Ad essere disabili sono i luoghi, non le persone: torna il Disability Pride Italia | Rolling Stone Italia
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Ad essere disabili sono i luoghi, non le persone: torna il Disability Pride Italia

L'ottava edizione coinvolge Roma (città pilota) Milano, Bologna e Torino. L'obiettivo? Ricordarci che la felicità non spetta solo ai corpi abili

Ad essere disabili sono i luoghi, non le persone: torna il Disability Pride Italia

Foto per gentile concessione di Disability Pride Network

Ne è passata di acqua sotto i ponti dalle cosiddette Marce del Dolore, i cortei in cui negli anni ’60 le persone con disabilità chiedevano di vedersi riconosciuti i diritti civili con l’atteggiamento di chi invoca la mano della Misericordia. Negli ultimi anni assistiamo ad un lento sgretolarsi della retorica di stampo abilista che rappresenta, generalmente parlando in terza persona, la disabilità per sottrazione, con focus sulle mancanze e afflato pietista a fronte di una sempre più ricorrente autorappresentazione, soprattutto sui social, che trasforma la narrazione, smonta stereotipi e apporta cultura, permettendoci di percepire le persone nella propria totalità, oltre la propria diagnosi.

Alla graduale metamorfosi in corso termini comunicativi, non corrisponde un pari avanzamento nell’applicazione delle leggi e nell’adeguamento delle prassi in risposta ai bisogni reali delle persone con disabilità e dei loro familiari. È in questo lento passaggio sociale, culturale e semantico che si sviluppa il Disability Pride, fungendo allo stesso tempo da megafono, catalizzatore e ponte per le istanze di una società civile degna di questo nome.

«L’iniziativa nasce 8 anni fa quando ancora ero residente in Sicilia – ci racconta Carmelo Comisi, ideatore dell’evento e Presidente del Disability Network, una rete informale di associazioni legate (o meno) alle disabilità che sta assumendo via via la dimensione di un movimento nazionale che rivendica spazi e diritti – la prima edizione si chiamava Handy Pride, nata quasi per scherzo con una serie di eventi nella città di Ragusa e provincia in estate, poi sono venuto a conoscenza del Disability Pride di New York, mi sono messo in contatto con gli organizzatori e l’anno successivo lo abbiamo organizzato insieme a Palermo. Da qualche anno l’evento si svolge a Roma come progetto pilota, c’è stata poi una versione televisiva in onda su Rai Play durante la pandemia, mentre per questa ottava edizione siamo riusciti a organizzare, unitamente alla consueta parata, un talk show a tema, uno spettacolo serale e l’allestimento di un Disability Village, questo grazie alla forza del network sempre più partecipato con le cui organizzazioni, tutte con propria autonomia organizzativa, stiamo rendendo il Disability Pride itinerante, perché la strada per l’emancipazione passa necessariamente dalla consapevolezza dell’opinione pubblica, dal suo coinvolgimento e dalla diffusione della cultura dell’inclusione».

Prendersi il palcoscenico della propria vita e quello di Parco Schuster a Roma, ospitati dall’omonimo Festival, per confrontarsi prima nella talk La città universale. Istruzioni per l’uso a cura di Radio 32, poi per autorappresentarsi con uno show serale tra musica, danza e comicità e infine per marciare allegramente riprendendosi le strade della città. Manifestarsi, esprimere esigenze e soprattutto desideri pretendendo l’accesso agli ausili adatti per poterli perseguire fino in fondo. Prendersi il giardino pubblico, farne un villaggio inclusivo e cimentarsi in una serie di sport difficilmente approcciabili in spazi comuni: baseball per ciechi, skate in carrozzina, tennis da tavolo, scherma, tiro con l’arco, calcio balilla fino all’adaptive surf. Potervi accedere tutti e tutte nel parco cittadino. Così ha avuto inizio il Disability Pride a Roma, nel week end che ha preceduto le elezioni, con rumor allegro e potente teso a sollevare le istanze collettive come fossero zolle di terra da ribaltare per farvi radicare i diritti di più di dieci milioni di cittadini, tra persone con disabilità e il corollario delle famiglie, escluse, nei fatti, dagli spazi pubblici della città, dalla vita sociale, dalle relazioni. Se a questa fetta della popolazione aggiungiamo noi stessi – che potremmo trovarci un giorno anche semplicemente per vecchiaia, nelle stesse condizioni – diventa chiaro che la questione riguarda tutti e tutte.

Che ad essere disabili fossero i luoghi e non le persone lo aveva ampiamente dimostrato l’Architetto Americano Ronald L. Mace della North Carolina State University quando, nel 1985, coniò il termine di Universal Design per indicare una progettazione di qualità di edifici e oggetti che fossero adatti all’usabilità da parte della più ampia gamma di utenti: un passaggio percorribile da una persona su sedia a rotelle lo sarebbe stato anche per una mamma con passeggino e per chiunque altro. Se nei nostri centri commerciali ad esempio vi fosse una sensory room dove potersi rilassare lontano dalle luci del neon e dal brusio corroborante, questo potrebbe giovare sia a una persona autistica, che esposta a input prolungati di questa natura potrebbe andare incontro ad un sovraccarico difficilmente gestibile (cosiddetto meltdown), che da chiunque, come i clienti o lo stesso personale, voglia prendersi un momento di decompressione sensoriale.

Le barriere materiali e immateriali persistono in Italia, Paese quasi totalmente inadempiente rispetto alla Legge n. 41 del 1986 che istituisce i P.E.B.A. (Piani di Eliminazione delle Barriere Architettoniche) prima limitati agli edifici pubblici e poi esteso dalla Legge 104 del 1992, a intere porzioni di spazi urbani: sostanzialmente veniva dato a tutti i comuni un anno di tempo per mappare la totalità delle barriere presenti affinché si potessero individuare proposte progettuali di massima per l’eliminazione delle stesse, una stima dei costi e le priorità d’intervento, il quale dovrebbe essere preso in carico dal Comune e finanziato dalla Regione.

E bene, salvo qualche rarissima eccezione, siamo inadempienti da 36 anni, viviamo in città ancora fortemente disabilitanti, lontane dalla fruibilità universale nonostante dal 2019 esistano delle linee guida regionali per effettuare la mappatura di tutti gli ambienti e i servizi legati alla persona e ciò consente, come fatto nel Comune di Monterotondo, un lavoro voluminoso, puntuale e partecipato da cui è emerso un ulteriore aspetto relativo alle barriere culturali: «Mentre diamo per scontato il curarci dell’accessibilità delle persone con disabilità ai presidi sanitari e servizi assistenziali come l’ospedale o la farmacia, difficilmente rientra nel nostro immaginario il fatto che una persona con disabilità possa desiderare entrare in un negozio per comprare un costume da bagno ad esempio», afferma Isabella Bronzino, Vice Sindaca di Monterotondo e ospite nella talk. Una dichiarazione emblematica che ci dà il senso della mancata percezione dei bisogni cui occorre dare risposta ben oltre la ristrettezza che la definizione disabile impianta nelle nostre menti per l’abitudine a non rapportarsi con il non conforme che le vite manifestano.

«Non possono esistere vite che vengono prese in carico solo in maniera assistenziale, la felicità non è un diritto solo dei corpi abili – interviene Valentina Perniciaro, Presidente della Fondazione Tetrabondi in prima linea nel processo di mutazione del paradigma sulla disabilità – per dar voce ai propri bisogni, l’aspirazione ai propri desideri, le persone con disabilità necessitano dell’accesso al giusto ausilio con le opportune tecnologie, che consenta loro di fare ciò che vogliono, non ciò che secondo la propria patologia è stato scelto da protocollo che si debba fare. Il diritto all’autodeterminazione passa soprattutto per gli ausili – continua Valentina. Il salto di prospettiva sta proprio nel considerare la sedia a rotelle come strumento di libertà e non di coercizione e questo deve arrivare ovunque, altrimenti le persone con disabilità continueranno a vivere la vita che gli viene concessa e non quella che desiderano». E anche la scuola spesso diventa disabilitante quando non contempla modalità d’apprendimento diverse da uno standard idealtipico, quando è privo di docenti competenti per il sostegno, quando per mille ragioni non applica l’articolo n. 34 della Costituzione, ergo «La scuola è aperta a tutti»: Valentina Perniciaro invita sul palco Gaia, raccontandoci che la bambina non va a scuola come tutti i suoi coetanei da due anni perché avendo una tracheostomia, come suo figlio Sirio, necessita della presenza un infermiere per 6 ore al giorno, non di un operatore socio sanitario come viene proposto alla famiglia. Ecco dove vengono meno i diritti minimi e gli esempi si sprecano.

Per “socializzare i problemi” e aumentare così la consapevolezza, il Disability Network in collaborazione con l’Ordine degli Architetti di Roma ha creato le P.I.U’. acronimo di Passeggiate Inclusive Universali per tutti e tutte coloro, ben vengano amministratori e amministratrici, che vogliano provare il brivido dell’accessibilità urbana indossando bende, muovendosi su sedia a rotelle, bastoni bianchi alla mano. Diversi i municipi già coinvolti: «L’itinerario stesso delle P.I.U’. è un dispositivo con cui partire da un punto nodale della grande mobilità, come una stazione della metropolitana, per raggiungere un servizio pubblico o un asse commerciale, un luogo dove si socializza – ci spiega l’Arch. ta Alice Buzzone, Responsabile dell’Osservatorio Accessibilità e Universal Design dell’OAR – dobbiamo cercare di ampliare il più possibile questa rete nodale di destinazioni raggiungibili in autonomia da tutti e tutte e per poterlo realizzare, la rivoluzione della progettazione sta nel processo. Questo vuol dire che ogni qual volta che noi modifichiamo un luogo, dovremmo approfittarne per agire una trasformazione anche culturale altrimenti abbiamo sprecato un’occasione. Oggi possiamo parlare di co-progettazione urbana in cui i cittadini non sono soggetti da convincere per farci approvare i progetti, ma sono pubblici diversi da coinvolgere come risorse che ci possono indicare cosa fare. Cambiare una città in funzione dei diritti attraverso una socializzazione del processo è fondamentale perché ti abitua a rendere implicita la lente delle diversità».

Cause che si inanellano l’una nell’altra, accessibilità alla città, disponibilità ed erogazione gratuita di ausili all’avanguardia, vita indipendente e riconoscimento legale della figura del care giver, riconoscimento delle neuro divergenze e di tutte quelle disabilità invisibili solo recentemente diagnosticate, abbattimento di barriere fisiche, sensoriali sensoriali, digitali e culturali. Roma non è stata fatta in un giorno, e infatti ci stiamo ancora lavorando!

Da Piazza Venezia a Piazza del Popolo, nessuna barriera è riuscita ad ostacolare il flusso coloratissimo di corpi non conformi e menti divergenti che hanno attraversato il centro della capitale sulle percussioni di Samba Precario e Fruente Murguero incontrando l’attenzione e lo sguardo complice di passanti e turisti: il prossimo Disability Pride ci aspetta a Bologna sabato 1 e domenica 2 ottobre, poi a fine novembre sarà la volta di Torino.