‘Malcolm & Marie’, la sottile linea (black & white) tra l’amore e l’odio | Rolling Stone Italia
Interviste

‘Malcolm & Marie’, la sottile linea (black & white) tra l’amore e l’odio

Della quarantena più cool che vedrete sullo schermo (by mister 'Euphoria' Sam Levinson), Zendaya è il pezzo forte. Abbiamo chiacchierato con entrambi. Prima che lei fosse assurdamente snobbata dalle candidature a Golden Globe e SAG

‘Malcolm & Marie’, la sottile linea (black & white) tra l’amore e l’odio

Zendaya e John David Washington in 'Malcolm & Marie'

Foto: Dominic Miller/Netflix


«C’è una linea sottile tra l’amore e l’odio», sussurrano in Liberation gli OutKast feat. Cee-Lo alla fine di Malcolm & Marie (dal 5 febbraio su Netflix). E quel confine è un “grazie” mancato, che tira fuori un rollercoaster à la Cassavetes di incazzature, recriminazioni, confessioni e ricordi che, nonostante tutto (ci arriveremo), stai lì a vedere fino alla fine, che forse la fine non è (o magari sì). Perché è la quarantena più cool che ci si possa immaginare: un coppia figherrima (Zendaya e John David Washington), una casa (non le nostre due stanze con cucina e balconcino al secondo piano, ma una villozza di design sulla spiaggia di Carmel: la Caterpillar House di Jonathan Feldman), del comfort food (mac and cheese, peraltro preparati in maniera quantomeno discutibile), un bagno caldo, una recensione su cui discutere. Certo, Malcolm e Marie non vengono da una giornata di smart working, ma da una serata al cinema (almeno loro ci possono andare – faccina triste, anzi no, ormai che piange a dirotto). Di più, dalla première del film di lui, salutato dalla critica (bianca) come il prossimo Spike Lee (sta per girare un biopic su Angela Davis). E che invece forse preferirebbe essere il nuovo William Wyler.

Malcolm & Marie | Trailer ufficiale | Netflix


Mentre lui “se la crede” e pontifica sui motivi per cui la stampa “maledetta” debba per forza vedere qualcosa di politico in ogni santissimo film black (!), pure quando parla di una ragazza che cerca di combattere la sua dipendenza, Marie va in bagno. Sì, è chiaro che il debito è alla Nicole Kidman di Eyes Wide Shut, che Kubrick segue durante la preparazione per un evento per stabilire subito un’intimità con quella coppia sull’orlo di ancora non sappiamo bene cosa. Qui è lo stesso, solo che M&M da quell’evento che potrebbe cambiare tutto, professionalmente e umanamente, sono appena tornati. È soltanto uno degli omaggi (o debiti?) di Sam Levinson (figlio di Barry e mister Euphoria) alla storia del cinema, a partire da quel bianco e nero sfacciato, meravigliosamente old fashion, dell’ungherese Marcell Rév: «Sapevo fin da subito che volevo girare il film così, più ne parlavo con Marcell, più eravamo certi della cosa», spiega il regista, ormai re delle produzioni Covid-proof dopo i due speciali-ponte del teen drama (la nostra sul primo e sul secondo), durante l’ormai tradizionale chiacchierata su Zoom. «In parte perché abbiamo notato che in tutte le reference a cui si siamo ispirati – da Il servo di Joseph Losey a Chi ha paura di Virginia Woolf? di Mike Nichols –, ogni singolo attore, in questi titoli in bianco e nero, era bianco. E quando gli interpreti black hanno iniziato ad avere un po’ di opportunità a Hollywood, il bianco e nero era passato di moda. Non siamo certo i primi ad averlo fatto, vedi Spike Lee, Charles Burnett… ma abbiamo capito che c’era qualcosa di interessante. E proprio perché John David e Zendaya hanno questo carisma, perché è un film sull’industry, ci sembrava emozionalmente giusto rivendicare l’iconografia di quei film, il loro essere senza tempo e incorniciare la love story dei protagonisti e il loro futuro in bianco e nero».

È chiaro che Marie è stata la musa di Malcolm per il suo film (e non solo): la protagonista di Zendaya pare una Rue cresciuta e più matura, ancora fragile e insicura e causa del suo passato sofferto di dipendenza e nel suo presente incerto di aspirante attrice, ma pure fiera e tostissima. Lui non vuole ammetterlo forse nemmeno a se stesso, da lì quelle “parole che non ti ho detto” durante i ringraziamenti pubblici alla prima: «Spesso i personaggi femminili sono scritti in maniera mono dimensionale, non c’è molto da scoprire di loro o qualche oscurità reale nella loro personalità, servono come mezzi affinché i protagonisti maschili possano arrivare dal punto A al punto B. E io amo i character complicati, quelli con cui sei d’accordo e allo stesso non lo sei, che fanno cose magari imperdonabili, ma tu come attore devi trovare l’empatia per portare lo spettatore a parteggiare per loro», dice Zendaya. Che è consapevole di appartenere, ad appena 24 anni, a quella élite hollywoodiana che Marie vive solo di riflesso: «Ho dovuto capire la sua insicurezza, comprendere a che punto era nella sua carriera, perché se non empatizzi ti chiedi: perché è così arrabbiata? Perché la sua storia è stata raccontata da qualcun altro, lei non è stata scelta come protagonista, il suo nome non appare nemmeno nei crediti. Io nella vita vivo una situazione completamente opposta: sono produttrice del film, lo finanzio, lo interpreto. Ma posso immaginare come sta Marie, a che punto è nella vita: se c’è un messaggio in questo film, è quello di apprezzare davvero le persone che ci stanno intorno e ci rendono possibile fare quello che facciamo. E non parlo solo di un “grazie”, ma di avere voce in capitolo dove si prendono le decisioni. Come è accaduto per questo progetto, in cui il contributo di ognuno è stato riconosciuto e apprezzato. Chiunque abbia mai sentito che il suo lavoro non è stato notato e apprezzato sa che fa male, è una ferita profondissima».

Foto: Dominic Miller/Netflix


È un film che corre il rischio di stare antipatico Malcolm & Marie, perché è tutto troppo “giusto”, troppo on point in questi tempi di diversity, di affaire razziali, di riconoscimento femminile, di profondo cambiamento del sistema: è come se Levinson avesse una check-list e avesse deciso di spuntare tutte le caselline. Ma non è molto diverso da quello che succede nella stragrande maggioranza dei titoli sfornati nell’ultimo periodo, peraltro con direzioni ben più appuntabili (vedi Promising Young Woman o One Night in Miami…, che, per quanto siano importanti e indipendentemente dal fatto che siano girati da donne o no, nella cinquina per la miglior regia dei Golden Globe fanno un po’ impressione). Ed è anche vero che Levinson ci prova, e qua e là ci riesce, a uscire da quell’agenda e da una premessa forzatamente pandemica con una sorta di autenticità basata sulle esperienze di vita, ma ricostruita in modo cinematografico. Pare un ossimoro, ma è la stessa forza creativa alla base di Euphoria, è il vecchio adagio “l’artista è un ladro di vite altrui” che fa da fondamenta al film: «Credo sia uno degli aspetti più complicati dello scrivere: è difficile non usare quello che ci succede per i nostri personaggi. Tendo a catalogare esperienze, reazioni, conversazioni, emozioni, piccoli momenti insicurezze. È impossibile non fissare tutto nella mente, c’è una linea sottilissima tra dove finisce questa realtà e dove inizia la finzione, ma penso anche che in qualche modo sia così che diamo un senso all’esistenza», racconta Levinson.

«I miei problemi di dipendenza quando ero più giovane non sono certo un segreto. Se mi trovavo in una situazione particolarmente traumatica, mi alienavo e pensavo: “Sembra di essere in un film”. E mi arrabbiavo, pensavo che qualcosa in me non andasse, vivevo la vita come se non fosse la vita vera. Ultimamente, ripensandoci a posteriori, ho capito che forse quello che cercavo di fare era iniziare a vedere le mie esperienze con un po’ di distacco nella speranza di poterle forse rimodellare, cambiare, migliorare, Queste sono le implicazioni emozionali di essere uno scrittore, ma credo che alla fine il punto sia capire gli essere umani e non giudicarli mai».

Foto: Dominic Miller/Netflix

Ed è quello che fanno Levinson, Zendaya e John David Washington in un passo a due che diventa un guerra e pace continuo con alti e bassi (emozionali, ma anche di scrittura) e performance guidate da una vocazione del film giocoforza – ma anche coscientemente – teatrale (speciali di Euphoria, again): «C’è sempre stata la consapevolezza che Malcolm & Marie sembri una pièce, e penso che sia anche la parte esaltante. Sam non voleva un risultato troppo naturalistico, non voleva che alle persone sembrasse semplicemente di vedere due persone discutere», afferma Zendaya, ricordando anche com’è nata la sua passione per la recitazione. «Mia madre lavora al California Shakespeare Theater di Orinda, e ho visto gli attori su quel palco ogni giorno della mia vita da quando avevo due anni: ero ossessionata da quello che facevano, non lo capivo, ma qualunque cosa fosse, la volevo fare anche io. Sarebbe figo fare una versione teatrale di M&M, perché l’approccio al film è stato quello fin dalle prove: avere come palco la casa, usare lo spazio e capire come mantenere il pubblico incollato e interessato a quello che facevamo e dicevamo. Questo film è stata la chiusura di un cerchio per me, era il ruolo dei miei sogni: ho potuto fare cinema, che adoro, ma ho anche recitato nella pièce che desideravo fin da bambina».

Oltre allo tsunami di parole, però, c’è anche la musica, che in alcuni casi amplifica il significato della scena, come nel quasi monologo iniziale di Washington: «Sapevo di voler aprire con Down and Out in New York City di James Brown, dal film di Larry Cohen Black Caesar – Il padrino nero», spiega Sam. In altri momenti, invece, «i personaggi usano i brani come mezzo di comunicazione quando non riescono ad esprimere ciò che sentono», vedi Forgot to Be Your Lover di William Bell o Get Rid of Him di Dionne Warwick mentre i due sembrano inevitabilmente ai ferri corti.

Foto: Dominic Miller/Netflix

Se John David Washington, alla prima vera prova “d’attore” dopo BlacKkKlansman e Tenet, fa il suo ma non esplode, Zendaya – a volte magnetica come le dive della Golden Age, altre quasi respingente – è il vero punto forte del film grazie anche a una direzione più precisa da parte di Levinson. D’altra parte, ormai, è chiaro chi sia la musa di Levinson Jr.: «Ho chiesto a Sam: “Visto che siamo fermi con Euphoria, possiamo fare qualcosa a casa mia?”», continua Zendaya. «Lui aveva l’idea in testa, ci accordavamo su un po’ di cose, poi lui scriveva, tornava per leggermi quelle pagine e ne parlavamo per ore. È stato unico essere partecipe di ogni aspetto e mi ha aiutato parecchio a entrare nel personaggio. Non so, era come se Marie fosse stata scritta su misura per me. Poi, una volta iniziata la produzione, ho letto e riletto le battute con John David e abbiamo fatto queste bellissime chiacchierate che hanno aiutato a costruire il terzo atto: Sam è riuscito a scriverlo mentre cominciavamo a girare. Lui ed io siamo molto simili. In tanti modi Rue e Marie sono delle versione di noi due, ed è molto speciale se la vedi così».

Quel feeling si vede eccome sullo schermo, ma – ai tempi dell’incontro ancora non lo sapevamo – dai primi due appuntamenti della Awards Season, le nomination ai Golden Globe e ai SAG, assurdamente non è arrivato nessun riconoscimento per Zendaya (e, nel primo caso, per il secondo anno di seguito dopo Euphoria, per cui però poi si è rifatta con un Emmy storico). Forse i critici si sono sentiti toccati un po’ troppo nel vivo. O forse, semplicemente, non hanno ancora capito con chi avremo a che fare a Hollywood d’ora in poi.