Florian Henckel von Donnersmarck: «Negli anni '50 la Germania senza uomini è rinata grazie alle donne» | Rolling Stone Italia
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Florian Henckel von Donnersmarck: «Negli anni ’50 la Germania senza uomini è rinata grazie alle donne»

Il regista premio Oscar per 'Le vite degli altri' è in concorso al Lido con 'Opera senza autore', storia di un aspirante pittore alle prese col suo Paese diviso dal Muro. Lo abbiamo incontrato. E sì, abbiamo parlato anche del flop di 'The Tourist'.

Florian Henckel von Donnersmarck scattato in esclusiva per Rolling Stone da Fabrizio Cestari a Venezia 75.

Florian Henckel von Donnersmarck scattato in esclusiva per Rolling Stone da Fabrizio Cestari a Venezia 75.

Il suo nome è difficilissimo: Florian Henckel von Donnersmarck. Quindi per tutti, qui al Lido e non solo, è “il regista delle Vite degli altri”. Il film che gli è valso un Oscar è uscito dodici anni fa, poi c’è stato soltanto un catastrofico flop (The Tourist, starring Johnny Depp e Angelina Jolie, era il 2010), adesso torna con un film di nuovo tedesco, molto tedesco. E cioè Opera senza autore, presentato in concorso a Venezia 75, storia di un aspirante pittore cresciuto nella Germania nazista (con cui dovrà tornare a fare i conti) e poi alle prese col suo Paese diviso dal Muro, e con il regime comunista, e insomma la domanda è: un artista può essere davvero libero o l’arte sarà sempre condizionata dalla Storia e dalla politica?

L’ispirazione dichiarata è Gerhard Richter.
Sì, ma non volevo girare la sua biografia, è davvero solo uno spunto. Ulrich Mühe (il protagonista delle Vite degli altri morto un anno dopo l’uscita del film, nda) aveva ricevuto in regalo da sua suocera un quadro di Richter: il ritratto di sua figlia. Era appeso nel suo appartamento e mi ha sempre sedotto, non sono mai riuscito a togliermi quell’immagine dalla testa. Poi un’inchiesta condotta da un giornalista tedesco qualche anno fa ha fatto scoprire un’altra verità su Richter, e mi ha ulteriormente avvicinato a lui. Sua zia, che soffriva di disturbi mentali, era stata uccisa dai nazisti; e il padre di sua moglie era stato uno dei medici coinvolti nel cosiddetto “programma di sterilizzazione” del Reich. Una coincidenza atroce. Ho passato un mese a Colonia insieme a Gerhard, ho visitato con lui i luoghi della sua infanzia. Ma ripeto: questo film non è il racconto della sua vita.

Invece è…
Un’opera sull’arte. Sulla vita. Su una nazione. Ed è principalmente un’opera di finzione. Penso che la finzione non solo lasci una libertà di racconto maggiore, ma che possa anche spiegare molte più cose del mondo rispetto alla cronaca reale dei fatti. Se Citizen Kane (il titolo originale di Quarto potere di Orson Welles, ispirato alla parabola dell’editore William Randolph Hearst, nda) si fosse chiamato Citizen Hearst, forse non avrebbe avuto la stessa forza.

Il film è anche un riflessione sulla Germania post-nazista.
Gli anni ’50 sono stati una fase cruciale per il mio Paese. La Germania è uscita dalla guerra sconfitta e punita, vittime e carnefici si sono dovuti unire per ricostruirla. Le donne sono state le vere artefici di questa rinascita: gli uomini erano morti in guerra o chiusi nelle carceri. Poi sono arrivati gli artisti, ad aiutare il Paese nella ridefinizione della propria identità.

L’arte deve sempre fare i conti con la politica: è vero?
Ciascun artista, nel suo lavoro, mette la sua visione del mondo. Dunque ogni opera d’arte è a suo modo politica. Come dice Richter: «Le mie tele sono più intelligenti di me». Tutti i lavori artistici prevedono che sia operata non una, ma mille scelte: anche quello del regista è così. È con quelle scelte che un artista pronuncia il suo messaggio, non con le dichiarazioni su questo o quel fatto di attualità.

Ti va di parlare di The Tourist? Dopo il successo delle Vite degli altri, quel flop ti ha fatto male?
Non ho mai guardato alla mia carriera come a una banca d’investimento, ho sempre scelto progetti che mi facessero sentire vivo. Dopo Le vite degli altri, ho attraversato un momento molto difficile. Ulrich, il protagonista del film e anche un amico fraterno, è morto dopo una lunga battaglia contro il cancro. Aveva fatto di tutto insieme a Sebastian (Koch, anche tra i protagonisti di Opera senza autore, nda) per realizzare quel film: all’inizio non avevamo finanziamenti, non trovavamo un distributore, nessun festival ci voleva. Quando si è ammalato, ha tenuto la notizia nascosta. Eravamo a conoscenza delle sue condizioni di salute solo io, mia moglie, e ovviamente sua moglie. Non voleva essere compatito, aveva paura che la sua malattia distogliesse l’attenzione dal film. Un anno dopo la sua morte, è morto anche mio padre, per colpa dello stesso cancro. Avevo in mente un film che parlava di suicidio, ma sentivo un grande bisogno di leggerezza. In quel momento è arrivata la proposta di The Tourist. Un soggetto divertente. Due attori fantastici: Johnny e Angelina. E, come sfondo, una città che amo follemente: Venezia. L’ho fatto con passione, il problema sono state le aspettative troppo alte. Il pubblico e i critici si aspettavano un secondo piatto, e invece gli è arrivato un dessert. Per di più, i produttori l’hanno venduto come un action, cosa che non era. Gli spettatori non hanno capito che cosa avevano davanti. Ma, a ripensarci oggi, non era così brutto…

E poi?
Poi mi sono detto: va bene, torniamo al film sul suicidio (ride). Ma un mio carissimo amico si è suicidato per davvero, perciò non se n’è fatto nulla neanche quella volta. Ho una scena precisa in testa: io che guido per le strade di Los Angeles, la macchina che si ferma. Avevo finito la benzina. Ecco: non voglio finire a secco anche con il prossimo film, ho pensato. Avrei potuto dirigere un cinecomic alla Thor, ma ho detto: no. Sono tornato a casa. E ora eccoci qua.

L’Europa è un posto più sicuro, per un regista come te?
Di certo lavorare qui è molto più difficile: ci sono meno soldi, ogni giorno sul set è una battaglia. Ma… (ci pensa a lungo) Be’, sì. Qui sono più tranquillo.