Pupi Avati: «Non ho nessun allievo» | Rolling Stone Italia
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Pupi Avati: «Non ho nessun allievo»

L’horror padano e l’ossessione per la morte, i successi e i fallimenti, le bugie come carburante dei sogni, la povertà e l’autoesclusione, il cinema e un eclettismo che non ammette eredi: un'intervista a tutto campo con uno dei maestri del cinema italiano

Pupi Avati: «Non ho nessun allievo»

Pupi Avati al MystFest di Cattolica. Foto di Gianluca Melappioni

L’horror padano e l’ossessione per la morte, i successi e i fallimenti, le bugie come carburante dei sogni, la povertà e l’autoesclusione, il cinema e un eclettismo che non ammette eredi. Questo e tanto altro rispecchia Pupi Avati, regista, 82 anni, ospite a Cattolica del Mystfest, il Festival Internazionale del Giallo e del Mistero. Ha diretto oltre 40 film e svariate serie per la tv, arrivando a essere considerato un maestro. Eppure, tutta la sua vita, lavorativa e personale, è costellata da brusche discese e repentine risalite. La prima grande delusione da giovanissimo quando, clarinettista di punta della Doctor Dixie Jazz Band, fu costretto ad abbandonare questa passione a causa dell’ingresso di Lucio Dalla che lo oscurò con il suo talento. Ammise di averlo odiato così tanto che un giorno, in visita sulla cima della Sagrada Família di Barcellona, sentì l’impulso di spingerlo nel vuoto. Oggi però ammette: “È una storia inventata, però quando Lucio l’ha sentita, siccome era più bugiardo di me, ha retto il gioco”. 

Autore di pellicole di culto acclamate e di flop al botteghino. Scappato da Bologna a causa degli insuccessi – e con un senso di colpa che lo accompagnerà a lungo – ha conosciuto la povertà a Roma in attesa dell’opportunità della vita. Quando è arrivata, introdotto da Pasolini negli ambienti culturali della Capitale, per non finire omologato dichiarò apertamente di essere cattolico praticante e di votare Democrazia cristiana. “Lo feci apposta, in modo provocatorio, ero consapevole delle conseguenze”. Non fu più invitato. O come quella volta che perse il Golden Globe per Il Testimone dello sposo nonostante fosse convinto di vincerlo: “Andai alla serata in smoking, c’era tutta Hollywood. Quando annunciarono il ‘best foreign movie’ mi alzai, feci i tre gradini, ma il titolo del film vincitore si riferiva ad una pellicola olandese: rimasi lì in piedi come un coglione, davanti a tutti. Tornato a casa, mio fratello rimase in camera con me tutta la notte, seduto al mio fianco, perché era sicuro che mi sarei buttato di sotto”. 

Lo abbiamo intervistato, nonostante ogni ricostruzione potrebbe essere “ritoccata”, visto che in questo è in linea con il suo modello di riferimento, Federico Fellini, che in merito dichiarò: “Le cose più reali per me sono quelle che ho inventato”.

Qual è la prima immagine da bambino che ricorda? 
Quella di me dentro un lettino, con mia sorella, quindi avrò circa 4 anni, siamo prigionieri di una sorta di rete per non uscire, visto che a quell’età evidentemente già camminavo. Parallelamente mia madre e mio padre stanno litigando. È un ricordo molto nitido. Si stavano vestendo per uscire e noi cercavamo di piangere per farli smettere. Una circostanza che già allora a me dava rammarico. 

Sembra una scena di un film. Che infanzia e adolescenza ha avuto? 
Nel complesso molto serena, malgrado la storia d’Italia che mi correva accanto tutt’altro che positiva. Ricordo bene la guerra, quindi i bombardamenti, i rastrellamenti, il rifugio, le fucilazioni e la paura. Fino alla liberazione ho vissuto quel periodo con una percettività fortissima. L’adolescenza è stato un momento formativo, perché in campagna sono stato nutrito dalla favola contadina da una parte e dall’educazione cattolica preconciliare dall’altra. Entrambi utilizzavano come deterrente efficace la paura. La Chiesa di allora era tutt’altro che rassicurante e i parroci parlavano continuamente del diavolo, dell’Inferno, dei peccati e delle pene. Mentre le favole contadine che ci venivano raccontate erano spaventosissime. Però sono riconoscente a questa educazione, perché la paura sollecita l’immaginazione come nient’altro. 

Lei che ha inventato l’horror padano, di cosa ha realmente paura? 
Sono attratto da tutto ciò che ha a che fare con l’ultraterreno, il mistero che è la vita. Quindi sono rimasto legato a quelle suggestioni molto forti. E a un rapporto con la morte costante e quotidiano. Alla mia età è fisiologico, ma io ero già così quando avevo 16 anni. Il costante rapporto con la morte probabilmente deriva da quando, a 12 anni, mi accadde un avvenimento drammatico e terribile. In un incidente stradale persi il padre e la nonna. Quella notte che arrivarono a dircelo ricordo ancora le luci accese in casa, l’urlo di mia madre e la sua sofferenza per aver perso nello stesso tempo il marito e la mamma. Inconsciamente, ancora oggi, quando squilla il telefono o il campanello ho timore che incomba una notizia di quel genere. 

Dopo il fallimento nella Doctor Dixie Jazz Band, a causa del talento straripante di Lucio Dalla che la oscurò come primo clarinettista, ha mantenuto l’amore per la musica? 
Per un periodo ho provato a suonare, senza risultati. Ma nei miei film ci sono momenti in cui appaio e suono, ho composto qualche musichetta, però con la consapevolezza lucida dei miei limiti. È veramente difficile far convivere una autostima così ridotta con la pratica del jazz, che richiede una convinzione assoluta dei propri mezzi. Il jazz si suona contro gli altri, non con gli altri. Le jam session sono sfide a chi suona meglio. Quando ti trovi tutte le sere a essere il peggiore non è esaltante, a un certo punto diventa molto doloroso e quindi decidi di smettere. 

Eppure, le sue pellicole sono sempre legate a colonne sonore molto curate. 
Nel film che sto per girare saranno a cura di Stefano Di Battista, grande sassofonista. In passato, altri musicisti della storia del jazz non mi sono permesso neanche di contattarli, anche se mi sarebbe piaciuto. Però un modo per vendicarmi del disamore che la musica ha dimostrato nei miei riguardi l’ho trovato, con le colonne sonore dei film che in fondo raccontano il mio pensiero, anche grazie a quelle realizzate da Riz Ortolani che ne ha composte per ben 35 pellicole. Riflettono quello che volevo io nella musica e un nostro rapporto che era di simbiosi. Queste mi risarciscono della musica che non ho eseguito. 

Ci ha mai pensato che invece di regista, sarebbe potuto essere in carcere, dopo aver buttato Lucio Dalla di sotto dalla Sagrada Família, per vendicarsi di averla superata in musica?
Devo ammetterlo, quella storia me la sono inventata. È diventato un episodio leggendario, tanto che Lucio stesso lo raccontava fingendo di ricordarselo. Ma non era vero. Non siamo mai saliti sulla Sagrada Família. E non lo avrei mai buttato giù. A un certo punto mi è piaciuto raccontarlo, funzionava e la gente rideva. Lucio se ne è appropriato e ha deciso di “ricordarselo”, mi ha molto lusingato.  

Un gusto per le bugie di felliniana memoria. 
La prima persona alla quale si deve mentire è a sé stessi. Perché se sei troppo sincero molto spesso non riesci e illuderti di far nulla. Lucio era ancora più bugiardo di me. Agli inizi, la sera dopo le prove, andavamo in una birreria dove con 50 lire mangiavi una scodella di tonno, fagioli e cipolle. Lui non le aveva mai e me le chiedeva in prestito, senza mai restituirmele. Ebbene, a quel tavolo raccontava di sé quello che gli sarebbe accaduto in futuro, delle cose da pazzo, da mitomane assoluto. Nessuno di noi gli credeva, invece ciò che ha fatto è molto di più. Il suo è stato un viaggio siderale. Si raccontava bugie credendoci e secondo me i sogni vanno nutriti così. 

E dai suoi fallimenti cosa ha imparato? 
Quando faccio scuola ai ragazzi, li invito a non rinunciare ai loro sogni. È l’unico punto di forza che ci rimane. Poi magari non ce la farai, ma finché c’è un sogno c’è una aspettativa. Se non lo desideri non succede. Molte cose della mia vita non sono andate come avrebbero dovuto, ma è formativo cadere. La caduta, l’errore, il dolore. Non a caso, gli attori più straordinari e sensibili sono quelli che hanno sofferto, non quelli che hanno frequentato le scuole migliori. Hanno nel loro bagaglio l’aver vissuto la vita dal di dentro e quando recitano sanno restituire qualche cosa in più. 

Da questa descrizione mi viene in mente Alessandro Haber, bolognese come lei e con il quale ha condiviso molti set. 
Haber è l’archetipo dell’attore. Il punto di riferimento a mio avviso di come dovrebbero essere tutti gli attori. È un portatore di verità, di naturalezza, di creatività, sempre nel rispetto del personaggio. Non è facile essere se stesso e il personaggio simultaneamente, senza mai perdere la necessità di risultare verosimili. Una qualità rarissima! È certamente una persona difficilissima da gestire, ma quando è in scena con altri cerco sempre di fare in modo che sia lui a dire la prima battuta, come nel coro per intonare un po’ tutti gli altri. 

Qual è il suo rapporto con Bologna, la città da cui è fuggito ma che spesso è lo sfondo delle sue storie al cinema? 
Innanzitutto, la distanza anagrafica e temporale fanno sì che certe cose si vadano sbiadendo. Mi riferisco ai sensi di colpa, che piano piano si attenuano. Quando sono scappato a Roma e ho iniziato a raccontare Bologna, avevo dentro di me il senso di colpa per chi avevo lasciato e tradito i miei amici e parenti. Avevo messo in discussione anche quella centralità dei bolognesi, infatti mi dicevano: “Ma come fai a vivere a Roma?”. Ho portato dentro di me per molto tempo questo senso di colpa nei riguardi della fuga. Ma per me Bologna era diventata impraticabile. 

C’è qualcosa di cui si pente di aver fatto nel mondo del cinema? 
No, veramente ho la coscienza a posto. Ci sono cose ignobili che ho fatto, ma non per emergere, riguardano la mia vicenda personale più privata, delle quali non vado orgoglioso e mi vergogno ed è giusto che subisca una punizione, però non hanno nessuna attinenza con il cinema. Il mio percorso professionale infatti è pieno di salite. Difficilmente ho preso delle scorciatoie. 

E così sta superando i quaranta film con quello che girerà in questi giorni, tratto dal libro di Giuseppe Sgarbi – padre di Elisabetta Sgarbi e Vittorio Sgarbi – che racconta la storia d’amore tra Nino e Caterina: un amore lungo 65 anni e mai finito, neanche con la morte. 
Lei mi parla ancora mi ha colpito per l’idea del “per sempre” che contiene. Nel periodo storico che viviamo questo concetto è stato rimosso. Nessuno usa più questa locuzione avverbiale. Invece la mia generazione è stata formata su questo principio, per il quale ci sembrava normalissimo trovarci davanti a un sacerdote e prometterci “per sempre” con la persona che avevamo a fianco. Accadeva anche nei flirt. Tutte le volte che mi innamoravo di una ragazza volevo esserlo per sempre. Glielo dicevo e lei ricambiava. Che nella realtà sapessimo che non era possibili, è probabile, però la cosa bella era la sfrontatezza che ci potesse essere qualcosa di così impossibile. Quando mi sono imbattuto in questo libro, mi ha stupito la storia di questa persona che per 65 anni resta con la stesa donna e quando si trova solo si ostina a immaginare che lei ci sia ancora. Una storia anacronistica da raccontare, ma formativa per vedere come siamo stati. 

È anche la prima volta che gira un film da una storia non scritta da lei. 
Non è stato facile ritagliare un mio film da una storia altrui. Non l’avevo mai fatto e ci sono riuscito raccontando, non tanto il romanzo ma il prequel. Cioè, come è nato e perché quell’uomo si è deciso a raccontare. E così è basato sul rapporto tra lui e il suo ghostwriter, una persona più giovane, con una visione molto diversa sul matrimonio e la famiglia. Ci sarà una dialettica molte forte tra i due. 

Non ha mai lesinato critiche al cinema italiano, che ha spesso definito asfittico. È ancora così?
Devo dire che ultimamente vedo un risveglio. Per esempio, dopo La grande bellezza di Sorrentino. È un film che mi ha entusiasmato, perché è riuscito a tornare a una idea di cinema grande, ampio, vasto, ambizioso. Cosa che il cinema italiano non aveva il coraggio neppure di immaginare, anche dal punto di vista della produzione. Quello è un grande film. 

Pupi Avati ha qualche allievo? 
Non credo, perché ho una cinematografia così variegata, e senza voler risultare presuntuoso, sono stato così eclettico che dovrei dire se c’è qualcuno che si è ispirato al mio cinema gotico, oppure al cinema della memoria e via via su altri campi che ho percorso. Ma non c’è nessuno che mi dà la sensazione di aver interpretato questa professione come me. 

Il periodo di lockdown lo ha trascorso lavorando o l’ha bloccata dal punto di vista creativo?
Ho cercato di trarne tutti i vantaggi, nonostante la situazione così drammatica e negativa. Ho pensato che quella forma di reclusione fosse utile per scrivere un libro. E infatti ho concluso il seguito de Il Signor Diavolo. E ho recuperato un rapporto, anche umano, con mia moglie. È evidente che c’è un motivo se stiamo insieme da più di 50 anni, ma con me spesso fuori casa ci vedevamo la sera a cena. Adesso siamo stati giorno e notte continuamente assieme e ho verificato che si è sobbarcata la gestione della casa, scoprendo una donna che, nonostante non sia più una ragazza, ha una forza, una energia, una positività e un coraggio meravigliosi. Le donne sono infinitamente più forti di noi uomini. 

Mi sembra che lei la drammaticità della pandemia l’abbia percepita, a differenza delle dichiarazioni di alcuni, da ultimo Andrea Bocelli. 
A Bocelli posso dire che ho avuto un caro amico che è morto di Covid. Un grande jazzista, Bruno Longhi, un clarinettista fantastico. Per cui non ho dubbi sul fatto che si muoia di questo virus. Almeno uno certamente è morto e io lo conoscevo. 

Chiudendo con la sua ossessione, ha mai pensato a come le piacerebbe morire? 
Vorrei svegliarmi già morto.