Cannes: è stata un'edizione indimenticabile | Rolling Stone Italia
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Cannes: è stata un’edizione indimenticabile

In un Festival di Cannes dalle poche star e dalle molte polemiche, la qualità media dei film in concorso è stata assolutamente ottima, e noi italiani non siamo stati da meno.

Cannes: è stata un’edizione indimenticabile

Il tempo non porterà via con sé l’immagine di questa splendida Palma d’oro, consegnata dalla presidente di giuria Cate Blanchett nelle mani di un grande, grandissimo autore: Hirokazu Kore-eda. Il regista giapponese di Still Walking, Little Sister e Ritratto di famiglia con tempesta trionfa nella notte di Cannes, vincendo con l’entusiasmante film Shoplifters uno dei massimi riconoscimenti del cinema mondiale. Si temeva che il verdetto della giuria del 71esimo Festival di Cannes potesse essere influenzato anche da altri fattori (come un’eccessiva sensibilità per le tematiche trattate) e invece Cate Blanchett e compagni (tra questi Kristen Stewart, Léa Seydoux, e Denis Villeneuve) compiono la scelta più semplice e allo stesso tempo più complessa: premiare il miglior film della competizione.

Soprattutto l’Italia non scorderà poi la gioia visibile e contagiosa di Alice Rohrwacher, premiata per il suo Lazzaro felice in ex quo con Three Faces di Jafar Panahi, per la miglior sceneggiatura, e soprattutto di Marcello Fonte (annunciato sul palco da Roberto Benigni), attore non professionista e straordinario protagonista di Dogman, che va ad affiancare attori come Marcello Mastroianni e Vittorio Gassman tra i vincitori italiani del Premio alla miglior interpretazione maschile. Il Grand Pix, il secondo premio più prestigioso del festival, è andato al regista statunitense Spike Lee per la sua opera di denuncia, tra la commedia e il poliziesco, contro il razzismo di ieri e di oggi: «dedico questo premio agli afro-americani e alla comunità di Brooklyn, il mio film dice quello che penso di Trump».

Meritatissimo il Premio alla regia a uno dei film più apprezzati di Cannes, Cold War del polacco Pawel Pawlikowski, mentre il Premio della giuria è andato a Carphanaum della libanese Nadine Labaki, che trattava alcune tematiche simili alla Palma d’oro Shoplifters – l’estrema povertà e la necessità di ricostruirsi una famiglia – ma con un’intensità, una sensibilità e una maestria di livello estremamente minore. Il Premio come miglior attrice è andato alla kazaka Samal Yeslyamova per Ayka di Sergey Dvortsevoy, mentre al magnifico autore francese Jean-Luc Godard, presente in concorso con Le livre d’image, è stata assegnata una Palma d’oro speciale: «Jean-Luc non ha mai smesso di sfidare il linguaggio del cinema e per questo non gli saremo mai abbastanza grati» ha dichiarato Cate Blanchett.

In un Festival di Cannes dalle poche star e dalle molte polemiche (il rapporto terribile con Netflix, l’abolizione dei selfie e delle anteprime stampa), la qualità media dei film in concorso è stata assolutamente buona. I titoli più apprezzati però, diversamente da quanto anticipato alla vigilia anche dallo stesso direttore del festival Thierry Frémaux, non sono pervenuti da nuovi ed emergenti registi ma dagli autori più noti: Kore-eda, Pawlikowski, Garrone e il grande assente della serata, il coreano Lee Chang-dong (vincitore però con Burning del premio Fipresci assegnato dalla stampa) hanno presentato al festival le opere migliori.

Altre scosse emotive alla serata sono giunte dal discorso scioccante di Asia Argento, a pochi minuti dall’inizio della cerimonia di chiusura: «Sono stata abusata da Weinstein durante il Festival di Cannes nel 1997, questo festival era il suo terreno di caccia» ha detto presentando il Premio per la migliore attrice. «Era seduto in mezzo a voi ma ora voglio fare una previsione: Harvey Weinstein non sarà mai più il benvenuto qui».

Il protagonista del red carpet che ha preceduto la cerimonia era stato invece Terry Gilliam, posseduto da una felicità irrefrenabile al pensiero di presentare finalmente al pubblico il suo The Man Who Killed Don Quixote, ha raggiunto Thierry Frémaux e il presidente del festival Pierre Lescure sulla cima della montée des marches danzando e coinvolgendo tutti gli attori e i collaboratori del suo film. Il regista di Brazil, L’esercito delle 12 scimmie e Paura e delirio a Las Vegas è riuscito dopo una maledizione durata oltre 20 anni, e resistita a infiniti problemi di produzioni, cambi di attori e cataclismi naturali abbattutisi sul set, a completare la sua opera più ambiziosa.

The Man Who Killed Don Quixote è sorretto da due grandi attori (Jean Rochefort e John Hurt, due tra i protagonisti designati, nel frattempo sono morti ed è a loro che Gilliam ha dedicato il film): Adam Driver e Jonathan Pryce, già interprete del lungometraggio più importante del regista americano naturalizzato inglese, Brazil. La sceneggiatura appare spesso sgangherata ma un interessante sovrapposizione di più piani di finzione nella prima parte, la grande passione e il grande umorismo che pervadono la pellicola, oltre a un’ultima parte finalmente all’altezza della maestria tecnica e visionaria dell’autore, tengono in piedi il film. L’ultima opera di Gilliam appartiene poi chiaramente a qualcosa di più grande: il gioco tra realtà e finzione che lo ha reso celebre, oltre all’inconfondibile stile barocco e iper-surrealista delle immagini, trovano il loro compimento, in forma soprattutto di film-manifesto, in questo film. The Man Who Killed Don Quixote grazie all’amore del suo autore è stata in grado di oltrepassare alcuni dei limiti del cinema, soprattutto d’oggi, e a creare uno stato di perenne surrealismo durante la sua realizzazione, tale da pervadere anche l’opera stessa.

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