Morte e resurrezione di Shia LaBeouf | Rolling Stone Italia
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Morte e resurrezione di Shia LaBeouf

Nella sua carriera è accaduto spesso: gli 'up' sono arrivati dopo profondissimi 'down'. Ma dalla rehab forzata del 2017 è nato 'Honey Boy', un biopic-confessione con cui l'attore finalmente combatte i suoi demoni. E che lo consacra come nuovo autore

Artwork by Stefania Magli

Se pensando a Shia LaBeouf vi viene in mente solo Transformers, allora aveva ragione lui. Lui che famoso manco lo voleva diventare, ma che ci si è trovato fin da piccolo per mantenere la baracca, leggi soprattutto un padre violento e inadeguato dopo il divorzio dalla madre. Ma qui ci torneremo, anche perché è per questo che raccontiamo la sua storia.

To be or not to be

Il 9 febbraio del 2014 LaBeouf si presentava sul red carpet della Berlinale con un sacchetto in testa e la scritta “I am not famous anymore” (Non sono più famoso). Questa trovata tra Banksy e il futurismo era solo l’ultimo atto di una serie di sfortunati (o programmati? o entrambi?) eventi di quegli ultimi mesi. Prima, l’attore era stato accusato del plagio di una graphic novel di Dan Clowes per il suo corto Howard Cantour.com. Poi, dopo il fattaccio, aveva messo in piedi una campagna di scuse ancor più surreale: una serie maniacale di tweet copiati da mea culpa già esistenti (tra gli altri by Kanye West, Gucci Mane e Lena Dunham). Il tutto era culminato con l’annuncio del “ritiro dalla vita pubblica per i recenti attacchi alla mia integrità artistica”, come aveva dichiarato il nostro, definendo anche la sua esistenza “una lunga art performance”.  

Shia LaBeouf Honey boy - illustrazione di Stefania Magli

Shia LaBeouf alla Berlinale nel 2014

La settimana dopo Berlino, si era rimesso in testa il medesimo sacchetto per una cinque-giorni chiamata #IAmSorry: lui se ne stava seduto impassibile come un pupazzo e chiunque poteva fargli ciò che voleva. La performance è stata bloccata quando una donna ha tentato di violentarlo: «In meno di un secondo da celebrità sono diventato un essere umano».

A novembre del 2015, il nostro – ormai, più che un attore, un talentuosissimo agente del caos – ne pensa un’altra. In un piccolo cinema di Manhattan, organizza una maratona dei 27 film in cui è apparso fino a quel momento. Shia diventa un’installazione vivente: sta seduto a rivedersi sullo schermo per 58 ore consecutive – masochismo allo stato puro per qualunque interprete (chiedete ad Adam Driver). E punta una videocamera sulla sua faccia per trasmettere in diretta streaming le sue reazioni: mangia popcorn, ride, è allucinato. Forse proprio per uno dei capitoli di Transformers, ma chissà.

Il punto è: fare a pezzi il moderno concetto di celebrità, con un evento alimentato dalla celebrità stessa. Shia, nei panni del famoso, non c’è mai stato comodo, ma ora con quel famous i conti dovrà farceli una volta per tutte. O forse li ha già fatti, esorcizzando i suoi tormenti e il “demone zero”, cioè il padre, proprio grazie a Honey Boy (in streaming su CHILI).

Caro diario

Come spesso è accaduto nella carriera di LaBeouf, gli up arrivavano dopo profondissimi down, in questo caso la rehab forzata per risolvere i problemi di rabbia e abuso di sostanze stupefacenti, dopo l’arresto del 2017. Honey Boy nasce dall’ordine del terapista di ripercorrere la sua infanzia travagliata sulla carta. «Il copione fa parte di un processo che mi ha aiutato a venire a patti con me stesso, a conoscermi meglio», ha spiegato LaBeouf. «Scrivere la storia di mio padre mi ha portato a guardare in faccia la sofferenza. Arrivato a casa, rileggendolo mi sono reso conto che aveva la forma di una sceneggiatura. L’ho inviato alla regista Alma Har’el, che è una dei miei amici più intimi. E lei ha capito che era davvero un film».

Quindi Shia, nella sua personale battaglia per stare bene una volta per tutte (e per mostrarci il più intimo dei confession-biopic), decide addirittura di ballarci, con quei demoni. Capisce che nessuno meglio di lui può interpretare suo padre, un ex clown da rodeo irascibile e tossico sulla via della redenzione che, quando il figlio ha iniziato a recitare in tenera età, gli faceva da supervisore. Stipendiato, ovviamente.

Shia LaBeouf Honey boy - illustrazione di Stefania Magli
Shia LaBeouf Honey boy - illustrazione di Stefania Magli

Guida per riconoscere un enfant prodige

Nella sua prima vita, Shia era uno degli enfant prodige della Disney. Come Britney Spears, Justin Timberlake e tanti altri. A 14 anni diventa il protagonista della serie per ragazzini Even Stevens, dove interpreta il fratello minore insieme adorabile e rompipalle e per cui si porta addirittura a casa un Emmy Award. Non male per un bambino che aveva iniziato a fare stand-up comedy («A 10 anni facevo battute così sconce che nemmeno un cinquantenne») per scappare da quell’ambiente famigliare tossico. LaBeouf diceva che lo show era “la miglior cosa che gli fosse mai capitata”. E, guardando Honey Boy (dove da piccolo lo interpreta il bravissimo Noah Jupe), è molto chiaro quanto all’inizio recitare, più che la sua vocazione, fosse la sua ancora di salvezza. 

Fra gli anni di Topolino e quelli di Michael Bay, ci sono i primi ruoli al cinema: al fianco di Keanu Reeves in Constantine e nei panni di un giovane Dito Montiel in Guida per riconoscere i tuoi santi con Robert Downey Jr. Poi, appena 21enne, Shia viene chiamato a presentare il Saturday Night Live, che è un po’ come dire: ok, stai davvero diventando una star di serie A.

Non sono un robot

Le grandi occasioni arrivano tra il 2007 e il 2008 con la saga Transformers e Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo di Steven Spielberg. Da beniamino Disney, Shia diventa una stella dei film d’azione, sì, ma inizia anche a ribollire sotto le luci della ribalta. In Honey Boy lo mostra alla perfezione Lucas Hedges, che interpreta Shia/Otis (il nome è stato cambiato sullo schermo) nei suoi rabbiosissimi vent’anni. Il film inizia su questa linea temporale, con il protagonista che viene spazzato via da un’esplosione sul set di un blockbuster d’azione (che, indovinate, grida Transformers da ogni prop) e poi si rifugia in camerino per ubriacarsi. La spirale discendente continua, nella finzione, fino all’arresto. Nella vita reale, LaBeouf viene arrestato davvero per violazione di domicilio. Poi, dopo aver interpretato il figlio di Indiana Jones e mentre sta girando il secondo kolossal robotico di Michael Bay, si rompe una mano in un incidente d’auto. Rifiuta di fare l’alcol test e combina un casino dietro l’altro. Intanto, all’apice della sua celebrità hollywoodiana, lui e la collega Megan Fox vengono nominati ai Razzie Award come peggior coppia sullo schermo del 2009. Comincia la discesa.

Shia LaBeouf Honey boy - illustrazione di Stefania Magli
Shia LaBeouf Honey boy - illustrazione di Stefania Magli

Mad Shia: Fury Road

Negli anni ’10, Shia gira l’ultimo dei Transformers, la saga che ha sempre definito “irrilevante. Guardi Easy Rider e Toro scatenato, e tu nel frattempo stai sullo schermo a cercare cristalli di energia”. Lascia il testimone a Mark Wahlberg. Da qui, studia una serie di modi improbabili (qualcuno parlerebbe di Metodo) per ottenere alcune delle parti che lo riporteranno in auge: pare che abbia girato Charlie Countryman deve morire sotto acidi e mandato video e immagini del suo pene ai produttori di Nymphomaniac. È con il drammone erotico di Lars von Trier che Shia va a Berlino insacchettato e torna davvero sui radar della critica. Sul set di Fury con Brad Pitt, invece, smette di lavarsi per capire meglio com’era la vita in trincea. Nel frattempo, però, LaBeouf viene arrestato nel 2014 a una replica di Cabaret a Broadway per oltraggio a pubblico ufficiale, dopo aver fumato in sala. E, in quello stesso anno, fa il bis di manette per condotta molesta: attraversava la strada con il semaforo rosso gridando frasi sconnesse. Fortuna ci scherza e cazzeggia sopra, ospite dei talk show di Jimmy Fallon e David Letterman: «Che nottata!». A un certo punto se la prende pure con la compagna di allora, l’attrice Mia Goth, salvo poi scusarsi.

Mentre affronta il suo periodo di performative art, anche i ruoli di LaBeouf testimoniano la sua perdita di controllo e insieme la sua indiscutibile e folle bravura. Vedi il tossico alcolista di American Honey o, nel 2017, il ruolo del perennemente incazzato tennista John McEnroe, per cui Shia è perfetto sotto ogni punto di vista. Una nuova rinascita artistica. Sì, seguita però dall’ultimo fermo. Quello decisivo. Agli Hollywood Film Award di quest’anno, LaBeouf ha vinto un premio per la sceneggiatura di Honey Boy e ha ringraziato l’ufficiale di polizia che l’ha arrestato: «Tutta questa merda mi ha aiutato molto nella vita. Non sarei riuscito a fare una performance del genere se non avessi nuotato un po’ nel fango», ha detto l’attore a Variety.

Il resto è Honey Boy. Che ha definitivamente convinto lui e tutti noi che non solo può farcela e può essere (di nuovo) una star di Hollywood. Ma pure che è nato un nuovo autore. Quante volte hanno dato LaBeouf per spacciato, nel corso della sua carriera? Be’, il suo ultimo film dimostra che non aveva ragione lui. Sei ancora famoso, Shia. Ora più che mai.

Shia LaBeouf Honey boy - illustrazione di Stefania Magli

Shia LaBeouf in Honey Boy, 2020

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