Terry Gilliam: «Il diavolo è ovunque a Hollywood. Difficile resistergli» | Rolling Stone Italia
Interviste

Terry Gilliam: «Il diavolo è ovunque a Hollywood. Difficile resistergli»

In barba alle sfighe produttive, alle vicende legali e all’infarto, il suo Don Chisciotte ha finalmente visto la luce. Noi invece abbiamo visto lui, di persona, seduti in spiaggia davanti a un cocktail. E abbiamo parlato di film, tentazioni e morte.

dpa picture alliance / Alamy / IPA

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The Man Who Killed Don Quixote è un progetto nato nel 1989. Allora io ero in prima elementare, il muro di Berlino stava cadendo, usciva Fivelandia 7, Madonna si masturbava agli MTV Music Award, Michael Jackson diventava The King of Pop e Bobby Brown era in cima alla classifica di Billboard. Decisamente l’epoca delle Guerre Puniche. Cosa c’è stato tra quel momento e la cerimonia di chiusura del 71° Festival di Cannes, lo sa soltanto l’ex Monty Python, che in comune con Don Chisciotte ha più di qualche qualità.

Capelli a spazzola bianchi con codino anni 80, camicia hawaiana, bermuda cachi tripla XL, piedi callosi in un paio di Birkenstock di cuoio marrone. Un po’ barbone, un po’ Drugo, un po’ pazzo del paese, osservi Terry Gilliam e non puoi non fare a meno di notare un conflitto tra come parla e quello che intende dire: sorride, ma il suo scherzo non è mai un gioco. Sembra allegro, divertente. Non è cinico. Eppure c’è come un velo di tristezza su quella gioia infantile.

Ehi, ciao, finalmente ci siamo, cavolo quanto ti ho aspettato! (L’intervista comincia al contrario, nda)
Ciao Terry, alla fine ci sei riuscito, come ti senti ad avere il tuo film qui?
Ti posso dire la verità? Questi festeggiamenti mi stanno sfiancando più di quanto mi abbia devastato il film (ride, nda). Anzi adesso che sto qui non me li ricordo più i 25 anni che mi ci sono voluti per arrivarci, mi sembra di averlo girato in un paio di mesi e che sia andato tutto come previsto. L’ho finito di girare giusto un anno fa, a maggio del 2017.

Ti senti più affine a Don Chisciotte o a Sancho Panza?
Io penso di preferire Sancho. Stavo a cena con Tony Grisoni (sceneggiatore e produttore, anche di Paura e delirio a Las Vegas, nda) l’altra sera e lui mi ha detto “Tu non sei Don Chisciotte. Il film è Don Chisciotte e tu sei Sancho Panza”. Francamente là per là, uno pensa che sia una cazzata, ma anche secondo me il film è venuto su da sé e io sono stato solo uno che ha provato ad appartenergli cercando ogni tanto di riportarlo alla realtà.

Orson Welles spiegò a Peter Bogdanovich che era affascinato dalle virtù anacronistiche di Don Chisciotte, a te invece cosa ti piace di lui?
Avrei sempre voluto essere più alto, andare a cavallo e combattere con una lancia, era il mio sogno sin da bambino… Che vuoi che ti dica? Chisciotte è l’icona più straordinaria che esiste, ma devo aggiungere che non si può separare da Sancho. Da solo non esisterebbe, sono i due volti dell’umanità, in ognuno di noi coesistono i due aspetti che loro rappresentano: la questione è quale di questi, di volta in volta, vinca. La resilienza di Chisciotte non ha eguali. Lui non si arrende mai, tutto nella vita lo calpesta. È convinto di comprendere il mondo e puntualmente sbaglia, perché la sua concezione della vita è romantica e cavalleresca, piena di virtù e di magia. Mentre nella vita reale è tutto una scoreggia (segue una serie di varie simulazioni onomatopeiche esplicative, nda). Chisciotte prende sempre la decisione sbagliata, ne esce distrutto, ma riesce sempre a rimettersi in piedi. Quindi se sei un personaggio così pieno di sogni, ideali e illusioni come fa un regista a non amarti e a riconoscersi in te?

Questo è anche un film sull’industria cinematografica…
Lo è diventato, all’inizio non era nei programmi, ci sono voluti 25 anni per arrivare a questo risultato. Quando Johnny Depp abbandonò il progetto per i casini che ci furono all’epoca, iniziammo a fare vari aggiustamenti. Abbiamo riscritto il personaggio di Toby, che inizialmente aspirava a fare il regista di cinema. Decidemmo che, fatto il suo film di laurea, il successo per lui sarebbe arrivato con la pubblicità, dove fai soldi veri, aggiungerei io. Da questo punto in poi il film ha preso una piega completamente diversa. Perché quello che Toby aveva girato in gioventù si è trasformata nel pretesto narrativo che spinge avanti la storia: tutti gli attori non professionisti coinvolti nel progetto di Toby ne furono talmente toccati, dal ciabattino alla bella ragazza figlia dell’oste burbero, da decidere di cambiare vita. Ed ecco come il cinema influenza le nostre esistenze nel bene e nel male. Quando entri in questo meccanismo, devi fare i conti con tante questioni: la tentazione di essere corrotto è sempre dietro l’angolo. Il diavolo è ovunque ad Hollywood. Ogni giorno. Capisci perché alla fine ho girato un film diverso da quello che avevo pensato inizialmente? Semplicemente si è plasmato da solo in seguito a quello che succedeva.

E tu nella tua vita quanti Satana hai incontrato?
Un bel po’ (risata isterica, nda).

Che ti aspetti succeda ora al tuo film?
Grazie a questo festival e alla Ocean Film Distribution abbiamo superato l’empasse. Cominciavamo ad essere nervosi sulla distribuzione internazionale, dopo tutte le rogne legali. Ci sono carte che stanno volando su tutte le scrivanie del settore, puttanate di lettere, che intanto però spaventano i distributori. Invece con la decisione del festival di sostenerci a tutta forza e quella della Ocean che ha detto “lanciamo il film e vaffanculo”, adesso i distributori di tutti i paesi si stanno facendo avanti. (A questo punto snocciola un poema sui testicoli e su coloro che li indossano sul collo, sul conformismo del sistema, nda). Comunque non è ancora finita, stiamo a vedere che cosa succederà.

Come pensi che il pubblico accoglierà il tuo film?
Difficile dirlo. Le persone adesso guardano i film sui propri IPhone anche mentre stanno in metro e a me viene davvero voglia di prendere una pistola e farli esplodere. Ehi, sparare ai telefoni, non alla gente che sia chiaro.

Farai un making of del making of adesso?
Ma che dici?! L’hanno già fatto quei due ragazzi (Lost in la Mancha, Keith Fulton e Louis Pepe, 2002, nda), ma non è proprio un making of è piuttosto il tentativo di entrare nella testa di uno che sta fuori (risata isterica, nda).

Sei tu il matto eh?
(Fa la riverenza con un cappello immaginario, nda).

Ciò che succede alla tua protagonista quanto ha a che vedere con quello che sta accadendo ad Hollywood di questi tempi?
Senti il personaggio di Angelica doveva essere una tipa pragmatica, una donna estremamente concreta. Lei ha avuto la possibilità di scegliere nella vita, e ha preso la decisione sbagliata sin dall’inizio. Poi è finita con un bastardo, ma l’ha accettato. Che ti piaccia o no, è così che va la vita. Quello che per me è interessante è proprio il fatto che lei accetti ciò che le è capitato come conseguenza delle sue libere scelte. È tragico e triste ma è quello che rende il personaggio significativo, secondo me. Ed io ho provato in ogni momento a descrivere la dignità della sua accettazione. Anche perché l’alternativa per Angelica era rimanere al villaggio sotto il padre. Almeno prova a far qualcosa, poi finisce dalla padella nella brace, ma è un effetto collaterale dovuto alla sua incontenibile voglia di cambiamento. Dobbiamo smetterla di vedere vittime sacrificali ovunque. Non è una vittima, ha fatto una scelta, e giusta o sbagliata che sia è quella che ha preso. Ci tengo a questo concetto: non sto parlando delle favole, ma della vita reale. Oggi tutti si sentono vittime. Secondo me stanno fuori. Siamo noi gli artefici del nostro destino, il punto è che la vita è dura: ci sono vittime reali là fuori, ma ci sono anche persone che pretendono di essere vittime per qualche inezia che i genitori forse gli hanno fatto 50 anni prima. Io do la colpa ai miei genitori perché sono stati troppo gentili con me. È davvero difficile essere un artista quando hai avuto un’infanzia piacevole, sei stato coccolato e sostenuto in tutto quello che hai voluto fare. Mi sono dovuto trasferire a New York, vivere come un morto di fame e diventare pazzo per avere qualcosa da dire sulla vita. Quindi è tutta colpa dei miei genitori ‘sto film…

Possibile che la tua protagonista a 16 anni è già delusa dal fallimento della sua carriera?
Come un milione di ragazze sul pianeta e altrettanti ragazzi. Il cinema è seducente ed entrare nello show business piacerebbe a tutti. “Devo andare a Hollywood! Devo andare a New York!”, quante volte l’ho sentito in vita mia. Quando mi ero trasferito nella Grande Mela per seguire le mie aspirazioni d’artista, giusto per autoflagellarmi, ogni settimana vedevo arrivare gente nuova da Pennsylvania, Maryland, Nebraska, Ohio, Carolina, Tennessee, Kentucky, con il sogno di recitare. Se c’erano mille casting a settimana, c’erano 10.000 persone a contendersi quei pochi posti disponibili. La storia si concludeva che tanti degli aspiranti attori facevano una brutta fine: chi si perdeva, chi impazziva, chi iniziava a drogarsi, a distruggersi, finché non decidevano di tornarsene a casa, carichi di meraviglie. È un lavoro brutale, senza pietà. In ogni caso non aveva 15 anni Angelica quando si è svegliata dal sogno, e quel che le è capitato sono segreti suoi, noi non sappiamo cosa le sia veramente successo, come è finita a Boston e tutto il resto. Ognuno è libero di farsi la sua idea.

Angelica a un certo punto dice che un artista deve essere crudele: tu lo sei?
(Si gira verso la sua attrice, Joana Ribeiro, un sofà più in là e grida, nda) “Dai parla per tutte le donne con cui ho lavorato!”.
Lei si alza, serafica, sottile come un fuscello, così sottile che di profilo è quasi trasparente, con una grande bocca piena di denti, vestita “1 metro di velo colore del cielo” e attacca “È magnifico lavorare con lui”, sorride e scopre altri denti di riserva. Nel 1975 non era nata, altrimenti avrei detto di averla vista in un film di Spielberg. “Ti lascia un sacco di spazio e libertà di creare. Mentre facevamo le prove spesso Terry cambiava le scene perché gli piaceva di più come l’avevamo fatta noi. Un modo di lavorare davvero democratico, mi sono sentita parte attiva del processo creativo, niente di meglio per un attore secondo me.” (Riparte Gilliam, nda) E in realtà non capisco perché non lavorano tutti così, perché scegliere qualcuno sottintende riconoscere il suo valore intrinseco e quindi vale la pena di valutare eventuali controproposte. A volte la versione dei miei attori funziona meglio della mia, a prescindere da qualsiasi idea mi sia fatto in precedenza. Con Jonathan (Pryce, alias Don Chisciotte) e Adam (Driver alias Toby) le idee buone emergevano in continuazione, ed è per questo che mi piace girare film perché è un compito totalmente collaborativo e se hai il privilegio di trovarti con un cast talentuoso, un bravo scenografo, un buon ingegnere del suono, un fotografo capace, metti quel talento a servizio del film. Lasciamelo ammettere, sono un po’ visionario, devo lasciare spazio anche agli altri perché se il film fosse solo mio, sarebbe troppo noioso.

Cosa farai dopo?
Non ho idea di quello che verrà. La morte certo si avvicina, quindi potrei parlare di quella (sorride, pazzo, nda).

Come hai concepito la musica per questo film?
Roque Banos è un genio. Avevo bisogno di un compositore spagnolo doc, non volevo qualcuno che scrivesse qualcosa di volgarmente spagnoleggiante. Roque ha fatto un lavoro straordinario, la sua musica è romantica e coinvolgente senza mai cadere nel sentimentale o scivolare nella mediocrità. La sua colonna sonora è originale è divertente. È bello lavorare con persone così ispirate (risata isterica, nda).

E il brano russo?
Il valzer? Ti racconto com’è andata: Roque se n’è venuto con “oh, ma quella è la casa di Alexis: dobbiamo suonarci tipo un valzer russo”. Che dovevo fare? Gliel’ho passata perché era una trovata fantastica secondo me. Te lo ripeto, per me questo film è stata un’avventura emozionante perché ho lavorato con gente davvero in gamba e quando si verifica questa circostanza impari sempre cose nuove e te la spassi. Fidati, ‘che so bene di cosa sto parlando. È la parte migliore del nostro lavoro: lavorare in gruppo, in sintonia come una famiglia, affrontare le difficoltà insieme e infine godere insieme dei buoni frutti delle proprie fatiche (risata isterica, nda).