Perché Catherine Deneuve andrebbe insegnata a scuola | Rolling Stone Italia
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Perché Catherine Deneuve andrebbe insegnata a scuola

L'attrice è stata ospite di Giletti che l'ha tempestata di domande surreali a proposito della sua lettera sul caso Weinstein. Lei, però, si rifiuta di fare la diva, di concederci di frugarle nella vita privata per farne un feticcio, un testimonial.

Perché Catherine Deneuve andrebbe insegnata a scuola

Foto dpa picture alliance / Alamy / IPA

C’è un punto, nella lettera sul #metoo delle cento francesi al Monde, quella che in Italia è diventata “lettera della Deneuve in difesa delle molestie”, che ragiona sull’assenza di una distinzione “tra l’uomo e l’opera”. E’ solo uno degli snodi trascurati di un testo che è stato fatto a pezzi, letto male, tradotto peggio e sul quale Massimo Giletti, domenica scorsa, avendo ospite Catherine Deneuve al suo Non è l’Arena (mentre voi, pazzi, chissà dov’eravate a ciondolare), non vedeva l’ora di strapparle una dichiarazione che desse un titolo ai giornali del giorno dopo. Magari una ritrattazione. Magari un j’accuse.

Invece, Caterine Deneuve ha risposto, una, due, tre volte (Giletti ha insistito, sapete com’è), che no, lei non aveva nessuna intenzione di dare in pasto alla televisione parole che sarebbero poi state stravolte: «ho scritto una lettera, non mi presto ad altro», ha detto e ripetuto. Una lettera non si discute in televisione, né si consegna ai social network. Riconoscere l’opportunità dei mezzi con cui esprimersi è fondamentale. Quanto è complicato farlo? Deneuve ha smontato la convinzione che si possa e debba impedire la manipolazione di un pensiero rispondendo a domande (pure se cretine e tendenziose), fornendo spiegazioni ulteriori (pure se dietro a un «ce lo dica meglio» si nasconde un «si corregga»), prestandosi alla discussione e ridiscussione continua, indipendentemente da chi venga richiesta.

Questo, nonostante la lettera al Monde avesse suscitato polemiche accese (alcune delle quali dovute a una lettura scomposta del testo) e, quindi, nonostante a Deneuve una tribuna televisiva potesse far comodo per smentire, replicare, riparare. Durante tutta l’intervista, Giletti ha tentato di mescolare la donna e l’attrice, l’attrice e la diva: è anche da quella mescolanza che Deneuve si è ritratta (“non si confonde l’uomo e l’opera”, magari, significa anche questo). Le ha chiesto cosa, di Mastroianni, l’avesse convinta a farci una figlia (risposta: «è un affare privato, non lo dico in pubblico»). Le ha mostrato un video in cui lei diceva ad Andreotti quanto trovasse ingiusto che un attore prendesse posizioni politiche, vista la sua influenza sulle persone: incredibilmente, un paio di battute dopo, Giletti le ha domandato cosa pensasse dell’immigrazione, ottenendo un altro no – «sono un’attrice, parlo di politica con gli amici, non qui». Le ha chiesto se sia vero quello che Depardieu disse di lei a Mitterand: “Catherine è come una mela: dolcezza e acidità” (risposta: «in tutti noi esiste un contrasto»). Le ha chiesto se, quel giorno, per arrivare in Italia, aveva preso un aereo di linea, se fare la spesa è una sua abitudine, se conduce una vita normale (risposta: «sempre con questa storia della spesa! Io non sono una diva, la diva non esiste in Europa, è un concetto americano»). Le ha chiesto se sia consapevole del fascino che esercita sugli uomini (risposta: «non ci penso», contro-risposta: «lei è una bugiarda»).

Al primo rifiuto su Weinstein, le ha mostrato un video di Berlusconi che, dopo aver premesso che lui non ha mai corteggiato avendo sempre e solo subito la corte, diceva di essere d’accordo con la lettera del Monde. «Ha visto, Berlusconi le ha dato ragione!», le ha detto come se stesse parlando a un’adolescente bisognosa di supporto. Lei, impassibile, ha commentato: «No, le sue ragioni non sono le mie». La reazione al clippino di Giancarlo Giannini che le confessa di averla amata, sonora risata a parte, non è stata molto più calorosa: «Non ci credo, ho un bellissimo ricordo di lui, perché è un grande attore». Poco prima che l’intervista terminasse, Giletti le ha cantato Mi ritorni in mente di Battisti: al verso “bella come sei”, l’ha indicata, come quando, in certi karaoke imbarazzanti, un ubriaco sale sul palco e canta Ricominciamo di Pappalardo facendo segno a una povera malcapitata in platea. In un altro trascurato ma cruciale punto dell’appello delle cento donne francesi, si legge: “alcuni editori chiedono a molte di noi di rendere i nostri personaggi maschili meno sessisti, parlare di sessualità e di amore con meno disinvoltura o ancora rendere più evidenti i traumi subiti dai personaggi femminili”. Giletti ha tentato per tutto il tempo di tirar fuori i punti in cui Catherine Deneuve combaciasse non solo con un certo immaginario, ma con un’idea di donna che aderisse, distrattamente, alle istanze che discutiamo da mesi, compiacendole, e che, spaventosamente, fanno coincidere l’essere una donna con il doverla rappresentare, semplificandola (Giletti: «Il ginkgo biloba le piace perché è una pianta forte, unica a resistere alla bomba atomica?», Deneuve: «No, mi piace perché ha le foglie a forma di cuore»). È ancora possibile opporsi a questa riduzione? Deneuve ha dimostrato di sì e anche qual è la condizione irrinunciabile per farlo: staccare i ruoli, mantenere chiara la distinzione tra essere e fare e correlarla a quella tra vedere e percepire.

Un pezzo di Vulture, qualche giorno fa, ha raccolto alcuni annunci di ritiri dalle scene diffusi da grandi artisti: in molti viene comunicato il bisogno di riappropriarsi del privato (è successo anche in politica, di recente: quando si è ritirato, Di Battista ha detto di voler fare il padre). Fuggono, tutti, non solo dalla gloria, dalla visibilità continua, da ritmi impossibili da conciliare con quelli di una famiglia, ma pure dall’onere della rappresentazione della realtà. Quando Giletti ha domandato a Deneuve se nella natura, che lei ama particolarmente, vedesse un rifugio, ha risposto «no, io non ho paura delle persone: vivo in modo privato».

Vivere in modo privato potrebbe essere l’atto politico di cui abbiamo bisogno, maschi e femmine, e Deneuve prova che la cosa non comporta il ritiro dalla realtà, l’evasione, la rinuncia all’intervento, però significa delimitare gli spazi, il pubblico e i privato, e renderli indipendenti, liberi, disconnetterli da questa folle coazione sinergica in cui li abbiamo inseriti e che ci rende, tutti, manifesti viventi e, come tutti i manifesti, urlanti, univoci, semplificati, funzionali. Deneuve col cavolo che ci si presta, col cavolo che consente di frugarle nella vita per fare di lei un simbolo, un feticcio, una testimonial. Su uno dei (pochi) giornali che hanno dedicato qualche riga alla trasmissione, è stato scritto: “Deneuve affonda Giletti” (Il Sole 24 Ore). Il titolo evidenzia che la sua indisponibilità a un confronto drogato (dal suo mezzo e dal suo scopo), ha avuto una grande efficacia; che ci si può mettere in questione senza raccontarsi; che al pubblico spetta cosa siamo capaci di fare, non chi siamo.