Intervista a Paolo Mereghetti, dizionario | Rolling Stone Italia
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Intervista a Paolo Mereghetti, dizionario

Il manuale di cinema più famoso d’Italia, il ruolo della critica oggi, le sale contro lo streaming, i film del cuore, gli autori sottovalutati. E quelli sopravvalutati: un certo Quentin, per esempio…

Intervista a Paolo Mereghetti, dizionario

‘La La Land’ di Damien Chazelle (2016)

Foto: Universal Pictures

Di trasloco in trasloco, ho portato appresso tanti libri, troppi libri. Di alcuni mi sono liberato. I vari Mereghetti, invece, sono ancora tutti qua. Considerato che il dizionario di cinema più famoso d’Italia consta, dalla nascita ad oggi, ormai di parecchi tomi da tremila pagine e fischia ciascuno, qualcosa vorrà dire. Poi col Mereghetti, inteso come critico ma pure come dizionario, spesso non sono d’accordo, ma è la regola del gioco. Ci ho chiacchierato perché è appena uscita l’edizione 2021 (sempre Baldini+Castoldi). Ho parlato col critico, ma soprattutto col dizionario, che m’interessava di più.

Fare uscire il nuovo Mereghetti in quest’anno così balordo basta come rinnovato atto di fiducia nel cinema.
Questo è stato un anno decisamente complicato. Abbiamo cominciato a lavorare alla nuova edizione ovviamente prima che succedesse tutto, poi con la casa editrice s’è pensato se posticipare l’uscita. Ma un po’ certi lettori quell’appuntamento ormai se lo aspettano, un po’ si continua a sperare nella ripartenza. Abbiamo chiuso il dizionario quest’estate, quando sembrava che avessimo superato il peggio. Perciò nell’introduzione ho messo quella citazione dalla Peste di Camus: «Che cosa intendi per ritorno a una vita normale?», chiede Cottard; e Tarrou risponde: «Nuovi film al cinema». La speranza per l’autunno era questa, poi sappiamo che al cinema di nuovi film ne sono usciti pochissimi.

Brevi cenni biografici del dizionario, per chi non lo conoscesse.
Lo scopo per cui è nato era accompagnare lo spettatore nelle visioni casalinghe. È stato pensato all’inizio degli anni ’90, quanto le televisioni private riempivano i loro palinsesti di film. L’idea era venuta da lì: aiutare lo spettatore non troppo esperto a muoversi nella scelta. Poi, negli anni, il dizionario è diventato un’altra cosa. È cresciuto, anzi si è ingigantito, e ho scoperto che è diventato – ed è una cosa che mi fa molto piacere – una specie di introduzione all’amore per il cinema. Le schede si sono ingrandite, sono diventate un aiuto per il cinefilo o l’aspirante cinefilo nel conoscere o riscoprire registi e titoli. Infatti oggi non ci sono più solo i film che si vedono in televisione, c’è l’approfondimento di filmografie un po’ eccentriche o di periodi dimenticati della storia del cinema, seguendo in fondo la mia stessa passione, la mia stessa curiosità, nel cercare quello che io per primo non conoscevo.

L’edizione 2021 del ‘Mereghetti’ (Baldini+Castoldi)

Non so sei hai letto quello splendido saggio di Simon Winchester, pubblicato in Italia da Adelphi, che è Il professore e il pazzo, poi diventato anche un brutto film con Sean Penn e Mel Gibson. Racconta la genesi dell’Oxford English Dictionary e cerca di rispondere al quesito che ti sottopongo ora: come diavolo si compila un dizionario?
Evidentemente bisogna avere una specie di perversione innata. Quando mi chiedono quale sarebbe il mio lavoro ideale, io rispondo il bibliotecario, cioè colui che mette in ordine il sapere. E quindi, una volta che mi sono trovato tra le mani questo dizionario, che mi sembrava un’operazione editoriale sensata – e infatti così è stato, penso che possa essere considerato un successo editoriale, anche se adesso non vende più come una volta – mi è subito venuto voglia di allargare il campo, di aprirlo anche ai film che uscivano al cinema. È una specie di passione, missione e perversione, un po’ tutto assieme. La passione è quella per il cinema: i film mi piacciono, e molto, e continuo a vederne. La missione è aiutare chi conosce meno il cinema a scoprire cose nuove. Quando riesco a vedere un film iraniano degli anni ’50 perché vado a un festival strano o compro un dvd una volta introvabile, son contento di schedarlo. O, in quest’ultima edizione, di inserire certi vecchi titoli di Wajda, un regista che era morto da poco e che amo. Ho deciso che valeva la pena rivedere tutte le sue schede, aggiungendo anche quelle dei film che prima non c’erano: in Polonia era uscito un miracoloso supercofanettone commentato dallo stesso Wajda, con tutti i suoi film restaurati.

Il dizionario è un corpo che muta, aggiunge, toglie…
Togliere no, non ho mai tolto neanche un film. Ho sempre aggiunto. All’inizio c’erano 13.000 titoli, adesso siamo a 33.000. È un lavoro di montaggio, e non solo perché ci sono i film nuovi: in quest’edizione più di duemila visti al cinema, in streaming, in dvd. Ma perché le schede non rimangono intoccabili. Primo: perché è bello rivedere certi film. Secondo: perché così si capiscono meglio, si conferma se il giudizio era corretto, si aggiungono informazioni. Oppure si scopre che il giudizio va rivisto, perché i film sono come il vino: ci sono quelli che invecchiano bene e quelli che invecchiano male.

Il direttore di Cannes Thierry Frémaux – per semplificare – è contro lo streaming, il “veneziano” Alberto Barbera a favore. Il dizionario mi pare si ponga nel mezzo.
Questa è la seconda o terza edizione in cui schediamo film apparsi solo in streaming. Tutti dicono che la pandemia ha favorito gli abbonamenti e le visioni online, ed è vero. Ma il cinema ha bisogno della sala, e non solo per la qualità della visione: Mank (il nuovo film di David Fincher, disponibile su Netflix dal 4 dicembre, nda) al cinema sarebbe stato un’altra roba. Ma proprio per la rendibilità economica: non c’è nessuna visione in streaming che possa restituire i due miliardi e 800 milioni di dollari che ha fatto Avengers: Endgame. I film hanno bisogno della sala, anche ora che Studios come la Disney sembrano tradirla.

Qual è il ruolo della critica in un momento in cui – la dico semplice e male – sempre più gente pensa di poter fare il critico con una storia su Instagram?
Ma quelli ci sono sempre stati, anche prima dei social. Truffaut diceva che tutti hanno due lavori: il proprio e quello di critico cinematografico. È giusto che uno esprima le proprie idee e lo dica: mi piace, non mi piace… Il problema è che da lì al salto alla critica vera e propria c’è qualcosa in più. Il critico deve aiutare a capire meglio un film, o la maggior parte delle sue sfumature. Che possono essere di gusto – quell’attore recita bene o recita male, la fotografia è bella o brutta – ma anche di conoscenza di un mondo. La critica, in tutti i campi, è una mano offerta al fruitore per apprezzare meglio l’opera che ha davanti, non è solo dare una stella o tre stelle e mezza. Se dietro non c’è un discorso che spiega perché quell’opera ha ricevuto un certo giudizio, non ha senso.

Insisto: tanta gente che oggi scrive di film non ha niente “dietro”, eppure lo fa sui giornali, o quel che ne resta.
Mi dispiace per loro, e soprattutto per i loro lettori. Ma non è che posso fare una crociata per la purezza del lavoro critico. Succede, è sempre successo. Mi ricordo che Tavernier una volta mi disse che a lui lo faceva soffrire di più non quando uno scriveva che un film era brutto, ma quando leggeva le critiche di chi proprio non aveva capito il film, e dunque prendeva delle cantonate. E questo è vero, ogni tanto leggi certe cose e un po’ ci soffri, perché chi scrive si sente più importante dell’opera in questione. Penso che non sia mai successo neanche a Steiner o a Harold Bloom di sentirsi superiori all’opera: loro si mettevano un gradino sotto, sempre. L’autorevolezza di un critico nasce dalla sua credibilità. Dal fatto che, articolo dopo articolo, chi lo legge è disposto a credere un po’ a quello che dice, senza necessariamente essere d’accordo. Anch’io ho colleghi che stimo moltissimo e reputo autorevoli con cui magari non sono d’accordo, però quando leggo quello che scrivono penso: però, questo è un bel modo di affrontare quel film. Se invece leggo cose vuote, narcisistiche, un po’ stupide, allora quel critico lo abbandono alla sua strada.

Ingrid Bergman in ‘Europa ’51’ di Roberto Rossellini (1952)

Quali sono i critici che legge un dizionario?
Ho due maestri, che sono Goffredo Fofi e Adriano Aprà: ho imparato moltissimo da tutti e due. In Italia leggo con una certa regolarità Fabio Ferzetti, Emiliano Morreale, Piera Detassis quando scriveva di cinema, adesso ha altri impegni (è presidente dell’Accademia del Cinema Italiano, che assegna i David di Donatello, nda). E Roy Menarini, che è anche un professore universitario, scrive spesso cose che stimolano l’intelligenza di chi legge. Ho cominciato a seguire con una certa attenzione FilmTv e siti come FilmIdee e LongTake. Poi non è che sto tutti i giorni a leggere quello che scrivono sui film. Ogni tanto, nonostante il grigio di Milano e la reclusione, voglio anche vivere la vita vera, pensare a qualcos’altro.

Parliamo delle stellette. In tanti collaborano al dizionario, ma l’ultima parola, chiamandosi Il Mereghetti, immagino sia sempre la tua.
Assolutamente. Ci dividiamo le schede secondo le sensibilità di ognuno, ma tutte passano da me. E, se c’è un dibattito su un film, la parola che vince è la mia, non c’è proprio discussione, non è una cosa democratica. Per fare un esempio dell’ultima edizione: C’era una volta a… Hollywood non è un capolavoro, anche se ho collaboratori che lo considerano tale (il film ha ricevuto due stelle su quattro, nda).

Io, tarantiniano a fasi alterne, lo trovo magnifico.
A me l’ultimo Tarantino sembra parecchio sopravvalutato. Soprattutto lo sono stati i suoi tre film dopo Bastardi senza gloria, l’ultimo che mi è piaciuto veramente, che ho trovato davvero originale.

Sempre sulle stellette: da una a quattro, perché non cinque?
Perché all’inizio il modello che cercavo di imitare era il Maltin, che assegna le stelle da una a quattro. Certo, mi è venuto in mente di dare cinque stelle a quei dieci film della vita.

Che sono…
La morte corre sul fiume, Un dollaro d’onore, Amarcord, La regola del gioco, Europa ’51, anche se ogni volta che lo vedo poi sto male…

Io le cinque stelle a Rossellini le darei per Viaggio in Italia.
All’inizio anch’io, amare Viaggio in Italia voleva dire essere a favore di una certa idea di cinema, come insegna Rivette («Con l’apparizione di Viaggio in Italia, tutti i film sono improvvisamente invecchiati di dieci anni», ebbe a dire il regista francese, nda). Però più passa il tempo e più Europa ’51 mi sembra un film di sconvolgente bellezza, intelligenza, modernità. Vabbè, è una gara impossibile. Poi direi… ah, be’, un Billy Wilder per forza, ma lì non saprei proprio cosa.

Viale del tramonto.
Forse L’appartamento, un film di grandissima umanità. Poi ovviamente metterei Un uomo tranquillo. Siamo già arrivati a dieci? Se no ti stupisco: metto anche La volpe di Powell e Pressburger.

Più di Scarpette rosse e Duello a Berlino?
Ma sì, perché non è questione di valore. È questione di sintonia con me. Ma non è che ho messo dentro dei bidoni, dài…

Vedere, rivedere… uno ci prova – io ho passato il primo lockdown su Mubi – ma poi gli viene l’ansia: dove si trova il tempo?
Considera che io sono un po’ più vecchio di te. E una volta la televisione, Mamma Rai, regalava film che ti aprivano gli occhi. Buñuel, Lang, Bergman, Rossellini, Fred Astaire e Ginger Rogers… io li ho visti in tv, poi alcuni li ho rivisti al cinema. La tv aiutava a educare, adesso non ti educa più nessuno. C’è proprio un’ignoranza diffusa, ma mica solo col cinema. Oggi quali giovani leggono Grandi speranze?

Marion Cotillard e Owen Wilson in ‘Midnight in Paris’ di Woody Allen (2011)

Sempre sul tempo: organizzi la revisione di certi film?
Due film al giorno li vedo, diciamo, da giornalista, qualche volta anche tre. Poi, la sera, non posso costringere mia moglie a vedere, che so, La telefonista della Casa Bianca, l’ultimo film di Deanna Durbin, se no mi chiede il divorzio. E allora cerchiamo di vedere o rivedere cose che valgono la pena, certi capolavori… Ah, nell’elenco dei cinque stelle mettici pure Midnight in Paris, anche se non è il film più bello di Woody Allen.

No, e lo dico da alleniano di ferro. Il più bello è Mariti e mogli.
Sì, però alla fine ti spari! Come con Ombre e nebbia, Broadway Danny Rose… certo che sono capolavori, ma Midnight in Paris ti apre il cuore. Cinque stelle è questa roba qua: i film che aprono il cuore. Forse la girerò così.

Film su cui hai dovuto rivedere il tuo giudizio.
Luna di fiele di Polanski. La prima volta che l’ho visto mi son chiesto: ma perché ha fatto un film del genere? E La tragedia di un uomo ridicolo di Bertolucci. Sono film con cui, quando sono usciti, non ero proprio entrato in sintonia, mi sembravano opere sbagliate, poi mi sono accorto che invece sono grandi film. Un critico deve tenere presente il proprio vissuto, le emozioni che un film gli suscita, perché è giusto che succeda. Ma deve stare attento se quelle emozioni sono viziate da qualcos’altro, nel bene e nel male.

Un film che confessi di non avere visto.
Sicuramente un po’ troppi film giapponesi. Degli italiani cosa potrei dire… Fellini visto tutto, Visconti visto tutto, Antonioni visto tutto, Rossellini… forse mi manca qualche capitolo dell’Età di Cosimo de’ Medici, quelle sue cose lì. Ma non mi viene in mente nessun film che dici: porca miseria, va’ sto pirla che non l’ha visto…

Film sopravvalutati, Tarantino a parte. E sottovalutati.
Diciamo che in generale Lars von Trier è sopravvalutato. Sull’ultimo, quello di Dante (La casa di Jack, nda), non vorrei esprimermi per non incorrere in qualche denuncia. Sottovalutati… Quando parlo coi critici trovo che non amano La La Land come l’ho amato io. Non hanno capito che è una riflessione sul cinema, non solo un bel musical. Basta che funzioni mi sembra un testo filosofico di Woody Allen, varrebbe la pena che fosse amato di più.

Gran finale a bruciapelo: le serie sono il nuovo cinema?
No. Non se ne parla proprio. Il cinema è un’altra cosa, nel modo più assoluto. Le serie sono un prodotto perfetto per tenere lo spettatore attento, affezionato. Le due ore di un film costringono a uno sforzo di sintesi e di conclusione che la serie per principio non ha. Ho visto il primo episodio della Regina degli scacchi: 55 minuti per raccontare poco o niente, che noia… I miei figli mi hanno fatto vedere tutto Friends, e How I Met Your Mother, e Modern Family. Divertenti, venti minuti di simpatico cazzeggio, ma entrano da un occhio ed escono dall’altro. Io a loro ho fatto vedere The Elephant Man.

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