il substrato onirico, una percepibile malinconia di fondo e parte del pubblico che lo seguiva. Era una serie ambientata fra la realtà e una sorta di Altroquando, con protagonista Napoleone Di Carlo, albergatore italiano di stanza a Ginevra, burbero, sarcastico e appassionato di entomologia, che dava una mano a un amico detective nella risoluzione di casi spesso bizzarri. Insieme a lui, le sue proiezioni psichiche: Lucrezia, Caliendo e Scintillone. Napoleone aveva tutto quello che avevo apprezzato del Dylan Dog sclaviano, ma senza quella salamoia un po’ ruffiana, manichea e moraleggiante che mi aveva sempre navigato contro. Amavo Sclavi per la fantasia al potere che trasmetteva, per i dialoghi brillanti, per la commedia sofisticata travestita da horror, ma dopo storie come Johnny Freak, Doktor Terror o Cattivi Pensieri avevo solo voglia di andare a farmi una doccia.

Quello che mi seduceva di Napoleone era il fatto che leggendolo mi pareva di passeggiare per le circonvoluzioni cerebrali del suo autore, cosa che vorrei succedesse sempre e invece non succede quasi mai. Se ho letto pochissimi libri in vita mia, ho letto tutti i fumetti di Carlo Ambrosini, di cui mi ha sempre colpito il perfezionismo, il non farsi sconti, la percezione che si dedicasse solo a quello che gli piaceva e in cui credeva. Ma soprattutto il fatto che non strizzasse l’occhio a nessuno e non gliene importasse più di tanto del consenso del pubblico, che è dove cadono anche i più grandi. Ricordo titolo per titolo certe sue storie che ti lasciavano disperato, annientato, senza consolazione, delle rappresentazioni in scala della vita vista da lontano. Nelle sue storie la verità non era per forza un valore positivo e non c’erano buoni o cattivi in senso stretto, a volte non esistevano nemmeno antagonisti, ma la contrapposizione drammatica avveniva con l’entropia, con l’entanglement quantistico, con gli scricchiolii degli ingranaggi dell’esistenza. Ripenso alla lettera mai letta buttata nel caminetto accesso da Constance nel finale de Il Bacio dell’Aguzzino, per non sapere la verità e continuare a vivere.

Ambrosini ha avuto anche il merito di portare alla Sergio Bonelli Editore dei disegnatori di grande talento ma ben poco classici come Bacilieri, Nizzoli o Borgioli. Oppure dei classici di livello altissimo, che sapevano davvero assimilare una sceneggiatura e far recitare i personaggi, penso a Camagni, Del Vecchio o Ornigotti. Napoleone in poco tempo sarebbe diventata la mia serie preferita di sempre, insieme a Magico Vento di Gianfranco Manfredi, nata nello stesso anno, e da quelle fortunatamente non mi sarei mai emancipato. Con buona pace dei Frank Miller e dei Neil Gaiman di questi gran cazzi.

Nel numero 47, Prigionieri del tempo, Ambrosini pubblicò anche una mia lettera. La mia reazione fu un misto di incredulità e un filo d’incazzatura, perché gli raccontavo anche un mio patimento adolescenziale che un albo di Napoleone mi aveva riportato alla mente e l’avevo indirizzata a lui e non alla testata. Poi, leggendola, vidi che in quel punto c’era un’ellissi, percepibile solo a me. Aveva avuto la discrezione di saltare quel passo delicato. Un’altra finì su Jan Dix, altra sua splendida miniserie, con uno degli epiloghi più intensi e annichilenti che abbia mai letto in un fumetto. Mi piaceva scrivergli, perché tra le altre cose era una persona gentile, amabile e ci teneva a farmi capire che non ero di disturbo. Quando andai a Lucca Comics per stringergli la mano per me fu come incontrare una star del rock progressive. Lui era per indole l’esatto contrario, ma riflesso nei miei occhi lo era in senso assoluto. E non credo se ne sia mai accorto.

Poi mandi avanti il nastro e, trentacinque anni dopo averlo conosciuto su Dylan Dog e venticinque da quel primo numero di Napoleone, ho avuto l’onore e la fortuna di averlo come copertinista di un mio libro. L’ultima volta che l’ho visto è stata ad aprile, dopo un mio spettacolo milanese di fine tour. Era già venuto a vedermi in passato e solo sapere di averlo in platea mi aveva condizionato sui monologhi da scegliere, perché per una volta avevo qualcuno di fronte a cui volevo piacere, con cui ci tenevo a fare bella figura. E mi dispiace ricordare che nel nostro ultimo incontro lo salutai un po’ velocemente, perché avevo molti rompicoglioni intorno che se tornassi indietro manderei tutti al diavolo per fermarmi a parlare con lui.

A gennaio uscirà una sua storia per Dylan Dog, forse l’ultima, non lo so. Non riesco a pensare a quello che Ambrosini ha lasciato ed essere in qualche modo contento, anche solo consolato. Io penso solo alle storie che mai realizzerà. Poteva esserci una sua nuova serie, nuove avventure dei suoi personaggi, due chiacchiere al bar davanti a un tramezzino e invece è finito tutto, come nei finali di certe storie di Napoleone in cui la morte irrompe un giorno qualunque e azzera ogni intrigo.

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