I 10 migliori dischi shoegaze anni ’90 | Rolling Stone Italia
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I 10 migliori dischi shoegaze anni ’90

Muri di chitarre, riverberi, distorsioni, ritmi implacabili, voci confuse nel suono. È la musica dei gruppi inglesi che aprirono la strada al brit pop con un sound ipnotico e narcotizzante. Ecco gli album da ascoltare

I 10 migliori dischi shoegaze anni ’90

My Boody Valentine dal vivo

Foto: Anna Meldal/Pitch Perfect

Immaginate di trovarvi in una grande sala piena di specchi, come quelle che si trovano spesso nei luna park. Guardate la vostra immagine riflessa all’infinito. Immaginate che questi riflessi diventino musica. Un suono pieno di echi tra i quali si muovono voci distanti, quasi fantasmatiche, che giocano a rincorrersi tra molteplici realtà.

Ora traslate tutto questo in ambito rock: sezioni ritmiche che viaggiano belle dritte sovrastate da immensi muri di chitarre elettriche cariche di riverberi e distorsioni, un canto (spesso a due voci armonizzate) che piuttosto che spiccare sembra volersi uniformare al tappeto diventandone uno dei tanti elementi. Con un po’ di immaginazione potremmo vedere angeli che lanciano il loro ultimo grido prima di sprofondare tra le fiamme.

Tutto questo è shoegaze, un genere che ha avuto solo pochi anni di ribalta mediatica, ma in realtà non ha mai smesso di affascinare profondamente chi cerca letteralmente di affogare nella musica. Nessuno stile è mai stato altrettanto avvolgente, ipnotico, sognante e narcotizzante. Gli aggettivi potrebbero continuare all’infinito, come all’infinito sembra espandersi questa musica.

Le basi vengono da lontano: certe pagine più avanguardiste dei Velvet Underground, i Pink Floyd barrettiani, i Red Krayola di Mayo Thompson. Ma sono i tanto vituperati anni ’80 a fornire il terreno nel quale lo shoegaze si svilupperà. Se si ascoltano Psychocandy dei Jesus and Mary Chain e Treasure dei Coceau Twins si capirà quanto in questi due lavori ci sia già in nuce tutto ciò che lo shoegaze diventerà, con l’attitudine sonora dei primi e il sogno dei secondi fusi insieme. Verso la fine del decennio, comincia quindi a nascere un vero e proprio movimento. Inizialmente pare svilupparsi sulla scia di band quali gli ultra-psichedelici Spacemen 3. Lo shoegaze andrà però oltre i rigurgiti lisergici, o meglio, dalla psichedelia prenderà a man bassa ma insieme ci metterà una bella dose di krautrock e un’irrinunciabile, quanto irresistibile, verve brit pop.

Sono gli irlandesi My Bloody Valentine a sdoganare per primi il nuovo genere, da lì sarà tutto un proliferare di band che hanno una particolarità ulteriore: non amano dare spettacolo e in generale puntare sull’immagine. Tutt’altro, sono gruppi di giovanissimi (spesso sui 18-20 anni) che semplicemente salgono sul palco e suonano con il capo rivolto verso il basso, per tenere sempre sott’occhio la miriade di effetti per chitarra di cui sono circondati, così essenziali per il proprio e altrui stordimento. A vederli sembrava stessero tutto il tempo a guardarsi le scarpe. È fatta, trovato anche il nome per il movimento, coniato nel 1990 dal giornalista del Melody Maker Steve Sutherland.

Il momento d’oro dello shoegaze è però di breve durata, la scena si sfilaccia presto e dalle sue costole si sviluppano il dream pop, il brit pop, l’art indie dei Radiohead, il retro pysch pop di Broadcast, Lali Puna e Postal Service, e certo post rock di Flying Saucer Attack, Third Eye Foundation, Hood, Autolux. I puri “guardatori di scarpe” però non spariranno mai, ancora oggi in ogni angolo del mondo ci sono shoegaze-dipendenti, suonatori e ascoltatori, vi basterà consultare questo bel sito italiano per rendervene conto. Ciò senza dimenticare che negli anni sono sorti il nugaze, il blackgaze, il witchgaze, l’electrogaze e via gazeggiando. Oltre tutto questo un’ascoltata a band odierne quali Ringo Deathstarr o Cigarettes After Sex sarà utile per capire quali siano le loro radici.

Vista la poca attenzione che, dopo gli anni d’oro, è stata riservata a uno stile tanto unico quanto ammaliante, mi è sembrato doveroso stendere una lista dei 10 capisaldi del genere, tutti usciti nel Regno Unito tra il 1990 e il 1993. Qualcuno noterà la mancanza di band da molti ritenute appartenenti allo shoegaze come Specemen 3 e affini (Spritualized, Spectrum), Verve, Blonde Redhead, Mercury Rev. La ragione è semplice: per chi scrive questi grandi gruppi hanno caratteristiche che solo in parte rispettano quelle del genere (e alcuni sono americani). Detto ciò, pronti a munirsi di biglietto per la galleria degli specchi, il ritorno non è garantito.

10. “Doppelgänger” Curve (1992)

I Curve della fascinosa Toni Halliday e del polistrumentista Dean Garcia hanno inciso una serie di album colmi di sensuali melodie pop deluxe annegate nei consueti abissi chitarristici. Del loro primo lavoro si ricorda in particolare il singolo Horror Head, sublime e spettacolare, tra vocalizzi stregoneschi e aperture di luce abbagliante. Altrove si scorgono addirittura echi dei Prodigy che verranno.

9. “The Comforts of Madness” Pale Saints (1990)

Pubblicato dall’eminente 4AD, il debutto del trio di Leeds è di quelli destinati a lasciare il segno. Al contrario di una certa tendenza dello shoegaze verso ritmiche ripetitive e ipnotiche, la musica dei Pale Saints sembra spingersi in diverse direzioni all’interno della stessa canzone. Largo quindi a frequenti cambi di tempo e a una spiccata propensione per la psichedelia americana, tanto dei ’60 quanto attuale. Dal passato prendono certi modi chitarristici e vocali dei Byrds, dal presente (dell’epoca) la mirabile cover di Fell From the Sun degli Opal.

8. “Quique” Seefeel (1993)

Con i misteriosi Seefeel le cose si complicano. Definire Quique disco shoegaze tout court è arduo, bisognerebbe anzitutto parlare di afflati techno, dream pop, ambient e dub. Nondimeno le atmosfere narcotiche (pare di sentire i Can sotto anfetamine), l’impianto sonoro di fitti intrecci chitarre-tastiere e le voci (distanti e rapite come d’uso) non può che far propendere verso una dimensione shoegaze che già sta virando verso il futuro.

7. “Spooky” Lush (1992)

Con i (o le) Lush di Miki Berenyi ed Emma Anderson ci si addentra verso una versione più poppeggiante del genere. Un pop scintillante come sole sul mare mentre sei fatto di LSD. Con il canto armonizzato delle due sirene a procedere sinuoso tra gli sbarramenti chitarristici e la vivace sezione ritmica. Nothing Natural, Tiny Smiles, Ocean sono pura delizia shoepopgaze, un attimo prima che il quartetto si butti anima e corpo nel nascente brit pop.

6. “Whirlpool” Chapterhouse (1991)

Dentro Whirlpool c’è uno dei brani più incredibili della storia, non solo per quello che riguarda lo shoegaze. La canzone si intitola Autosleeper, cinque minuti di pura elevazione, tra distese abbaglianti di voci e chitarre in estasi e accelerazioni improvvise da fare esplodere il cervello. Dopo tale capolavoro il resto si lascia comunque ascoltare con grande piacere, ancora con pesanti echi psych ’60 virati in una modernità pop sull’orlo della catatonia.

5. “A Gilded Eternity” Loop (1990)

I Loop sono di nuovo qualcosa in più del “normale” shoegaze. In questo caso tanto krautrock messo insieme alle trame spaziali degli Hawkwind e a certo garage rock di marca Stooges-MC5. Al contrario di suddette ruvide influenze però i Loop traslano la loro proposta verso il sogno e l’allucinazione. A Gilded Eternity, in origine doppio album, è un po’ il Tago Mago dello shoegaze, con dentro mille influenze sparse a deflagrare nello spazio di lunghe e devastanti pièce de résistance da ascoltare in stati alterati di coscienza.

4. “Loveless” My Bloody Valentine (1991)

Secoli fa la gente scriveva sui muri “Clapton is God”, per quello che al momento ci riguarda diciamo invece “Kevin Shields is God”. Loveless è da molti definito l’apice dello shoegaze, e si capisce perché. Le canzoni (o quello che si capisce di queste canzoni) sono perfette, il magma è caotico e ribollente al punto giusto, le voci celestiali passano tutto il tempo a nuotarvi e ad affogarvi. Una vera enciclopedia di quello che deve fare lo shoegaze: stordire.

3. “Need for Not” Levitation (1992)

I Levitation di Terry Bickers (già negli House of Love) sono uno dei segreti musicali meglio celati della terra d’Albione. Si tratta di un gruppo perfetto di musicisti che proponeva uno shoegaze di eccelsa qualità, influenzato tanto dal prog quanto dalla world music e dall’elettronica. Autori di due soli album, i Levitation danno il meglio in Need for Not, sospeso realmente tra paradiso e inferno, con brani capaci di mandare fuori di testa anche il più sano di mente, vedi Arcs of Light and Dew, Pieces of Mary, Hangnail o la stupefacente (proprio in quel senso) Smile.

2. “Nowhere” Ride (1990)

Con Nowhere il genere raggiunge uno dei suoi massimi picchi, ben messo in scena da Seagull, la traccia iniziale, che si potrebbe definire il manifesto dello shoegaze. Una forsennata cavalcata con le corde elettriche tese fino allo spasimo e le due voci di Mark Gardener e Andy Bell (poi con gli Oasis) a intonare in trance versi come “Looking down I see you far below / Looking up you see my spirit glow”. Poi vengono sommersi. E tutte le altre canzoni sono semplicemente perfette.

1. “Just for a day” Slowdive (1991)

Eterei e trascendentali, gli Slowdive, nel 1991, consegnano alla storia il più emozionante album dello shoegaze tutto. Just for a Day è magia pura, accordi liquidi, tastiere avvolgenti, tutto l’incanto dei Cocteau Twins e il dramma dei Cure amalgamati in una dimensione ancora più onirica e soprannaturale. Ballad of Sister Sue è l’apice della commozione, Catch the Breeze è proprio quello che dice il titolo, Erik’s Song è una scogliera a picco sul mare in un giorno di pioggia. Ancora e ancora, fino al completo abbandono.

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