Riccardo Scamarcio: «Sono un pirata che va dove lo porta il cuore» | Rolling Stone Italia
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Riccardo Scamarcio: «Sono un pirata che va dove lo porta il cuore»

Al cinema con Benedetta Porcaroli nell’‘Ombra del giorno’, di cui è produttore e protagonista, l’attore si racconta a Rolling Stone con una lunga intervista. Che parla del film, di sé, del futuro dell’arte in Italia. E di corsari

Riccardo Scamarcio: «Sono un pirata che va dove lo porta il cuore»

Riccardo Scamarcio in ‘L’ombra del giorno’ di Giuseppe Piccioni

Foto: 01 Distribution

Troppo bello per essere bravo. Per anni lo hanno pensato in tanti, mentre lui nei film di cassetta e in quelli d’autore si prendeva i ruoli più scomodi e difficili. Quando le ragazzine lo assalivano e lo ergevano a sex symbol, lui le “costringeva” ad andarlo a vedere a teatro. Quando altri avrebbero raccolto i frutti di una fama enorme, lui se ne andava all’estero a rifare la gavetta. Per poi farsi apprezzare da maestri internazionali come Costa-Gavras e Nanni Moretti. Da contadino ha sempre avuto la pazienza di raccogliere quanto seminato, senza forzare se stesso o la terra. Non si è mai rinchiuso in uno stereotipo ed è per questo che non stupisce rivederlo con Giuseppe Piccioni ne L’ombra del giorno (in sala dal 24 febbraio), dramma in costume ambientato durante la quotidianità fascista della provincia marchigiana. Lui è Luciano, reduce claudicante della Prima guerra mondiale, uno che non è un dissidente ma che nessuno ha mai visto con la camicia nera. Lavoratore rigoroso e perfetto direttore del suo ristorante, equilibrista elegante in un paese terrorizzato e vigliacco. Poi arriva Anna (Benedetta Porcaroli, qui tanto dimessa quanto brava) e il protagonista implode, i suoi sentimenti aprono i suoi occhi e il suo cuore, lo costringono a fare ciò che è giusto, anche se può equivalere a un suicidio. Scamarcio interpreta Luciano senza retorica ed enfasi, sempre un’ottava sotto, con un’intensità compressa e una cura dei dettagli – nella lingua, nei gesti, negli sguardi, persino nelle goffe tenerezze – da grande interprete. Una di quelle prove d’attore da premio che in Italia quelli troppo belli per essere bravi raggiungono con difficoltà. Ma a lui importa poco, a lui interessa il viaggio, non dove arriverà. E tante altre cose.

Di solito una domanda così si fa alla fine. Ma in quest’uomo severo, soprattutto con se stesso, ma fragile io rivedo Una giornata particolare e molti film mitteleuropei. Qualcosa o qualcuno ti ha ispirato?
Ti sembrerà strano, ma l’unica ispirazione è stata mio padre. La caratteristica principale di quest’uomo, la sua peculiarità, è proprio questa forza di volontà, la capacità ma anche il limite di essere sempre in controllo. Da qualche parte custodisce una specie di saggezza antica, è un modo di essere semplice, persino un po’ ottuso sotto alcuni aspetti, però la sua è una rigidità che merita comunque attenzione. E che, confesso, non mi appartiene. Temo di essere più focoso e meno equilibrato di lui.

Un personaggio che non perde mai la sua rigidità, ma che forse grazie a essa è molto più umano di tutti gli altri: è un reduce senza essere un fascista, è un sentimentale senza essere innamorato, almeno finché non vede Ester/Anna. È prudente ma non ha paura di nulla e nessuno.
Ed è un uomo che si concede molto poco, molto concentrato in quello che fa e sobriamente disilluso. Un reduce che ha rinunciato anche ai suoi rimpianti. E questo fa di lui un personaggio d’altri tempi, bello e complesso.

Riccardo Scamarcio con Benedetta Porcaroli in una scena dell’‘Ombra del giorno’. Foto: 01 Distribution

Hai questa caratteristica di scegliere tanti personaggi diversi, sei uno che pur di uscire dalla comfort zone farebbe qualsiasi cosa. Però ho l’impressione che ora la tua esigenza di andare in sottrazione, di scegliere ruoli così dolenti e difficili, sia ancora maggiore.
Intanto credo sia merito della maturità, sono cresciuto e quindi ho anche l’opportunità anagrafica di affrontare certe sfide, certe età, certi modelli di uomini. E che vivono delle cose intense come lui, in un contesto dove tutto è difficile e può essere sbagliato: parlare, leggere, discutere diventa pericoloso, tutto ciò che fai è velato dal timore che possa ritorcersi contro di te. E poi rivendico il lavorare in sottrazione come un qualcosa che ho sempre fatto. Cerco sempre di modellare il personaggio mantenendo una misura, non permetto mai alla caratterizzazione di essere predominante rispetto alla costruzione emotiva del personaggio e quindi all’empatia che può generare, metto sempre la caratterizzazione al servizio dell’empatia e non viceversa. E poi avevo un’indicazione abbastanza precisa data dal copione, a onor del vero mi capita raramente di trovare dialoghi e sceneggiature così riuscite e curate, a partire da quest’italiano di un’altra epoca che parliamo nel film. Già in scrittura, appunto, mi ha dato un’indicazione molto precisa di chi fosse il protagonista. E l’inflessione, la cadenza, serve anche a sottolineare i ruoli, le loro storie, la loro formazione. Quel dettaglio ti dice tanto di chi abita questa storia.

Cosa ti ha affascinato di più di questo film e del tuo personaggio?
Tutto. Il suo trauma vissuto senza concedersi alibi, in primis. Lui è stato costretto a dover combattere e per ordini ricevuti e sopravvivenza a commettere degli omicidi, per un senso del dovere che è esattamente lo stesso che mette nel suo lavoro ha perso la sua integrità fisica, e non solo. Luciano è un uomo che conosce l’ingiustizia della vita, l’ha vissuta, ed è questo che forse lo ha annichilito. L’incontro con questa ragazza ovviamente diventa una conseguenza quasi inevitabile, una ventata di vita e di luce in un mondo morto e buio come quell’Italia fascista, soprattutto per un reduce che ha compreso il teatrino in cui sta vivendo. E lo subisce a stento. Si innamora e tutta la corazza, tutte le certezze su cui poggiava un equilibrio già precario, si sgretolano. Per un terremoto, per quell’avvenimento imprevedibile che è l’amore, la cosa più imponderabile insieme alla morte.

A quel punto il film decolla, portando con sé la forza, la tenerezza e il dolore di un amore impossibile.
Sono stati molto molto bravi gli sceneggiatori Gualtiero Rosella, Annick Emdin e il regista Giuseppe Piccioni, perché hanno costruito un personaggio con una grande frattura emotiva e, in un contesto in cui monta un terrore dovuto dagli eventi esterni, un uomo che si riscopre capace di amare nel momento più “sbagliato”.

Quanto c’è di tuo in Luciano in termini di discussione del ruolo, di improvvisazione, di costruzione del personaggio?
Mi sembra abbastanza aver dato corpo e voce a un personaggio che era solo sulla carta, interpretare e dare vita a qualcosa che esiste solo a parole è già un piccolo miracolo. Avevo un’indicazione, una limitazione precisa, quella di essere claudicante, e già quello ti consegna un corpo che non ti appartiene, mani e gambe che non sai dove mettere e che per te, attore, diventano l’abito che ti consente di trasformarti. E anche lì, solo rivedendomi, mi sono reso conto che ho ripescato dei gesti tipici di mio padre, nei panni di Luciano mi passavo spesso due dita sotto l’occhio, ad esempio, una cosa che io non faccio mai. Un transfert inconscio ma illuminante: a un certo punto, conoscevo talmente tanto bene Luciano, il suo modo di ragionare, che mi era divenuto familiare. E il corpo ha seguito naturalmente tutto questo.

Incredibile come un film in costume per te così lontano negli anni, nei modi, nelle storie dei personaggi, possa averti coinvolto in modo così tanto personale.
Credo dipenda anche dal periodo personale che sto vivendo. Sarà che sto crescendo mi avvicino di più a mio padre, capisco di più le sue scelte e alcuni suoi comportamenti. E poi sono diventato padre anch’io (nel 2020, di una bambina nata dalla relazione con Angharad Wood, ndr)! E poi ci son tante cose a unirsi ma che lasciano traccia nei film che faccio. Ho cominciato a vent’anni e so che a volte – raramente, ma accade – arrivano i film magici, e questo è uno di quelli. Intanto l’ho prodotto, quindi l’ho preso per mano insieme a Giuseppe, anche se in maniera rocambolesca è nato sotto una buona stella. E poi abbiamo iniziato le riprese il lunedì e il sabato successivo c’è stato il lockdown totale, e siamo entrati in una situazione in cui potevamo soltanto lavorare. Eravamo un gruppo di persone tutte tamponate, una situazione persino ideale per fare un film: potevi ricostruire tutto, c’erano solo la troupe e le macchine d’epoca, tutto era fermo intorno a noi. Quello che in tempi normali conquisti per poco tempo e tra mille problemi e autorizzazioni, lo avevi lì a disposizione totale e senza limiti di spazi e tempi. Eravamo veramente in un’altra epoca, una sorta di viaggio nel tempo: in costume, nel caffè Meletti di Ascoli. E il lockdown totale è finito il lunedì successivo al sabato in cui abbiamo chiuso noi il set. Ancora oggi è straniante pensare a quel periodo.

Riccardo Scamarcio in una scena del film. Foto: 01 Distribution

Una storia pazzesca. Cosa è successo dentro di te, dentro di voi? Una situazione del genere amplifica sentimenti, sensazioni?
Sai, mi è difficile vederla sotto una luce “romantica”, visto che ero anche produttore. Non l’ho vissuta proprio con grande tranquillità: per dirtene una, nessuno ci assicurava. Per fortuna non è successo nulla, ma, quando pensate a chi girava in quei mesi e in qualche modo ha contribuito a tenere in vita un settore, pensate agli enormi rischi che ci siamo presi. Ti lascio solo immaginare il disastro al quale sono stato esposto quanto produttore. Detto questo, il cinema è un’avventura e come tale devi viverla, altrimenti non ne vale la pena. Parlo del cinema con la C maiuscola, poi per il resto è un altro discorso: si possono fare i grandissimi prodotti industriali, il grandissimo intrattenimento anche senza tutto questo. Ma se si parla di arte, invece, non può prescindere da un elemento fondante: che chi lo fa, le persone che stanno facendo il film, devono condividere un’avventura, un’esperienza. La mia convinzione è che, se manca questo, stai facendo altro ma non cinema. Se vado a vedere i film più importanti, i film che sono rimasti nella storia del cinema, non a caso hanno dietro delle storie pazzesche, incredibili. Spesso nessuno voleva produrli, altre volte sono stati interrotti per un casino sul set, altri ancora sono stati scritti perché quattro amici si sono ritrovati insieme in una situazione eccezionale. C’è sempre di fatto la condivisione di qualcosa di importante, non è mai solo una storia di professionisti del mestiere, quello è l’audiovisivo industriale. Ecco, quel momento di sospensione e di timore che abbiamo vissuto a causa del Covid ha contribuito a costruire l’humus che serve al cinema per essere grande. In fondo il Covid e il fascismo condividono l’essere un pericolo immanente, feroce, quotidiano.

Posso permettermi? Mi sembri uno che trova la vita più affascinante, più avventurosa, quando riesce a complicarsela. Anche fare il produttore è uno dei modi per farlo, per uscire fuori dalla comfort zone?
(Ride di gusto) Hai trovato la definizione perfetta, è un modo per complicarmi la vita. Me lo dicono le persone che mi sono vicine, che si lamentano delle continue telefonate che ricevo. Ma facendo anche l’attore, ho il privilegio di poter produrre solo ciò che mi piace, arrivo al massimo a due film l’anno, ne finisco uno e ne inizio un altro. Questo film aveva tutto per attrarmi: intanto Giuseppe è un grande regista, il copione era di alto livello e Luciano è un grande personaggio. Ci ho pensato un attimo e poi mi sono detto: “Dài, andiamo, proviamoci”. Poi è pure vero che mi piace parecchio sentirmi Mr. Wolf, risolvere problemi, con quell’approccio artigianale di chi sta sui set da 22 anni, con il gusto di rimboccarmi le maniche.

Anche questa un’eredità di tuo papà?
No, diciamo che questa è una cosa invece più mia, ricevuta in eredità dalla mia esperienza con la terra.

Però, dài, adori metterti in pericolo, dai film all’estero a personaggi disturba(n)ti, dal fare teatro dopo Tre metri sopra il cielo a produrre.
Sì, hai ragione. E a volte esagero pure, e lo rivendico. Secondo me il coraggio, in parte, è mettersi in pericolo. Credo che nasca dal fatto che io non ho tanto interesse per l’obiettivo che pure mi prefisso, ma più per il viaggio che devo fare per raggiungerlo. Il percorso per me è tutto, e più è particolare, complesso, affascinante, più lo amo.

Quest’ossessione per intraprendere nuove strade invece di cercare la fama fa sì che tu cambi continuamente registro e personaggi, pur mantenendo una forte firma personale nell’interpretazione?
In tutti i miei personaggi ci sono io. Anche in quelli più meschini, vivo un processo di identificazione costante e sempre senza giudizio morale. E sempre per quel senso del viaggio di cui ti ho appena parlato. Mi rendo conto sia un terreno tanto ammaliante quanto pericoloso, non a caso nel Medioevo seppellivano gli attori fuori dal cimitero, perché probabilmente inquietavano gli animi anche da morti, mentre in India fanno loro gli altari. Ci considerano un problema o qualcosa da venerare per lo stesso motivo, la capacità di essere tanti, tutto, e soprattutto c’è qualcosa di profondamente mistico nel mestiere dell’attore, un gioco continuo a perdere se stessi liberandosi dall’Io e dal super Ego. Dicono di noi che siamo narcisisti, ma dimenticano che Narciso si suicida perché vuole distruggere la sua immagine, non perché se ne innamora. Non è mia ovviamente, è una citazione di Carmelo Bene.

Carmelo Bene, un punto di riferimento. Lo hai difeso anche in modo muscolare, a volte.
Carmelo è tutto, quando soprattutto nulla ha senso uno basta che lo ascolta cinque minuti e tutto ritorna normale. Lo senti e pensi: ok, va tutto bene.

Uno dei problemi più grandi del cinema e dell’arte italiana è il non saper perdersi, la mancanza di coraggio?
Credo che non sia qualcosa che riguardi solo noi, ma tutto lo showbiz e in generale il mondo contemporaneo. Tutti sono ossessionati dalla propria comfort zone, dal riproporre il simulacro di qualcosa o, peggio, di se stessi, in modo che ci si possa riconoscere in esso. Tutto è derivativo. Tranne poche eccezioni e qualche attimo di genialità, credo che sia sotto gli occhi di tutti che la società dello spettacolo sia in un momento non particolarmente felice. E il motivo è semplice, stiamo tutti perdendo il fuoco, che è l’umano e l’umanità. Se io penso a Ettore Scola e ai film che ha fatto, se penso a C’eravamo tanto amati per citarne solo uno, capisco che è di una modernità disarmante anche perché ci insegna a perdonare i nostri difetti e ad accettarli, a empatizzare con essi, con le nostre bassezze, senza paura e ipocrisie, ma aiutandoci a riconoscerli. Abbiamo perso quella potenza narrativa ed emotiva dei Fellini, degli Scorsese, dei Truffaut, dei Risi e degli Scola, manca l’onestà intellettuale di autori e spettatori di riconoscersi nelle meschinità. Il pubblico attraverso queste opere viveva un processo di emancipazione e di evoluzione umana proprio vedendosi perdonato, oggi invece abbiamo i buoni e cattivi: dove i buoni sono solo buoni, i cattivi sono solo cattivi… un eterno cartoon.

Insomma, mi sembra di capire che non farai mai un film Marvel?
Non ti dimenticare da dove vengo. I contadini hanno scarpe grosse e cervello fino, quindi ti rispondo che dipende da quanti soldi mi danno. Col nemico si può anche lavorare, purché tu sappia con chi stai lavorando. E per nemico intendo chiaramente solo un modo diverso di stare in quest’arte, che è anche industria, e di intendere il mestiere che facciamo. Se farlo può farmi fare teatro e produrre grandi film, perché no?

Produttore, sceneggiatore, attore. A quando la regia?
A oggi ti rispondo: mai. Di registi bravi ce ne sono diversi, facciamo lavorare loro, è un qualcosa che non mi attrae, la mia verve creativa amo incanalarla nella produzione, che interpreto non in maniera finanziaria o manageriale, ma cercando di mettere a disposizione gli anni di frequentazione di set, la conoscenza profonda delle dinamiche di un film e la mia sensibilità artistica. Conosco la scena dall’interno, e questo è qualcosa che nel settore hanno in pochi. E poi mi piace troppo recitare e aiutare ottimi registi a fare opere migliori. Ripeto, per me questo lavoro non è un fatto di soldi, che peraltro non sono mai abbastanza. E dico pure “meno male!”, perché le difficoltà ti portano a risolvere i problemi, non a scavalcarli, dribblarli, ignorarli. Dopo dieci anni ho ancora tanto da imparare, ma penso, senza falsa modestia, di saperlo fare bene il produttore, un po’ alla vecchia maniera. Il mio riferimento, con le debite proporzioni, è la United Artists.

Dove trovi le motivazioni dopo tanti anni di set e avendone solo 42? Cosa ti spinge a scegliere un ruolo o un film?
Non è facile trovare sempre nuove motivazioni, ma ho capito che qualcosa mi accende se ci sono valori in campo, quei talenti e quei contenuti che poi nella vita di ognuno di noi condizionano tutte le scelte. La verità però è che, se ti devo rispondere con una frase, ti dico che io vado dove mi porta il cuore, anche a costo di sfracellarmi. Contadino nell’impegno, sognatore e totalmente aereo nell’attitudine, e sempre navigatore di mari increspati. Anzi, pirata, meglio ancora: un corsaro.

Alla fine Luciano è più simile a te di quanto tu stesso pensavi.
Lo sai che mi sa che hai ragione?