100 anni di Lawrence Ferlinghetti, il padre della Beat Generation | Rolling Stone Italia
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100 anni di Lawrence Ferlinghetti, il padre della Beat Generation

Outsider, artista super partes, editore di sé e scopritore di talenti, il poeta statunitense ha ispirato intere generazioni di artisti, da Jim Morrison a Omar Pedrini, che ci ha dato la sua testimonianza

Crediti: AP Photo. Fonte: Twitter

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«La poesia che si è fatta udire di recente è ciò che potrebbe essere chiamata “poesia di strada”. Perché consiste nel far uscire il poeta dal suo interiore santuario estetico, dove troppo a lungo è rimasto a contemplare il suo complicato ombelico. Consiste nel riportare la poesia nella strada dove era una volta, fuori dalle classi, fuori dalle facoltà e in realtà fuori dalla pagina stampata. La parola stampata ha reso la poesia silenziosa».

Queste parole, pronunciate nel 1958 da un Lawrence Ferlinghetti sulla soglia dei quarant’anni, restano forse tra i manifesti migliori di tutto il movimento Beat, di cui lo stesso Ferlinghetti non era solo uno dei massimi esponenti (anche se il meno rockstar), ma il più importante editore e divulgatore. Nato poco dopo la fine della Grande Guerra da padre bresciano emigrato negli States, Ferlinghetti era poi tornato in Europa con una borsa di studio che gli aveva permesso di studiare poesia alla Sorbona.

Fu anche grazie a quell’esperienza che la sua sensibilità già spiccata si arricchì di quelle sfumature che ne forgiarono la poetica: l’osservazione lirica della realtà che scava dentro all’esperienza quotidiana, l’esaltazione dell’eros e dell’arte, l’approccio anarchico alla politica e alle questioni sociali. Il rifiuto delle convenzioni borghesi. Proprio come sottolineava Lucia Cucciarelli nel volume Non Come Dante Poesie 1990-1995 (Minimum Fax, 1996), Ferlinghetti con le sue opere di ogni genere ha permeato del tutto il ventesimo secolo:《Non come Dante, è vero, ma come Dante Ferlinghetti ha attraversato la cultura di questo secolo, incontrandone fisicamente e idealmente gli epigoni letterari e artistici. Come Dante, Ferlinghetti è stato un outsider, un artista super partes, editore di sé e scopritore di talenti, traduttore, ispiratore di avvenimenti culturali. Un vero e proprio leader spirituale seguito da milioni di persone che, negli anni cinquanta, giravano con Coney Island Of My Mind in tasca, una specie di parola chiave di una generazione che usciva dalla guerra ed entrava negli ingranaggi della civiltà industrializzata con la testa ancora piena di illusioni》.

È quindi bello e, va da sé, poetico pensare a questo uomo che spegne le sue cento candeline proprio in quella City Lights dove un giovane Jim Morrison, vestito in stile beat con felpa, jeans e sandali, lo avvicinò per un saluto, per poi fuggire a gambe levate quando questi gli rispose con affetto. La forza del suo messaggio ha avuto la capacità di propagarsi proprio attraverso quella di menti come quella del leader dei Doors, sopravvivendo a tutto, al Vietnam, a Nixon, a Trump, contro i quali si sono scagliate alcune delle sue migliori invettive. E pensare, che se non fosse in tour quasi ogni giorno della sua vita, a quel compleanno avrebbe potuto partecipare anche Omar Pedrini, forse l’unico artista del nostro paese ad essere legato a Ferlinghetti da un’amicizia sincera e di lungo corso.

Bresciano anche lui, a testimonianza di quanto, alla fine, tutto torni alle origini, Pedrini (“cuore grande e malandrino” come lo descrisse un giorno Lawrence) la lezione di quella San Francisco se la porta dentro da sempre e continua a viverla in modo ostinato e contrario. Un credo che l’ha portato più volte a musicare opere di Ferlinghetti, a partire da quella Ferlinghetti Blues presente in El Topo Grand Hotel, un disco completamente dedicato alla sua figura e a quella di Alejandro Jodorowskij. 《Mai però mi sarei immaginato di salire sullo stesso palco di Lawrence. Successe nel 2005, quando, grazie all’ amico artista veronese Francesco Conz e al fotografo Walter Pescara fui invitato con Enrico Ghedi al San Barnaba, per accompagnarlo alla chitarra e al piano durante una sua performance pittorica in un auditorium stracolmo. Ciò che mi colpì di più fu il suo viso sereno, lo sguardo curioso di un bambino. Chiedeva informazioni ed era entusiasta di tutto, in un’Italia che avrebbe raccontato nei suoi diari come un novello Goethe.

Ad ogni modo, la cosa a colpire di più è che, a differenza della maggior parte degli artisti sopra i sessanta, oggi come nel 1958, l’ultimo dei Beat resti di una modernità stupefacente. E per rendersene conto, basta aprire a caso Scoppi Urla Risate, l’ultima raccolta pubblicata dal poeta. Con estrema lucidità, in uno stralcio della poesia intitolata Ma Chi Sono I Barbari, il poeta riesce a descrivere in poche parole la nostra epoca:

Fratello, smetti di cercare
Siamo noi quelli contro cui i padri ci han messo in guardia
gli illuminati
nati per governare il mondo
grazie a computer che assicurano
assoluto isolamento e solitudine
Non chiamarmi ti chiamo io
Non c’è più alcun bisogno di conversare
Un disinvolto cinismo va di gran moda
e i Twitterati imparano
Un grande sonno
ci ha sopraffatti tutti
coi dispositivi in mano

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