A San Siro non c'è solo lo stadio | Rolling Stone Italia
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A San Siro non c’è solo lo stadio

Il mese scorso il quartiere milanese è finito su tutti i telegiornali per gli scontri durante le riprese del videoclip di Baby Gang e Neima Ezza, ma è molto di più: ci abbiamo fatto un giro, parlando con chi ci vive e prova a cambiarlo

A San Siro non c’è solo lo stadio

Illustrazioni di Salvatore Garzillo

Nel quartiere di San Siro il santo in questione è da tempo immemore vacante dalla sua sede: l’omonimo stadio è qualche fermata della metropolitana più in là, accanto alle ville dei calciatori, mentre l’antica chiesetta a lui dedicata è celata dalle mura di un convento in piazzale Lotto, tra ex capannoni industriali e tentativi di edilizia residenziale, ma ben lontano dalle case popolari che l’hanno reso celebre ultimamente. Se Cristo si è fermato a Eboli, insomma, San Siro non ha mai varcato la rotatoria di piazza Selinunte, teatro degli scontri che l’hanno portata alla ribalta su tutti i telegiornali.

Ricapitolando per i meno attenti: lo scorso 10 aprile Baby Gang, rapper ventenne di origini marocchine, deve girare il video del suo nuovo singolo, e decide di farlo a San Siro, visto che vanta un featuring di Neima Ezza, anche lui giovanissimo rapper di origine marocchina, nonché fiore all’occhiello del collettivo rap più chiacchierato del momento, Seven 7oo, che fa base proprio a San Siro. Non si tratta di prodotti amatoriali, per intenderci: entrambi hanno un contratto con una major. Neima condivide una storia sui suoi social, invitando chi volesse partecipare alle riprese a presentarsi sul set. Arrivano decine di ragazzini; in diverse storie su Instagram si vede qualcuno che brandisce un machete – non si sa se vero o finto, sembrerebbe un oggetto di scena – e Baby Gang che invita i convenuti a non scappare qualora arrivi la polizia, mentre altri salgono sulle macchine parcheggiate. La polizia alla fine arriva davvero per disperdere l’assembramento, ma con l’assetto delle grandi occasioni: in tenuta antisommossa, con i blindati e i lacrimogeni. Scatta una sassaiola che andrà avanti per metà pomeriggio, prima che la situazione torni alla tranquillità. Nei giorni successivi scatteranno provvedimenti penali e perquisizioni a tappeto nei confronti dei presenti, diversi minorenni verranno allontanati dalle famiglie e per settimane una camionetta dell’esercito stazionerà in piazza Selinunte a sorvegliare la situazione. Aumenteranno anche gli sgomberi, nonostante in teoria, a causa del Covid, ci sia un blocco degli sfratti in atto: “Purtroppo le camionette continuiamo a vederle” ci raccontano alcuni abitanti.

Quando arriviamo in via Micene, sede di uno degli spazi utilizzati dal Collettivo degli Abitanti di San Siro – uno dei comitati che si occupa di tutelare il diritto a un tetto di tutte le famiglie in zona, tra le altre cose – sono passate diverse settimane del fattaccio. La situazione sembra molto più tranquilla di come l’hanno raccontata i media negli ultimi giorni, ma l’esasperazione è palpabile. Il fatto che l’aria sia elettrica si coglie anche dal fatto che nessuno dei protagonisti degli scontri di piazza Selinunte, né dei loro coetanei, abbia voglia di parlare con noi. Attorno a un tavolo, in compenso, ci sono tre membri del Comitato Abitanti di San Siro. Alice, 37 anni, attivista della prima ora; Franco, 63 anni, pensionato; e Karima, 32 anni, mamma single di una bambina di quattro anni (tutti i nomi sono di fantasia).

Franco, ci racconta, ha vissuto per quindici anni all’Isola facendo il custode di un palazzo. “Quando hanno venduto il condominio, mi sono trovato in mezzo a una strada e sono tornato a vivere da mia madre, che ha ancora un alloggio popolare qui, dove sono cresciuto”. Karima, invece, è una cosiddetta occupante per necessità. “Sono nata in Tunisia, ma sono cresciuta in un paesino del sud Italia. Quando sono rimasta incinta ero a Milano da poco, facendo qualche lavoretto qua e là; a un certo punto mi sono ritrovata senza casa. Ho fatto una domanda per un alloggio popolare, ma non avendo la residenza in Lombardia non avevo i requisiti: i servizi sociali e mi hanno consigliato di tornare a partorire in Tunisia, dove viveva mia madre, nonostante io ormai sia cittadina italiana da un pezzo. Occupare un appartamento era l’unica soluzione”. Di storie come loro ce ne sono tante, e tante altre: famiglie di sette/otto persone stipate in appartamenti fatiscenti da 40 metri quadri, ragazzini che vivono di espedienti, abbandonati a se stessi. La musica, e in particolare la musica rap, è diventata una sorta di miraggio che può garantire un lasciapassare fuori dal quartiere, e di videoclip in zona ormai se ne girano parecchi. La domanda che tutti loro si pongono, e che in effetti è più che ragionevole, è la seguente: perché questi metodi così forti non sono stati usati per disperdere anche la folla della cosiddetta movida in Darsena, o quella dei tifosi dell’Inter in piazza Duomo?

Via Micene

“Ci ha lasciato un po’ stupiti, a dire il vero” dice Alice. “Basta andare in corso Vittorio Emanuele per vedere assembramenti anche più consistenti di quello che c’è stato qui. Perché tutto questo clamore che ha portato a militarizzare un intero quartiere?”. “Oltretutto, i ragazzi erano molti meno di quelli che riportavano i giornali” aggiunge Franco. “Chiaramente la polizia segue le indicazioni della politica, ma quelli che sono davvero incazzati non ci vanno, a manifestare davanti a Palazzo Marino. Non lo ritengono utile”. E i ragazzi di qui sono davvero incazzati, a ragione. Vedi ad esempio la connotazione etnica e religiosa che è stata data da alcune testate di destra all’iniziativa del video, girato a due giorni dall’inizio del Ramadan. “Macché!” ride Karima. “Te lo dico da musulmana: i ragazzi di seconda generazione se ne fregano della religione, qui. Sono tutti meticci, non stanno a guardare chi crede in cosa”.

Secondo il progetto Mapping San Siro, in collaborazione con il Politecnico, il numero di minori che risiedono nel quartiere è molto più alto, rispetto alle altre zone di Milano (i dati completi sono consultabili qui). Si tratta soprattutto di italiani di seconda generazione. “La politica non li ha mai cercati per assicurarsi che avessero una casa degna o l’accesso all’istruzione” racconta Alice. “Né si preoccupa del fatto che spesso, in piazza Selinunte, ci siano bambini fuori a giocare fino a tarda notte, o in orario scolastico”. Come se tutto fosse normale, come se quei bambini fossero meno “bambini” dei loro coetanei italiani, insomma. A metterci una pezza è l’organizzazione collettiva dal basso: associazioni che fanno attività artistiche, sportive e culturali in piazza e all’interno delle scuole della zona, spesso boicottate dai genitori oriundi italiani che preferiscono iscrivere i figli altrove. “Per i bambini è una grande possibilità: hanno davvero voglia di partecipare e di imparare. Mi commuove vedere che quando iniziano le vacanze, sono davvero tristi. Preferirebbero stare in classe, potendo scegliere”.

Altro discorso, ovviamente, è per i ragazzi dalle medie in su, in cui la dispersione scolastica è altissima, conferma don Claudio Burgio, cappellano del carcere Beccaria e referente della comunità per minori Kayros, che ha ospitato molti dei ragazzi di San Siro allontanati dalle famiglie. Tra le altre cose, in questo momento (anche se già maggiorenni) diversi rapper emergenti vivono presso la comunità Kayros, tra cui lo stesso Baby Gang e Sacky, uno dei fondatori del collettivo Seven 7oo.  Entrambi hanno commesso dei reati da minorenni e sono stati affidati alle cure di Don Claudio per un percorso di messa alla prova, che hanno ultimato qualche mese fa. “In attesa di trovare un’ulteriore soluzione abitativa, hanno chiesto di poter rimanere ancora qualche tempo in comunità” spiega. Cosa che a volte crea qualche disagio, vedi il caso delle perquisizioni avvenute all’interno delle loro camere, di cui circolano parecchie video su Instagram girati proprio dai diretti interessati.

“Le problematiche di questi ragazzi sono sempre le stesse: famiglie poco integrate, in cui le generazioni sono lontanissime tra di loro, genitori che non riescono a provvedere ai bisogni dei figli, case molto piccole e sovraffollate” spiega don Claudio. “Tutto questo ha portato molti di loro a intraprendere l’avventura della trap sia con l’obbiettivo del riscatto economico e sociale, sia come linguaggio di denuncia nei confronti del mondo adulto. Nelle loro canzoni raccontano molto bene ciò che hanno vissuto e, piaccia o non piaccia, bisogna ascoltarle con attenzione”. In generale, precisa, non si tratta di veri e propri criminali incalliti, ma di adolescenti che mettono in atto quello che lui definisce una sorta di “fai-da-te” per ottenere ciò che hanno tutti i loro coetanei: sneakers, giubbotti firmati, cellulari di ultima generazione… Nei confronti del loro quartiere hanno un rapporto di amore-odio. “Per capirlo basta guardare il documentario di Neima, Perif, ad esempio. Tra i rapper di San Siro è senz’altro uno dei più bravi e integrati, per quello che ho visto io”.

Neima Ezza

Negli anni don Claudio ha imparato a conoscere bene parecchi trapper di ultima generazione. L’idea di organizzare un incontro tra il sindaco Sala e i rapper Sacky e Rondo Da Sosa è partita proprio da lui, per agevolare il dialogo e l’ascolto. Questo però non risolve il problema alla base, perché la cultura di diffidenza nei confronti delle istituzioni che si respira in zona è sempre più pervasiva. “Quando hanno girato quel famoso video di Baby Gang e Neima, all’arrivo dei blindati sono usciti tutti in strada, anche i bambini” racconta. “Tant’è vero che gli ultimi arresti sono stati di ragazzini di quattordici anni, davvero piccoli. Dall’inizio dell’anno, secondo i dati che mi risultano, i ragazzi già fermati sono stati una quarantina. È chiaro che c’è un certo accanimento, perché si pensa che la trap sia una moda che porta alla degenerazione e che l’unico modo per contrastarla sia quello repressivo. Io penso esattamente il contrario: per me intervenire con i blindati in quella situazione è stato assolutamente inopportuno”.

Il linguaggio dell’hip hop è parlato da sempre a San Siro: sia quello militante ed educativo, che è uno dei megafoni utilizzati dal Comitato Abitanti di San Siro per le loro rivendicazioni, sia la distopia della trap e l’aggressività della UK Drill, portata dalle generazioni di giovanissimi come il collettivo Seven 7oo. “I ragazzi che vedete in piazza hanno addosso un’enorme rabbia, che poi esprimono nelle loro canzoni” dice semplicemente Karima. “Crescere in un ambiente in cui c’è gente in seria difficoltà, senza un’abitazione, senza un futuro, con le camionette che vanno e vengono continuamente per gli sgomberi facendosi strada tra le mamme che portano i bambini a scuola, ti dà una sensazione di assedio”. E la situazione attuale non ha certo migliorato quest’impressione: “Qualche settimana fa sono arrivati verso le cinque del mattino e si sono portati via alcuni ragazzi” racconta Franco, riferendosi alle forze dell’ordine. “I giornalisti hanno sollevato il clamore mediatico, ma non hanno voluto raccontare le loro storie: il quartiere è stanco di essere sbattuto sui giornali solo per episodi simili, e non per i veri problemi del territorio”, rincara la dose Alice.

In via Zamagna, nel cuore del quartiere, c’è un ex asilo ormai vuoto da trent’anni. Sul tetto spaccato è cresciuta una foresta incolta, una specie di bosco verticale involontario, e secondo molti abitanti della zona le bonifiche per l’amianto nell’edificio non sono mai state completate. Da anni dovrebbero ristrutturarlo, ma “farebbero prima a buttarlo già e a ricostruirlo da capo”, dice Franco. Molti sperano che possa diventare piuttosto un centro polifunzionale per i giovani della zona. Una realtà simile già c’è, anche se è un po’ decentrata: si trova ai limiti del quartiere, negli spazi di Mare Culturale Urbano, che comprende un’ex cascina e alcuni edifici trasformati in progetti di housing sociale. Qui c’è anche la sede di Attitude Recordz, un’etichetta-incubatore che vuole dare spazio ai ragazzi di San Siro che vogliono fare e diffondere il loro rap pur senza averne i mezzi. La particolarità è data anche dalla storia personale dei due fondatori, Matteo e Bongi. Matteo, quando era appena diciannovenne, ha ricevuto una condanna a vent’anni di carcere che sta ancora scontando; durante la detenzione si è laureato in scienze pedagogiche e si definisce “sia educatore che rieducato: quello che mi è successo mi ha fatto venire voglia di restituire a chi non ha gli strumenti per uscire da una situazione difficile”. Bongi ha avuto guai con la giustizia da minorenne: “Problemi in famiglia, problemi con la casa, finisci in brutte compagnie ed è un attimo ritrovarti in un giro di microcriminalità fatto di spaccio e rapine”. Ha intrapreso un percorso di messa alla prova che gli è servito molto, dice: dopo la psicoterapia e il volontariato si è totalmente riabilitato, e oggi insieme a Matteo organizza eventi, con particolare attenzione alla musica e all’aiutare gli altri a non ripetere i loro stessi errori. Si sono incontrati durante un contest di freestyle, e grazie ai finanziamenti arrivati da un bando è nata l’etichetta e lo studio di registrazione. “La maggior parte dei ragazzi che vengono a registrare da noi sono giovani disagiati, che hanno già avuto a che fare col carcere, oppure che sono disoccupati, hanno mollato la scuola e fanno fatica a trovare spazi per sfogarsi”. Le richieste sono talmente tante che non riescono neanche più a starci dietro, raccontano, tanto che stanno cercando nuove risorse per espandersi. Un’altra San Siro sarebbe possibile, insomma.