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Il cinema italiano non ha più paura

È presto per parlare di una rinascita del cinema italiano, ma il successo di film come "Suburra" e "Lo chiamavano Jeeg Robot" conferma che, a volte, il coraggio paga anche in Italia. Il trionfo di un cinema che prende spunto da quello di genere, ma che riesce ad essere distribuito nelle sale, oltre che premiato da pubblico e critica

Il cinema italiano non ha più paura

Lo chiamavano Jeeg Robot (2015)

Claudio Santamaria che sradica un bancomat a mani nude e vola da una finestra. Edoardo Leo e Luigi Lo Cascio che duellano sopra un treno in corsa (sì, sopra). Stefano Accorsi e Matilda De Angelis che corrono con bolidi in pista e non solo. Ma anche il Sollima style: Suburra e Acab, un gangster movie e un poliziottesco che accettano sfide visive nuove, inconsuete per queste latitudini, con scene audaci (immaginiamo quella erotica-politica iniziale e l’uso degli M83 che fonde musica e immagine nel primo, o la scena iniziale dell’esordio di questo regista che ora, non a caso, è in America). Il supereroe adolescente invisibile di Gabriele Salvatores. Le animazioni della Mad e del regista Rak. E ancora Mine, nel deserto afgano, atipico film di guerra e poi tanto altro, nel cinema indipendente, da Morituris ai film di Cosimo Alemà, passando per l’esordio thriller di Andrea De Sica. Un trionfo di un cinema di genere, da quello in cui eravamo maestri decenni fa a quello, invece, mai percorso. Rimaniamo, però, nel mainstream, in quell’industria cinematografica che ha deciso di scommettere forte su una modalità produttiva e creativa che un tempo “potevano permettersi solo gli americani”. Film di macchine, di supereroi, action, sesso, droga, corruzione e rock’n’roll, teen movie con supereroi ed effetti speciali.

Il cinema italiano non ha più paura, certi film non solo li fa, ma li premia e, a seconda delle contingenze, riesce anche a farli vedere. Non che non sia rimasto un certo pregiudizio nei confronti della Settima Arte nostrana da parte del pubblico, tanto che Smetto quando voglio – Masterclass, action molto cool e ben fatto, avvincente e coinvolgente, finirà per avere un incasso deludente nonostante fosse “il film più atteso dell’anno”, come ha detto Piera Detassis, spiegando il motivo della copertina del suo Ciak dedicata alla banda dei ricercatori e al loro ritorno sul grande schermo. Può accadere, soprattutto se in uscita ci si trova con gli imprevisti successi di La La Land e Split – che confermano come le sale italiane vengano riempite da spettatori sempre più esigenti e raffinati (visto che allo stesso tempo le commediacce vengono snobbate, magari a favore del ben fatto L’ora legale di Ficarra e Picone) – ma la nuova strategia produttiva è evidente e da sostenere.

È vero che possiamo individuare questa tendenza in poche realtà: la Indigo di Nicola Giuliano e Francesca Cinema, la Groenlandia di Matteo Rovere, la Cattleya che sta sviluppando anche progetti televisivi di successo, la Fandango. A cui forse si deve il punto di partenza di questa coraggiosa inversione di tendenza, con un film d’autore: riguardate attentamente quel capolavoro di Daniele Vicari che è Diaz e vedrete un’opera che come visione e produzione entra di diritto in un’altra categoria, per il numero di personaggi (più di 140), per l’ambizione di scene, montaggio e ovviamente regia dello stesso Vicari, per costruzione visiva e narrativa. Un esperimento rimasto a suo modo unico, seppur pienamente riuscito, di rivoluzione di scrittura e di direzione di attori, di rovesciamento e rottura di moduli narrativi consolidati. Epocale. Tanto che la lezione ontologica di quell’opera, forse, non è stata colta appieno e forse la capiremo del tutto in futuro. Fatto sta che una parte di cinema italiano ha ripreso a parlare al suo pubblico, rifiutando l’assunto di Dell’Utri che “il pubblico è un bambino di 11 anni e neanche tanto intelligente”. Pensiamo in fondo anche a un altro tipo di prodotto, come Natale a Londra: un cinepanettone che guarda al cinema di genere americano o a quello, comico, dei Milian e della coppia Spencer-Hill, più che ai modelli Vanzina e Parenti.

Insomma, la scena sul treno che contrappone Leo e Lo Cascio, è un punto di svolta: ci dice che qui da noi adesso si vogliono vincere certe sfide, o almeno provare a giocarle alla pari. E non in maniera estemporanea, se è vero che la Indigo, dopo aver portato Sorrentino a budget, cast e opere con una struttura forte e fuori mercato qui in Italia, ora guarda ai teenager, target fondamentale da conquistare per chi produce. Con Salvatores e il suo supereroe teen che mischia l’Uomo Ragno alle spy-story compolottiste – e non è un caso che parliamo del regista di Nirvana (la fantascienza deve essere la prossima frontiera) ed Educazione Siberiana – ma anche Slam – Tutto per una ragazza, dove tra skate e flashback onirici, tra amori teen e attori d’autore (Marinelli e Trinca) reinventati, ci si diverte a guardare al mercato e non solo (come, a suo modo già da quelle parti si fece con Cotroneo).

Di Cattleya e di Suburra – fra poco anche su Netflix  – si è parlato parecchio e possiamo aggiungere come il metodo Sollima abbia cresciuto una generazione di nuovi attori venuti fuori grazie al fatto che il nostro, da cineasta “diverso”, abbia preteso dei casting non blindati per cercare i suoi attori. Di Fandango e di Matteo Rovere, possiamo parlare di un matrimonio felice, con un’attenzione particolare al secondo, che per anagrafe e formazione culturale, come produttore e come regista, può davvero sorprenderci nel prosieguo della carriera. Quello Stefano Accorsi magro e “sporco” è solo l’inizio. E non parliamo di Accorsi stesso che con 1992, idea che come tutti sappiamo è sua, potrebbe aver portato un pezzo di questa rivoluzione sul piccolo schermo. Certo, probabilmente dovremo ringraziare di tutto ciò uno che il suo film se l’è fatto da solo, grazie a una famiglia che se l’è potuto permettere e ci ha creduto, Gabriele Mainetti, che ha sbancato ai David e che al botteghino, pur non avendo prodotto record, si è incastonato nell’immaginario collettivo. Uno a cui hanno creduto in pochi, all’inizio, ma che un giorno potremmo vedere come l’iniziatore di questa New Cinecittà, una sorta di piccola New Hollywood, con le debite proporzioni e con la necessità di un salto di qualità sui contenuti, oltre che nello stile, cercando la rivoluzione anche altrove (riflettiamoci: La La Land piace, come dice Recchioni, anche perché è la storia d’amore più cinica che ricordiamo). È lui ad aver messo in luce ciò che altri avevano già iniziato, zoppicando, e ha avuto il merito e la possibilità di non arrendersi. Intendiamoci, era un dovere provarci, essendo quest’ultima l’unica strada per non veder morire l’industria del cinema italiano.

Insomma, dobbiamo guardare ancora oltre. Provare a capovolgere i generi di cui ora abbiamo dimostrato di essere all’altezza. Renderli nostri, diversi e toglierci le paure ataviche di rompere certi schemi, dai finali all’ostinazione di tenere la morte fuori campo, passando per il trattamento del “villain”, figura cruciale in questo cambiamento (vedi i gomorrici o Marinelli) ma che ha bisogno di uno spessore che vada oltre la sorpresa o la facile fascinazione.