Sveva Alviti racconta la sua Dalida | Rolling Stone Italia
Interviste

Sveva Alviti e la complicata vita di Dalida

Abbiamo incontrato Sveva Alviti, l’attrice che, a trent'anni dalla tragica scomparsa di Dalida, ha impersonato la cantante francese nel biopic che andrà in onda il prossimo 15 febbraio su Rai Uno

Sveva Alviti fotografata da Dimitri Dimitracacos, total look: Giorgio Armani

Sveva Alviti fotografata da Dimitri Dimitracacos, total look: Giorgio Armani

Attraverso Milano in taxi, in silenzio. La pioggia batte violenta contro i finestrini. Sono un po’ in ansia. Penso a Sveva Alviti, che sto andando a intervistare: un paio d’anni più di me (è nata nel 1985), una brillante carriera di modella e, a giudicare dal successo della sua interpretazione nel film di cui parleremo, Dalida (regia di Lisa Azuelos), un promettente futuro da attrice. Sveva è infatti la protagonista del biopic sulla vita della cantante franco-italiana, che uscirà in Francia l’11 gennaio del 2017, anno del 50° anniversario del suicidio di Luigi Tenco e del 30° di quello di Dalida, e che verrà anticipato, per la prima volta nella storia, da una avant-prémière all’Olympia di Parigi, il tempio della musica leggera di cui Dalida è stata per anni tête d’affiche (nome di maggior richiamo).

Penso anche a Dalida e alla sua vita, una favola tragica e meravigliosa che l’ha portata a raggiungere, e forse oltrepassare, gli estremi di felicità e dolore. E poi penso a me, a come il gesto di prendere un taxi per raggiungere Palazzo Parigi rappresenti un’eccezione dorata in una vita grigia, ordinaria. Ho paura di non riuscire a chiedere a Sveva quello che devo. Ho paura che mi scappi qualche domanda stupida, tipo cosa si prova a trasferirsi da Roma a New York a 17 anni mentre tutte le tue compagne di classe continuano a fare il liceo e a vivere la loro vita “normale”. E soprattutto ho paura che risulti evidente che il mio cappotto è di H&M.

Quando arrivo a Palazzo Parigi un ragazzo in completo mi apre la portiera del taxi. Entro nell’atrio scintillante ostentando un’espressione neutra, come se venissi qui tutti i giorni. Prima di dirigermi al bar, dove Sveva mi attende, chiedo al concierge di custodire il mio ombrello, uno di quelli comprati per strada a 5 euro, che ha una fantasia di tulipani fucsia su sfondo verde fosforescente e in più è rotto.

Ed ecco Sveva. Lo chignon biondo, la pelle perfetta – è una visione luminosa, anche se vestita di nero da capo a piedi. È circondata da donne belle ed eleganti (il suo staff milanese), che mi accolgono sul divanetto in mezzo a loro. Mi sento un rospo nel lago dei cigni, ma ben presto mi dimentico di me: vengo catturata dai denti di Sveva, dai polsi sottili e dagli occhi grandissimi, dall’eleganza dei suoi lineamenti, la stessa mescolanza di durezza e armonia che rendeva unico il viso di Dalida (anche se Sveva, secondo me, è più bella).

trench: Fendi, collant a rete: Wolford, foto di Dimitri Dimitracacos

trench: Fendi, collant a rete: Wolford, foto di Dimitri Dimitracacos

«Devo fare una confessione», esordisco. Lei mi guarda un po’ perplessa. «Prima di sapere che dovevo intervistarti non conoscevo bene Dalida. Per me era solo un nome collegato a Luigi Tenco. Quando ho iniziato a documentarmi sono rimasta sconvolta dalla sua storia». Sveva capisce dove voglio andare a parare e s’illumina. «Sì, la sua vita è già un film», conferma sorridendo.

«Tu la conoscevi già o l’hai scoperta come me, quando hai deciso di proporti per il ruolo?», le chiedo, accecata dal suo sorriso. «Direi che l’ho scoperta piano piano anch’io», spiega lei. «I miei genitori la conoscevano bene ma io no. Per quanto riguarda il ruolo … pensa che all’inizio non volevo nemmeno fare il provino. Ero tra New York e Miami in quel periodo e mi limitavo a mandare dei self-tape con il cellulare. Dopo il sesto mi hanno chiamato per l’ultimo call-back a Parigi. Ci sono andata e ho portato l’interpretazione di Je suis Malade».

cappotto e abito: Tommy Hilfiger, stivali Kenzo, foto di Dimitri Dimitracacos

«Un pezzo straziante!», esclamo, interrompendola. «Ho riguardato mille volte il video in cui la canta con addosso quel vestito d’oro. Credo che in quella canzone dia il meglio di sé».
«E ho cercato di farlo anch’io», continua Sveva. «Ti dico solo che dopo la mia interpretazione c’è stato un attimo di silenzio, la troupe si è alzata, mi hanno applaudito… alcuni si sono messi a piangere. Io sono andata dalla regista e le ho detto: ‘Je suis Dalida’. E lei mi ha risposto: ‘Je sais’». «Oddio … wow», commento io, con grande professionalità.

«Quanto è importante per te recitare? Avresti potuto accontentarti della tua carriera di modella», le chiedo, dopo che lei ha ordinato una Coca non zero né light (davvero strano per una modella, penso). «È un sogno che ho da sempre», ammette Sveva. «Ho iniziato a sfilare che ero ancora minorenne, con la Elite Model Look. Ma non appena ho cominciato a guadagnare i primi soldi ho cominciato a studiare con Susan Batson (una delle più importanti coach del mondo, che prepara attrici come Nicole Kidman e Juliette Binoche) perché avevo bisogno di trovare un modo per potermi esprimere di più, più intensamente».

Anche Dalida era attrice oltre che cantante. «Ha iniziato come attrice in Egitto dove è cresciuta – racconta Sveva – Figlia di genitori calabresi, suo padre era il primo violino all’Opera del Cairo. Poi si è trasferita a Parigi, e lì la musica è diventata la cosa più importante: considera che in tutta la sua carriera ha venduto 170 milioni di album e ricevuto 70 dischi d’oro … ma nell’86 fece un film molto importante per lei, Le sixième jour, per il quale si trasformò totalmente».
Nel film Dalida interpreta Saddika, una donna disperata che ha perso la famiglia per un’epidemia di colera e attraversa il Nilo su un battello insieme all’unico figlio sopravvissuto, anche lui malato. Nonostante il sostegno e l’amore di un giovane compagno di viaggio, Saddika non riesce a superare la morte del figlio, che avviene durante il sento giorno di viaggio, e si suicida.

«Non ho visto il film … in che senso si trasformò?», chiedo a Sveva. «Il suo personaggio è molto cupo», mi spiega lei. «Per tutto il film indossa una tunica nera, è senza trucco … Dalida si immedesimò completamente in questa donna disperata. Fu un successo di critica (andò a Cannes) ma non di pubblico… i suoi fan fecero fatica ad accettare un ruolo così triste … in più lo girò al Cairo, nei luoghi della sua infanzia… fatto che la rese ancora più fragile. Nell’87 si suicidò anche lei, come la sua Saddika».

La vie m’est insupportable… Pardonnez-moi”, lascia scritto Dalida prima di morire. Il suicidio è un evento ricorrente nella sua storia, non soltanto perché l’ha tentato diverse volte (3, a distanza di 10 anni una dall’altra), ma anche perché ha contaminato tutti gli uomini che lei ha amato. Il primo fu Luigi Tenco. Dopo aver cantato con lei Ciao amore ciao a Sanremo, Luigi – con cui aveva da 6 mesi una relazione – si ritirò in albergo, deluso dalla squalifica. Poco dopo Dalida lo raggiunse nella loro stanza e lo trovò morto. Lucien Morisse, suo ex marito e protettore, si suicidò 10 anni dopo la fine della loro storia. E infine Richard Chanfray, con il quale iniziò la relazione più lunga della sua vita (9 anni) nel 1983, che due anni dopo la loro separazione si suicida insieme alla sua nuova compagna. «Un film su Dalida» dico a Sveva, «è un film sul successo, sull’amore ma anche sulla depressione. Come hai affrontato questo aspetto della sua vita?».
«Partiamo dal presupposto che questo è il lavoro di un attore», risponde lei, facendomi sentire un po’ scema per la mia domanda. «Siamo strumenti e ci mettiamo a disposizione di un personaggio. Quindi… ho cercato di trovare il dolore dentro di me.” E poi dice una cosa a cui ho pensato molto anche dopo l’intervista: “Credo che una delle fortune di un artista sia anche la possibilità di esplorare in modo sano la propria parte oscura.”

«Certo, è stato difficile non farsi travolgere dalle sensazioni negative…» ammette dopo qualche istante di silenzio, «…che ci sono state, ci dovevano essere. I litigi violenti, trovare Luigi così, i tentativi di suicidio. Ma ci sono state anche scene molto belle e divertenti, galvanizzanti: stare sul palco e cantare davanti a 500 persone che ti ascoltano e urlano “Dalida!”, e tu ti senti davvero una star. E poi indossare i magnifici costumi che reinterpretano in chiave contemporanea gli abiti di scena di Dalida, realizzati apposta per me».

reggiseno e culotte: Intimissimi, collant a rete: Walford, foto di Dimitri Dimitracacos

reggiseno e culotte: Intimissimi, collant a rete: Walford, foto di Dimitri Dimitracacos

Quello di Lisa Azuelos non è il primo tentativo di mettere in scena la vita di Dalida. C’è anche un film tv del 2006 che ha come protagonista Sabrina Ferilli. Chiedo a Sveva se l’ha visto. «No, non l’ho visto», mi risponde. «Siamo due donne molto diverse, e poi ho voluto lavorare soltanto con me stessa, senza distrazioni o confronti». «Sicuramente, a differenza della Ferilli, tu somigli molto a Dalida… diciamo che parti avvantaggiata. Ma la somiglianza fisica non basta, giusto?».

«Assolutamente no. Innanzitutto ho dovuto imparare a parlare in francese. Appena arrivata a Parigi ho iniziato a fare 6 ore di lezione al giorno. Poi ho imparato a stare sul palco con tanti ballerini, a ballare e a cantare insieme, e a farlo in modi molto diversi. Sai, Dalida ha avuto tre momenti. Il momento d’esordio, in cui ha fatto canzoni leggere come Bambino e Gigi L’Amoroso, il periodo tragico di Je suis malade e Avec le temp e poi la fase discomusic. Era una diva eclettica, un po’una Madonna dei suoi tempi. Io ho cercato di fare mie queste sue trasformazioni, trasformandomi a mia volta».

Io la ascolto ipnotizzata, lei continua a raccontare senza fermarsi. «E questa era la preparazione fisica, diciamo… poi c’è stata quella emotiva. Orlando, il fratello di Dalida, mi ha aiutato tantissimo. Un giorno mi ha mostrato il suo ufficio», dice piegandosi un po’ verso di me, come per raccontare un segreto, e il suo sguardo si accende, brilla. «Mi ha lasciato da sola in questa stanza dove ci sono tutti i premi di Dalida… io ne ho preso uno e l’ho tenuto in mano a lungo… è stata un’emozione fortissima, poter tenere l’Oscar che ha tenuto lei tra le sue mani …». Per un po’ ci guardiamo sorridendo senza dire niente. «Insomma – conclude lei, ritraendosi come per ricomporsi – c’è stato un grande studio dietro a questo personaggio… non sempre si fa il tipo di lavoro che ho fatto, col corpo e col cuore, e spero che il film lo dimostri».

«Lisa Azuelos, la regista, è passata dalle teen comedy con Miley Cyrus a un biopic su Dalida… dev’essere un personaggio che ama molto. Ho letto che anche lei è di origini marocchine e che sua madre è una cantante francese». «Sì, la ama molto e la conosce bene – mi risponde Sveva – ha lavorato tre anni sulla sceneggiatura del film. E poi lo disse anche Orlando, un giorno: soltanto una donna poteva fare un film su Dalida, capirne la fragilità e la grande forza. Raccontare il personaggio pubblico e la vita personale, le relazioni. C’è molto materiale per capire chi era lei, ma anche per capire le donne, tutte».
«In effetti questo film unisce tante generazioni di donne, tante anime di donne diverse. Tu e la tua storia, la regista e sua madre cantante, le tante facce di Dalida, Saddika, perfino io che ti sto intervistando … e chissà quante altre ancora ne unirà…”
“‘Je suis tout les femmes’, cantava lei!”

«E gli uomini?», le chiedo. «Si comincia con il rapporto col padre, amatissimo durante l’infanzia, che torna da una lunga prigionia ammutolito, sconvolto, e muore quando lei ha 12 anni. Ma l’uomo più importante della sua vita è stato il fratello Orlando, che nel film è interpretato da Riccardo Scamarcio». «Ti è piaciuto lavorare con Scamarcio?», «Sì, lui è davvero bravo, siamo andati subito d’accordo. Ma anche gli attori francesi mi hanno aiutato, comprendendo la difficoltà di interpretare qualcuno in una lingua che non è la tua». «E gli altri uomini? Da qualche parte ho letto che Dalida ha sempre sofferto il fatto di non essere riuscita a creare una famiglia, ad avere bambini».
«Pensa che, non so se lo sai, a un certo punto rimase incinta, di un ventiduenne, Lucio. Lei aveva 34 anni e dovette abortire… sarebbe stato uno scandalo tenere un figlio di un ragazzo così giovane. Sai, Dalida non è mai riuscita a divedere il pubblico dal privato. Credo che questa sia una cosa importante per chi fa questo lavoro. Proteggere la propria vita privata. Lei era completamente esposta. Non ha potuto avere una famiglia, non ha trovato l’uomo giusto… alla fine tutto questo l’ha portata a fare una scelta forte. Quello che posso dire, e che ho capito dal film, è che la vita è troppo importante».

abito: Louis Vuitton, scarpe: Casadei, foto di Dimitri Dimitracacos

abito: Louis Vuitton, scarpe: Casadei, foto di Dimitri Dimitracacos

Mi ritrovo di nuovo a fissarla sorridendo, questa volta un po’ sconcertata dalla sua ultima frase. Non so davvero cosa dire. La vita è importante, certo, ma alcune sembrano quasi più importanti di altre, vorrei rispondere.

Mi dispiace lasciare l’Hotel Palazzo Parigi e tornare nella mia vita grigia, poco importante. Fuori non piove più e io mi concedo il lusso di non richiedere l’ombrello al concierge: fingo di dimenticarlo. Cammino a lungo, fino a casa, nell’aria bagnata della domenica sera… continuo a pensare alla vita di Sveva, alla vita di Dalida, così diverse dalla mia, così dense e luccicanti, ognuna a suo modo. Meno male che esistono, penso accendendomi una sigaretta. Meno male che possiamo almeno sognarle, immaginarle e farcele raccontare».