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Ian
Curtis

40 anni senza gioia

Ian
Curtis

40 anni senza gioia

Mauro Ermanno Giovanardi, "Love Will Tear Us Apart"


Mauro Ermanno Giovanardi: voce
Gionata Bettini: produzione, programmazione elettronica, basso e mixing
Francesco Tumminelli Deasonika: chitarre

Una corsa verso un cielo velenoso, spalancato di promesse e allo stesso tempo uno sguardo allo specchietto retrovisore che saluta per sempre l’adolescenza. Così Max Casacci dei Subsonica racconta la musica di Ian Curtis e dei Joy Division. Quarant’anni esatti dopo la morte del cantante, abbiamo chiesto ad alcuni musicisti italiani di raccontarci il loro rapporto con lui e con la sua musica. Alcuni, come lo stesso Casacci e Mauro Ermanno Giovanardi dei La Crus che offre la colonna sonora di questa pagina con una versione inedita di Love Will Tear Us Apart, parteciparono dieci anni dopo la morte di Curtis a un tributo italiano ai Joy Division intitolato Something About Joy. Cristiano Godano dei Marlene Kuntz non ha mai avuto il culto della band di Manchester, eppure scrive parole belle e vere sul mix straziante di epilessia e depressione e sul suo “innocente pregiudizio” verso la band inglese. E poi c’è Eugenio Sournia che con i suoi Siberia ha pubblicato di recente una canzone intitolata Ian Curtis. Scrive dello stigma che disturbi psicologici e psichiatrici possono creare, e ne sa qualcosa. Tutti leggono la vicenda di Ian Curtis e dei Joy Division filtrandola attraverso la loro storia personale. Buona lettura.

Ian Curtis

Max Casacci

«Ci sono arrivato un attimo dopo. Nell’adolescenza c’era stata la febbre per quelli che sapevano suonare. La chitarra di Jimmy Page, i gruppi prog, il basso di Jaco Pastorius, il soul, il jazz. Il post punk, invece, sarebbe stata la musica dei miei 20 anni. Che iniziavano proprio mentre Ian se ne andava. E comunque ci sono arrivato lo stesso un attimo dopo. Era più facile entrare nel cuore dei primi ’80 attraverso i ritmi dei Talking Heads, lo stile dei Japan, le densità sonore dei Cure, arpeggi e gorgheggi di Siouxsie and the Banshees. Quei fighi che suonavano in modo strano, ma che “suonavano”. Mentre i Joy Division, con i loro strumenti, parevano più intenti ad evocare qualcosa di simile all’arte visiva. Però, nel codice di quegli anni, da qualche parte stava scritto che se non ci arrivavi, sentivi comunque di doverci provare. Anche perché c’era sempre qualcuno che ti faceva capire che ne valeva la pena. Che entrarci dentro corrispondeva ad un premio, ad un passaggio di coscienza. E alla fine ci sono entrato, in quel gorgo di eternità che Ian Curtis, con la sua morte, avrebbe reso immortale. E non ne sono più uscito. Ancora oggi la voce vibrante, le corde vibranti il ritmo vibrante dei Joy Division è un richiamo fortissimo, è qualcosa di incastrato di traverso lì dove nascono i respiri. È una corsa verso un cielo velenoso, spalancato di promesse. È lo sguardo allo specchietto retrovisore che saluta per sempre l’adolescenza».

Mauro Ermanno Giovanardi

«Scrivere qualcosa di non banale su di loro è molto difficile. La retorica è sempre dietro l’angolo. È già stato scritto tanto. Tutto. Ne han fatto anche dei film. Proverò dunque a raccontarmi, che è la cosa più onesta e sincera che si possa fare. Io sono del ’62 e nel ’79 avevo 17 anni. Per me scoprire quel tipo di musica, è stato davvero pazzesco. Sembrerà strano da dire, ma ancora non era stata sdoganata dal movimento studentesco (furono i Police nell’aprile dell’80 al Palalido, a far conoscere all’ala progressista e di sinistra il punk, il post punk, la new wave) e se ascoltavi quella roba lì, venivi additato come fascista. O preso a mazzate dagli autonomi. Mi ricordo che Francesco D’Abramo, che è stato il nostro John Peel, aveva una trasmissione a Radio Popolare chiamata Shock Produzioni, e appunto, era guardato malissimo, per dirla con un eufemismo, perché passava i Joy Division e portava il maglione nero a collo alto da esistenzialista. Oh, Radio Popolare, mica Radio Maria. Poi nel giro di pochissimo tempo, quella scena divenne patrimonio della sinistra e dei centri sociali, complici anche le foto che iniziarono a girare con Joe Strummer dei Clash, con la t-shirt Red Brigades e la Stella a 5 punte. Questo era l’humus culturale di quegli anni. A pensarci ora, manco sembra vero.

Una delle cose che mi ricordo in maniera più vivida era lo stupore nel sentire per la prima volta quei dischi. Sembrava davvero qualcosa di completamente nuovo. Mai sentito. Senza alcun riferimento storico. iUnknown Pleasure o Join Hands di Siouxsie a cosa li potevi paragonare? Jimi Hendrix a suo tempo, aveva sì rivoluzionato il modo di suonare la chitarra, però la radice era sempre blues. She Lost Control era davvero qualcosa di mai sentito. E il suono punk dei Pistols, già usciti da un paio d’anni insieme a tantissime altre band, era già stato assimilato, declinato in vari modi, ma la new wave, il post punk appunto, era paradossalmente ancora più folgorante.

Il modo di cantare di Ian Curtis era oltre ogni cosa. Aveva rabbia ed esistenzialismo insieme. Mai urlato ma con un grido che arrivava da dentro. Baritonale all’eccesso, a volte anche fastidioso, ma così intenso, doloroso. Io li scoprii i primi mesi dell’80 e qualche mese dopo lui si suicidò. Ma come? Scopri un giocattolo nuovo e te lo portano già via? Anche il loro immaginario era perfetto. Avanti. A fuoco, minimale e ruvido. Seminali davvero in tutto. Migliaia di band presero da lì in poi il loro approccio, la loro sonorità, la loro attitudine.

Se devo essere onesto per un periodo, nella seconda metà degli anni ’80, da snob come ero/sono, presi le distanze dai JD, perché insieme ai Cure, divennero l’emblema del dark e dei panineri (chiamavamo in maniera ironica i darkettoni vestiti tutti uguali, col taglio di capelli e rossetto alla Robert Smith), e quando un gruppo di culto che hai scoperto da ragazzino, arriva sulla bocca di tutti, questo mito un po’ si spegne. Ma con qualche anno di maturità in più, e un pochino di intelligenza (pochino ho detto) ti accorgi che la loro opera non può essere cancellata da un atteggiamento snob adolescenziale. Infatti riflettevo proprio ieri, che uno dei loro pezzi più immortali, Love Will Tear Us Apart, nel corso di 30 anni l’ho rifatto per ben tre volte. La prima con Manuel (Agnelli) al pianoforte nella compilation/tributo ai Joy Division della Vox Pop uscita nel ‘90 Something About Joy, la seconda in una versione super elettronica per la colonna sonora di un film poi mai uscito, ed infine proprio qualche mese fa, usata per il nuovo spettacolo con Massimo Cotto Il Decamerock nel capitolo in cui lui parla di Ian Curtis. Non mi è mai capitato per nessun altro gruppo».

Ian Curtis

Cristiano Godano

«Per una serie di motivi i Joy Division non sono mai entrati nel gotha dei miei amori: neanche se questo fosse composto da 30 nomi, per dire, temo ci sarebbero. Un motivo fra i possibili è il breve scarto generazionale che mi separa da questa epica band: iniziai infatti a diventare un adepto del rock alternative (che per brevità classifico in tutto ciò che apprendevo dalla bibbia Rockerilla, tra wave e dark e punk e post punk e rock e paisley underground e metal e cantautorato sbilenco e folk alternativo eccetera) due anni dopo l'uscita di Closer, anno 1980, e nelle varie operazioni di recupero delle cose perdute che poi nel tempo feci (in questo momento penso che fra le più clamorose ci furono Bob Dylan, Leonard Cohen e i Low), i Joy Division hanno continuato a rimanere nelle immediate retrovie delle mie preferenze: cioè mi piacciono molto-a-volte-moltissimo, ma senza che io ne sia fan. Credo di sapere perché (ecco un altro motivo fra i tanti): i seguaci dei Joy Division (e dei Cure e di Siouxsie and the Banshees) erano all'epoca troppo dark per i miei gusti. Dark nel senso di poseurs, mentre io andavo alla ricerca istintiva di qualcosa di più verace (così mi sembrava), più cazzuto e più apparentato col rock (in Inghilterra in quel periodo – parlo proprio di 1980 e giù di lì – i miei miti erano i Killing Joke innanzitutto).

Con questo innocente pregiudizio, di cui i Joy Division non erano minimamente colpevoli, ho sempre ascoltato i tre nomi suddetti senza il fuoco sacro della passione, ma ben sapendo (ora più che mai) riconoscerne il valore. Quello dei Joy Division è immenso, e purtroppo temo lo sia anche per via del suicidio di Ian Curtis: un suicidio può molto dal punto di vista del marketing. Ora, calma: non sono un tipo caustico e provocatore. Ho osato molto e chiedo davvero scusa ai fan (leggetemi fino alla fine e tenete a bada la vostra indignazione, se potete), ma per me, se lui ci fosse ancora, non credo che si potrebbe pensare che Siouxsie e Cure varrebbero meno in termini di influenze e via dicendo (è un discorso tanto lungo quanto delicato, ma questo non è lo spazio giusto per approfondire. In ogni caso: è una modesta sensazione personale, lecita, ovviamente non suffragata dai fatti). Lasciando però le cose come sono andate, dell'eredità dei Joy Division a tutti gli effetti si può dire che sia di immenso valore, e che tutti i gruppi della new wave venuti dopo abbiano dovuto fare i conti con una estetica estremamente innovativa (non solo musicale... e non solo lirica... penso all'incredibile copertina di Unknown Pleasures, che definire iconica è dir poco). Mi commuovono invece fino all'inverosimile la storia di lui e quel dibattersi lacerante fra i sogni e la realtà, con "la vita vera" che arriva troppo presto a reclamare le sue pretese, ovvero la moglie e una figlia in età giovane (21 anni, se non erro), quando lui non poteva altro che pensare, data la sua natura, ai suoi sogni di gloria, "passando il tempo a cercare la bellezza ovunque, senza utilità".

Quella goffaggine nella vita pratica che gli viene attribuita, e quel perdersi dietro a un'idea di successo qualsiasi pur di poter viver di musica, li conosco molto bene e con loro empatizzo completamente, e per fortuna io all'epoca della ricerca del mio personale successo per vivere di musica a mia volta (per me l'avventura iniziò con Catartica, a 27 anni, cioè tardissimo), non pativo cose terribili come l'epilessia (evento peculiare) e la depressione (evento al contrario diffuso – ne so qualcosa – anche se all'epoca era martoriato da stigma sociali angosciosi che impedivano di fare outing salvifici). Un mix straziante, e un epilogo probabile (il suicidio) che a certe condizioni può addirittura essere l'unica soluzione liberatrice. Prima di essa, per nostra fortuna, una collezione non cospicua ma preziosa di testi intensissimi e ispirati dalla dannazione e da una forma di invincibile disperazione».

Ian Curtis

Eugenio Sournia (Siberia)

«Ogni innamoramento è fatto a modo suo, ma una costante quasi fissa è il saper ricordare con estrema precisione il primo fatale incontro con l’oggetto del proprio amore. Mi innamorai dei Joy Division una domenica mattina dell’inverno tra il 2008 e il 2009: stavo tornando dalla messa con mia madre in macchina, e alla radio partì Love Will Tear Us Apart. All’epoca avevamo un modem a 56k, e scaricare una canzone su eMule spesso richiedeva ore; ciò nonostante, appena arrivato a casa misi in download il brano appena sentito.

Il giorno dopo, a scuola, sostenni un provino per un programma della defunta MTV. Da buon adolescente, per me parteciparvi era quanto di più cool potesse capitarmi in quel momento della vita. Alla fatidica domanda “Che musica ascolti” risposi senza pensare: “i Joy Division!”. Era bastata una sola canzone a capire che quel suono, quell’atmosfera, quei testi, mi identificavano e mi raccontavano meglio di chiunque altro.

Negli anni successivi ho cominciato a soffrire di vari disturbi psicologici e psichiatrici. Sono stato e sono in parte tuttora in terapia con litio, antidepressivi e altre amenità. Ne parlo apertamente perché ho sempre pensato che sia necessario eliminare definitivamente il residuo stigma riguardo i problemi mentali, di ogni intensità, per curarli come si fa con ogni altra malattia. Se da ragazzino il suicidio di Curtis mi pareva in parte romantico, oggi, pur essendo per definizione ogni persona irripetibile, credo di poter dire di vederlo nella sua drammaticità, umana e artistica.

Da autore, senza dubbio dotato di una mera frazione del talento lirico del frontman dei JD, l’età (oggi ho 28 anni) mi ha portato a variare i temi della mia scrittura e gli umori. Posso dire che il mio più grande rimpianto è il non poter vedere come Ian avrebbe affrontato a livello artistico la sua crescita, gli altri sentimenti che senz’altro aveva e avrebbe provato nel corso della sua vita, cristallizzata per sempre nell’età di 23 anni e nell’esperienza dei JD».