Paolo Virzì: «La propaganda del Governo ha dato il via agli istinti più bassi» | Rolling Stone Italia
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Paolo Virzì: «La propaganda del Governo ha dato il via agli istinti più bassi»

Il regista di Livorno racconta il suo nuovo film ‘Notti Magiche’, ci spiega com’era l’Italia dei primi anni '90, senza dimenticare uno sguardo sull’attualità.

Paolo Virzì: «La propaganda del Governo ha dato il via agli istinti più bassi»

È senza dubbio uno dei migliori registi che abbiamo, uno che riesce ad andare al cuore delle emozioni, raccontando – come fanno davvero in pochi – l’Italia e gli italiani senza buonismi, ma con un’ironia sagace, cattiva, tagliente. Un po’ come faceva Mario Monicelli. Del resto chi non si ricorda capolavori come La bella vita, Ferie d’agosto, Ovosodo o Tutta la vita davanti? E che dire dei tenerissimi La prima cosa bella e La pazza gioia? Questa volta il cineasta livornese torna indietro nel tempo, per raccontare le vicende delle Notti Magiche, come il titolo del suo film in uscita l’8 novembre. Tra partite di pallone, premi per aspiranti talenti e l’Italia della Prima Repubblica.

Perché ambientare un film proprio negli anni ’90?
Non è corretto definirli anni ’90. È il luglio del 1990, ovvero la fine degli anni ’80. Gli anni ’90 rappresentano un voltar pagina di quella stagione dell’Italia e del cinema.

In che senso?
È la fine della Prima Repubblica, l’ancien régime politico, cinematografico e culturale si stava chiudendo. È l’anno dell’ultimo film di Fellini ed è l’anno in cui, i grandi maestri del cinema, della stagione considerata gloriosa, erano ancora tutti vivi, attivi e potenti.

Quindi hai deciso, con gli sceneggiatori Francesca Archibugi e Francesco Piccolo, di dedicare una pellicola a tutto ciò.
Per noi era divertente fare intrecciare le storie di tre aspiranti sceneggiatori con una vicenda di rilievo nazionale – che in verità rimane sullo sfondo – come, per l’appunto, quell’estate delle notti magiche, dei mondiali di calcio di Italia 90.

Lo si capisce fin dalle prime immagini, infatti.
Tutto inizia proprio la notte della semifinale, infausta, in cui l’Italia fu eliminata dall’Argentina ai rigori. Quella notte – mentre gli occhi di tutti, a Roma, erano incollati alle tv, collegati allo Stadio San Paolo di Napoli, dove era in corso la partita – proprio nell’istante in cui Serena sbaglia il fatidico rigore che elimina gli azzurri, un’automobile di lusso vola giù, dal ponte Garibaldi, nelle acque del Tevere. Più tardi, quando pompieri e carabinieri recuperano l’automobile, ci trovano un cadavere. Il corpo è di Leandro Saponaro, ovvero Giancarlo Giannini, un glorioso produttore della stagione passata. In tasca ha una polaroid che lo ritrae mentre sta brindando con tre giovani ragazzi. E questi poveri ragazzi verranno costretti a passare una nottataccia dai carabinieri per spiegare cosa ci facessero con la vittima, essendo i principali sospettati.

Chi sono questi tre giovani?
I finalisti di un premio di sceneggiatura (Premio Solinas, ndr), tre aspiranti scrittori per il cinema. I carabinieri li costringono a rievocare la ragione per cui erano lì quella sera, come si erano conosciuti. Attraverso il loro racconto ricostruiamo questo viaggio nel cuore sublime e osceno, poetico e volgarissimo di quella stagione del cinema italiano.

Quanto è autobiografico questo film?
Be’ sicuramente c’è qualcosa che riguarda le emozioni rievocate da quelle stagioni della mia e della nostra vita. Allo stesso tempo, però, ho adoprato gli elementi biografici, gli aneddoti che ci erano capitati o avevamo ascoltato, le tante storie che ci divertiva ricordare di quei momenti, in maniera disinvolta, ma trasformandoli in narrazione. Per cui ogni tanto si menzionano nomi e cognomi di vere personalità del cinema italiano, che intravediamo sullo sfondo. E altre volte, invece, conosciamo dei personaggi più da vicino ed ecco che hanno altri nomi, di invenzione. Ci siamo sentiti liberi di mettere dei pezzetti di questo e di quello in alcuni personaggi. Tuttavia non è un lavoro di enigmistica questo film eh!

Perché fare una pellicola del genere?
L’abbiamo fatta per chi non c’era. Per raccontare quell’epoca, quell’atmosfera e quel clima, per me indimenticabile.

Perché parli del Solinas e non, invece, del Centro Sperimentale di Cinematografia che hai frequentato?
A quei tempi anche il Solinas era uno dei modi per aver accesso a quella corte inarrivabile che era il cinema italiano. E garantì a moltissimi giovani aspiranti cineasti e talenti, che arrivavano soprattutto dalle province, di avere una loro occasione.

Parallelismi con la tua storia?
La mia fu diversa: arrivai nell’’85 e andai alla scuola di cinema, però questo non è il racconto della mia vita. Per quello ci penseranno dopo morto a fare un bel docu-drama per RaiPlay. (ride, ndr)

Bella questa. Coccodrilli di RaiPlay a parte, il cinema italiano che descrivi è in mano a vecchi e cialtroni. Le cose sono cambiate o sono rimaste così?
Be’, tra quei vecchi c’erano anche molti giganti. Ma in realtà sì, certo che sono cambiate. Quella stagione lì è irripetibile, quel cinema mescolava il popolaresco al raffinatissimo. E viveva esclusivamente di sala cinematografica. In questo momento, come sappiamo, il cinema è un fattore che riguarda una diffusione con tanti altri dispositivi: le televisioni, gli smartphone, i tablet. E soprattutto l’accesso ai nuovi talenti, mi pare sia un pochino più flessibile.

Cosa intendi?
Che siamo in una stagione nella quale, uno che ha talento, con lo smartphone può già girare un filmettino, lo può caricare su YouTube o Vimeo. E può mostrarlo a un numero impressionante di persone. All’epoca non c’era questa possibilità.

Ma resta che alcune posizioni siano occupate da personaggi un po’ ammuffiti che non se ne vogliono andare.
Il conflitto generazionale giovani-vecchi, tra coloro che sono difficili da scalzare dai luoghi dominanti del lavoro e del potere, rimane sempre un tema attuale. Sto pensando agli ambiti accademici, professionali, non solo quelli artistici. Tuttavia sento che negli ultimi anni c’è stata una grande effervescenza di nuovi talenti, opere prime molto interessanti. Uno da un lato tende a essere pessimista per la diminuzione delle persone nelle sale, ma dall’altro viene da essere ottimisti perché il cinema non è più una cosa unicamente destinata alle sale.

Torniamo al film. Ci sono personaggi secondari che hanno una rivalsa.
In questo film ci sono tantissimi personaggi. Oltre ai tre giovani protagonisti – ovvero Luciano che viene dalla Piombino operaia, il giovane erudito Antonino che viene dalla provincia di Messina e la sola e complessata Eugenia, rampolla della famiglia di potere romana, alle prese con le sue passioni un po’ solipsistiche del cinema francese – c’è una bolgia infernale, che è un po’ il cinema che raccontiamo, con contratti tenebrosi – a momenti addirittura da horror – o con commedie scollacciate, com’era un po’ in quegli anni.

Pensa che qualcuno potrebbe sentirsi un po’ piccato?
Può disturbare, magari, chi ha una versione sacrale del cinema, ma io ho amato il cinema proprio perché, invece, è tutto il contrario di una cosa sacra. Perché è qualcosa di vivo e, quindi, capace di unire l’orrido e il bellissimo, il sublime e il volgarissimo.

Ma riguardo ai ruoli secondari e alla loro rivalsa?
Ci sono personaggi, apparentemente piccoli e insignificanti, che invece hanno un loro ruolo emblematico: dalla giovane provinciale, sprovveduta, amante dei Pooh, che diventa musa del grande cineasta, allo scroccone imbucato dei ricevimenti, dei set, delle trattorie degli attori che, con la scusa di accompagnare i giovani finalisti, riesce a svoltare un pasto per sé stesso. Dei veri acrobati del buffet.

Nel film mi è molto piaciuto il cammeo di Ornella Muti che dà un’immagine di sé lontana anni luce da quella patinata.
È stata molto spiritosa e autoironica. Avevamo bisogno di un’attrice che incarnasse l’idea dell’icona sexy del cinema italiano. E chi meglio di lei? È stata gentile perché è venuta anche un po’ a sfottersi. A ritrarsi in una luce crepuscolare, di una diva sul viale del tramonto, con qualche sassolino nella scarpa da togliersi. E capace di un gesto dalla sfacciataggine irriverente come quello di cedere alla corte di un ragazzino aggressivamente, fastidiosamente, ossessivamente provolone e arrapato.

Stupendo anche Giancarlo Giannini nei panni del disperato produttore Leandro Saponaro.
Un personaggio tragico che assomiglia a molti produttori che mi è capitato di incontrare, in bilico tra la gloria e il baratro. Giancarlo, che li conosceva tutti, è forse l’unico grande sopravvissuto dei grandi attori italiani di quella stagione dorata, premiata dagli incassi e dal grande consenso, non solo della critica, ma anche – e soprattutto – del pubblico. Lui, conoscendo bene la materia di cui stavamo parlando, si è divertito a inserire nel suo personaggio doloroso, degli elementi molto umoristici. Il ruolo che interpreta è come il Gatto e la Volpe di Pinocchio. Un lestofante, sempre sull’orlo del collasso cardiocircolatorio, che approfitta di uno di questi ragazzi, senza capire bene neanche cos’ha scritto, per sperare di svoltare un qualche contratto che lo salvi dal baratro.

Tra i momenti che più mi hanno colpito della pellicola c’è una frase che dice Eugenia: «Voi maschi rovinate sempre tutto».
È importante dire una cosa: quel cinema, quell’Italia, era molto maschile, molto maschilista. Come Paese lo siamo ancora, mentre il cinema, forse, è un po’ cambiato. Nel senso che ci sono tante bravissime autrici, come Valeria Golino che ha in sala Euforia, un film bellissimo come il suo precedente Miele. Poi ci sono Alice Rohrwacher, Susanna Nicchiarelli. Sento che, per fortuna, in un Paese dove l’accesso al mondo del lavoro da parte delle donne è decisamente indietro rispetto agli standard europei, il cinema sta un po’ distinguendosi.

E invece nel 1990?
Non era così. Le uniche due donne registe erano la Wertmüller e la Cavani, cioè due maschiacci che andavano sul set coi pantaloni. Le donne al cinema erano poche, ed erano tutte protese ad assomigliare ai loro colleghi uomini.

Chi fu colei che cambiò un po’ tutto?
Tra di noi, nel gruppo di sceneggiatura, c’era Francesca Archibugi, che debuttò proprio in quagli anni. Fu la prima regista italiana ad andare sul set con la gonna. La cosa impressionò molto all’epoca. Doveva domare squadre di lavoro molto maschiliste e parolacciare. Ecco, quello fu un momento di cambiamento. Tornando al film, la frase che dice Eugenia contro i suoi amici – in un momento in cui si ribella dei loro soprusi, della loro aggressività e del loro approfittarsi della sua gentilezza – è un’invettiva che sembra anche diretta verso quel cinema e quell’Italia.

Parliamo un po’ di te. Hai dichiarato, recentemente, che la provincia non perdona il fatto di volere fare cinema. Come mai?
(Ride, ndr). Quando si cresce e si vuole andare in città, qualsiasi tipo di ambizione non viene perdonata. E quindi chi se ne va sembra non essere grato al luogo dove si è nati e cresciuti.

E così è stato per te?
In realtà, per me, fu proprio un modo per provare ad andare a raccontare e celebrare quel mondo da cui venivo. Dentro di me lo ripetevo come un mantra, come fanno i mitomani, gli esaltati, per darmi coraggio e forza.

Cosa ti ripetevi?
Stavo andando via, nella derisione del borgo e nell’ironia dei tanti che mi prendevano in giro perché volevo fare il cinema, ma dentro di me dicevo compostamente: «Vedrete, io andrò laggiù, racconterò le vostre storie e voi sarete orgogliosi di me».

Be’, così è stato. Prima hai precisato che Notti Magiche è ambientato nel 1990 e non gli anni ’90. Ma sostanzialmente che differenza c’è?
Nel 1992 cambia tutto: crolla la Prima Repubblica, i politici che abbiamo dipinto nel film non ci sono più, arriva un altro cinema italiano, un’altra Roma, arriva Rutelli, ridipinge le facciate dei palazzi, il Colosseo all’epoca era nero come un tizzone di carbone. Roma era sporca, caotica, fuligginosa, si parcheggiava anche sulle fontane di Piazza Navona, Piazza del Popolo era un gigantesco parcheggio, era un’altra Capitale.

E oggi Roma, specchio dell’Italia, come ti sembra?
Sai che io non mi tiro mai indietro rispetto a sollecitazioni e a esprimermi su quello che sta succedendo. Benché io, bisogna premetterlo, sia solo un commediante, che fa un lavoro da saltimbanco, che lavora nello spettacolo. Allo stesso tempo, proprio perché faccio questo mestiere, ho un’inclinazione che mi costringe a cercare di essere sincero, a dire la verità, a essere autentico. Non riesco a nascondere la mia preoccupazione e il mio disagio verso il momento che stiamo attraversando.

Riguardo a cosa, in particolare?
Il terribile modo di condurre la discussione pubblica sui temi rilevanti, quelli che dovrebbero riguardare la vita delle persone. Senti che i temi vengono usati in maniera strumentale e propagandistica. Abbiamo un Governo in carica che è una messa in scena di annunci e propaganda sguaiata, soprattutto sui social. Mi sembra sia inferiore il numero delle leggi, rispetto al numero dei tweet e delle dirette Facebook. Forse è meglio così perché quando si parla di leggi, mi sembrano tutte disastrose.

Quindi lo boccia.
Mi sembra un Governo di persone pericolose, impreparate e, soprattutto, bugiarde.

Cioè?
Adoprano i temi come l’immigrazione – tema difficile, serio, su cui poter dire anche parole costruttive per essere lungimiranti e guardare al futuro – per alimentare l’odio e cementare il consenso sull’odio.

A questo proposito stanno proliferando gruppi di estrema destra. Recentemente si è parlato molto di Selene Ticchi, candidata a sindaco per Forza Nuova nel comune di Budrio (BO), che durante un meeting di nostalgici fascisti a Predappio, ha indossato una t-shirt in cui capeggiava la scritta “Auschwitzland”.
Per costruire una civiltà e i suoi valori servono fatica e un cammino faticoso di conquista e conoscenza. Per distruggere i valori di una società, invece, basta pochissimo, non ci vuole niente. Sono bastati alcuni mesi di propaganda penosa, su alcuni temi – come i diritti umani – usati in modo scandalosamente strumentale, per dare la stura ai peggiori bassi istinti. Non ci mettiamo niente a ritornare a quella condizione bestiale e brutale che è lo stato naturale dell’umano. È la civiltà che è un percorso complicato e complesso. Chi fa il mio mestiere deve raccontare bene le storie, che sono benefiche e curano.

Come mai?
Raccontare vuol dire provare a entrare dentro l’animo delle persone e, quindi, a non aver paura.

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