Michele Riondino: «Chiamatemi madrina» | Rolling Stone Italia
Interviste

Michele Riondino: «Chiamatemi madrina»

Il padrino della 75esima Mostra del Cinema di Venezia viene da Taranto, e non nasconde mai le sue idee.

Michele Riondino - Foto di Fabrizio Cestari

Michele Riondino - Foto di Fabrizio Cestari

Per il secondo anno consecutivo la 75a edizione della Mostra del Cinema di Venezia, dal 29 agosto all’8 settembre, non avrà una madrina. Neppure un padrino. «Chiamami madrino», ride Michele Riondino. È un giorno bollente di fine luglio sul balcone di casa sua, Roma Est. Sgranocchiamo taralli pugliesi, mentre la figlia di Michele, Frida, guarda i cartoni animati al fresco. Che invidia. Continua l’attore: «Mi piace l’idea di questa rivoluzione dei generi: mi piacerebbe anche che finalmente il direttore della fotografia fosse una direttrice, che alla macchina ci fosse un’operatrice e, anziché una segretaria, ci fosse un segretario di edizione. Anche per questo ho accettato l’invito di Alberto Barbera».

Madrina di Venezia è un titolo pensato per le attrici, eterne protagoniste di photocall coi piedi nell’acqua sulla spiaggia dell’Excelsior e cerimonie d’apertura eleganti, ma mai particolarmente spettacolari. Forse sulla scia di Cannes, dove invece l’apertura viene trasmessa in chiaro da Canal Plus, l’anno scorso fu scelto come padrino Alessandro Borghi, che fece un discorso sulla lingua universale del cinema. E l’anno prima Sonia Bergamasco aveva buttato via gli appunti, per improvvisare qualcosa sulla gente appena colpita dal terremoto nelle Marche. Ora tocca al Giovane Montalbano, un volto da 6/8 milioni di spettatori su Rai Uno. «Ricordo bene il discorso di Alessandro e quello di Sonia. Al mio ci sto pensando. Sicuramente racconterò cos’è per me il mio lavoro, che cosa mi ha dato come persona».

Michele Riondino - Foto di Leonardo Cestari

Michele Riondino – Foto di Leonardo Cestari

Continua…
Ho sempre pensato che l’insegnamento, la didattica legata alla recitazione non dev’essere patrimonio solo di chi vuole fare l’attore. Secondo me andrebbe insegnata nelle scuole. Perché? Che cosa fa un attore? Analizza il reale, e del reale restituisce un’interpretazione. Quindi che cos’è l’attore? Una persona attenta. Che non giudica, ma osserva e sviluppa dei ragionamenti, per poi restituire allo spettatore la sua idea di quella realtà. E questa è una cosa importante. Se si insegnasse nelle scuole, la recitazione sarebbe un modo per dare ai ragazzi la possibilità di sviluppare un senso, il senso dell’osservazione.

Quindi non stiamo parlando della recita di fine anno e nemmeno di una scuola di teatro, mi pare di capire.
Certo. Non necessariamente chi studia teatro deve fare l’attore. La recitazione è una di quelle materie che andrebbe insegnata a scuola, come l’educazione ai sentimenti o l’educazione civica. Dal mio punto di vista il miglior cinema è stato fatto da quegli attori e registi che hanno saputo leggere la realtà. E tornando al mio discorso, citerò sicuramente Monicelli, quando dice che la commedia italiana non avrebbe avuto il successo che ha avuto, se l’Italia non avesse vissuto la fame e la guerra. La commedia italiana nasce della sofferenza, dalla capacità degli italiani di ridersi addosso.

Ti fermo. Questa di ridersi addosso non è una capacità che abbiamo perso? Alberto Sordi e Dino Risi sapevano raccontare personaggi orrendi, ma non sono mai arrivati a quello che vediamo oggi ogni volta che apriamo i social.
Sai cosa diceva sempre Monicelli? Gli italiani sono capaci di andare dietro il primo fesso, e se le cose vanno bene allora hanno tutti ragione, se le cose vanno male lo appendono a testa in giù. La commedia italiana è nata proprio perché siamo così cinici, conosciamo bene noi stessi e possiamo parlare del nostro male. Siamo anti-italiani solo quando siamo fortemente italiani.

Dici Monicelli e mi viene in mente Carlo Vanzina, perché se n’è parlato tanto quando è morto. Non è che la commedia abbia goduto sempre di grande reputazione, in questo Paese.
Ma Vanzina aveva una conoscenza del mezzo cinematografico impressionante, aveva la sua personalità, la sua cifra.

Non ti piaceva Vanzina…
Nooo, al contrario. È come quando parlano del “Berlusconi che è in te”. Ecco, c’è anche il “Vanzina che è in te”. Con Vacanze di Natale ’90 io ci sono cresciuto. Coi ragazzini amici miei imitavamo Boldi e De Sica.

E Abatantuono? Te lo cito per i suoi trascorsi da maschera pugliese.
Abatantuono, che poi è invecchiato bene, come dimostrano i film di Salvatores. Posso dirlo? Con Vanzina la commedia italiana non è invecchiata bene.

Tutta l’Italia è invecchiata male, mi sa. Oggi la tua sensazione qual è? Il cinema italiano è morto? Moribondo?
Al contrario. Io quando sono uscito dall’Accademia ricordo che la vera difficoltà del cinema italiano erano lo sceneggiature. Mancavano le storie. Questo gap si è riempito. Sono tornati registi, sceneggiatori e storie. Il problema si è spostato sulla produzione e sulla distribuzione. Gli ultimi fenomeni del cinema italiano, vedi Gabriele Mainetti, Matteo Rovere, ma anche registi come Garrone, Sorrentino, Pietro Marcello hanno rimesso in moto tutto. Stanno emergendo progetti rischiosi. Io stesso faccio parte di uno di questi…

caption id=”attachment_425223″ align=”alignnone” width=”1200″] Foto di Fabrizio Cestari

Ho letto. Un musical con Laura Chiatti, regia di Marco Danieli, quello della Ragazza del mondo.
Ci stiamo lavorando.

“Un’avventura” con le canzoni di Mogol e Battisti. Dice la tua biografia che volevi fare il musicista.
Infatti, sto registrando ora le canzoni e sono felice. Mi spiace, ma non posso dire nient’altro. Dov’eravamo rimasti?

Al cinema italiano e alle sale vuote.
Su molte cose sono sfiduciato e pessimista, ormai il mondo va a rotoli, ma sul cinema italiano sono ottimista. L’industria va meno bene, ma quella non la gestiamo solo noi attori. Io ho fatto un sacco di film che quasi non sono arrivati in sala. Ripeto: Pietro Marcello per me è un genio, ma chi se lo vede al cinema? Allora mettilo su Netflix!

C’è quest’idea che Netflix arriva e salva tutto. So’ americani, pragmatici, di noi sanno poco e niente…
Forse. Ma guarda la tv generalista, che ora insegue quelli che guardano Netflix. Guarda una produzione della Rai come Il cacciatore. Pure La mossa del cavallo, che ho fatto io, strizzava l’occhio a un pubblico giovane. L’effetto è incredibile, soprattutto all’estero. Per Il giovane Montalbano mi hanno riconosciuto a Londra all’aeroporto…

L’aveva mandato un canale della BBC sul digitale. Ma invece per cosa sei pessimista? Per la tua Taranto?
Non vedo buone notizie all’orizzonte. Io ho sempre tenuto a Taranto, il perché lo dicevo prima: solo gli italiani possono parlare male dell’Italia e io che sono tarantino posso parlare male di Taranto. L’ho odiata finché non l’ho lasciata. Poi ho deciso di usare la piccola popolarità che avevo raggiunto per puntare i riflettori su una questione molto seria, e così è nato il Primo Maggio. Da quest’anno poi sono anche il direttore artistico di un festival di cinema e di musica che si chiama Cinzella. Dal 16 al 19 agosto abbiamo Peter Murphy dei Bauhaus, i Nothing but Thieves, e la proiezione di Suspiria di Dario Argento con la colonna sonora dal vivo dei Goblin…

Durante la presentazione della Mossa del cavallo, se non ricordo male, hai espresso la tua delusione nei confronti dei 5 Stelle, che mi pare tu avessi votato.
La questione è sempre Taranto. Loro sono venuti da noi attivisti e hanno preso le nostre parole d’ordine: chiusura delle fonti inquinanti, riconversione economica della città, riutilizzo della forza lavoro, decontaminazione. Se un soggetto politico dice quello che diciamo noi, allora noi ci crediamo, ok? Speravamo lo facesse la sinistra finché l’abbiamo votata, ma non è successo. E adesso sto aspettando di vedere cosa succede con l’Ilva. La delusione riguardo ai 5 Stelle, al di là di questo, è per lo spreco di un patrimonio elettorale che non ricapiterà mai più. Seguendo la Lega hanno evidenziato un deficit di intelligenza politica, perso l’elettorato di sinistra. Almeno il mio voto non l’avranno più. Detto questo sono contento che sia morto il Pd, che si sia smontata tutta l’ipocrisia di un sistema fintamente di sinistra.

Però il prezzo da pagare è il razzismo diffuso, che per qualcuno è già un fascismo strisciante
Ma io voglio i porti aperti, perché credo nell’umanità. E non sono buonista, guarda… Cioè non sono buono, odio chiama odio. Ma tocchi un nervo scoperto… però dai ti prego non facciamo l’intervista su questo. Io sono un incendiario, ma se ti parlavo della commedia e di Monicelli è perché mettere l’italiano di fronte alla contraddizione di se stesso, al paradosso, è un lavoro delicato. I film che piacciono a me non lanciano messaggi, ma sono lo stesso estremamente politici.

Ok, chiudiamola così.

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