Intervista a Michael Fassbender: «In ‘Alien’ abbiamo paura di un'altra specie vivente, con Trump delle altre culture» | Rolling Stone Italia
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Michael Fassbender: «Con Trump abbiamo paura delle altre culture»

Con il protagonista del nuovo film di Ridley Scott abbiamo parlato della saga horror fantascientifico più famosa di sempre, dei segreti dietro uno dei registi più acclamati di sempre e di come "Alien" possa raccontare anche del nostro mondo

Michael Fassbender: «Con Trump abbiamo paura delle altre culture»

Michael Fassbender nei panni di David in "Alien: Covenant"

Arriva in sala con la leggenda Ridley Scott per Alien: Covenant il secondo capitolo della trilogia di prequel iniziata con Prometheus, che si ricollegherà all’Alien originale del 1979. Il film narra la storia di un equipaggio alla ricerca di un pianeta abitabile per cominciare una nuova colonia umana, ma quello che sembra un paradiso si rivelerà un mondo insidioso e pericolosissimo. Stiamo parlando di Michael Fassbender, uno dei pezzi grossi di Hollywood, un attore la cui capacità recitativa è pari ai suoi leggendari attributi fisici, rivelati grazie a un caldo pomeriggio californiano di qualche anno fa a base di bacco-tabacco da George Clooney & Friends, dopo la visione di Shame.

A che punto siamo della storia?
Siamo 10 anni dopo Prometheus. Covenant è un’astronave che contiene il microcosmo perfetto che rappresenta la razza umana. Tutto quello che sappiamo, che abbiamo inventato o che abbia una rilevanza per la nostra sopravvivenza è su questa astronave, una sorta di arca di Noè che contiene persone di varie razze, culture e credo religiosi. Ovviamente le cose si complicano perché, quando vivi in spazi ristretti con altre persone, i problemi spesso non mancano: è come andare in barca con amici, può succedere qualsiasi cosa, può essere il paradiso o l’inferno puro. Questo è un viaggio intergalattico che presenta dei rischi, è possibile che nessuno arrivi a destinazione. Quando la razza umana partecipa a dei cambiamenti radicali come questo, esistono sempre dei rischi, è un sacrificio che si fa per le generazioni future, un atto di puro altruismo.

Il concetto di alieno è un argomento politicamente molto attuale…
Purtoppo sì! La storia ci ha insegnato che, quando c’è qualcosa o qualcuno di diverso, è facile trovarsi dalla parte di quelli che vedono la diversità come una minaccia da cui proteggersi. In Alien abbiamo paura a entrare in contatto con un’altra specie vivente, nell’era di Trump abbiamo paura delle persone di altre culture, con tradizioni e stili di vita a cui non siamo abituati. La paura è un sentimento pericoloso, soprattutto quando si manifesta come avversione nei confronti di altri esseri umani che vivono in modo diverso dal nostro. Io amo molto viaggiare, e per questo non amo le frontiere, visitare altri continenti è un’esperienza umanamente profonda, invece di muri dovremmo avere più ponti.

Dopo David, arriva il fratello Walter. Han- no caratteristiche comuni?
Sono entrambi sintetici, Walter è molto meno umano di David, molto più logico e diretto, direi che è una sorta di Mr. Spock, più simile a Bishop, l’androide interpretato da Lance Henriksen, nell’Alien di James Cameron. David, invece, ha passato gli ultimi 10 anni senza manutenzione, e quindi le sue qualità umane sono evolute in modo straordinario, anche grazie al proseguimento dei suoi esperimenti. David continua a essere affascinato dalla bellezza della natura e della creazione, anche se dopo aver assistito alla morte crudele di Peter Weyland, non è più così entusiasta di conoscere altri dettagli sul suo creatore.

Com’è stata questa esperienza rispetto a Prometheus?
Prometheus è stato girato a Londra, mentre per questo film siamo andati in Australia, che è stato fantastico perché potevo fare surf tutti i giorni! Il casting è praticamente tutto diverso, Covenant è un horror thriller, l’atmosfera è molto più simile al primo Alien. Lavorare con Ridley è straordinario, ha un’energia spaventosa, sul set ti dà l’impressione che fare un film sia la cosa più semplice del mondo. Non ha mai tempi morti, gira sempre con almeno quattro telecamere contemporaneamente, quindi le reazioni tra gli attori sono immediate, è un regista con un forte senso estetico, e allo stesso tempo è molto tecnico: sa come usare una telecamera e anche come coordinare e dirigere il lavoro insieme agli altri operatori. Prepara tutto meticolosamente, ma è anche pronto ad accettare consigli. Quando qualcosa non funziona, non si fa prendere dall’ansia: sa benissimo che nel cinema esistono imprevisti ed è sempre pronto a cambiare programma.