Francis Ford Coppola compie 81 anni: l’intervista di ‘Rolling Stone’ | Rolling Stone Italia
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Francis Ford Coppola compie 81 anni: l’intervista di ‘Rolling Stone’

Nel 1982 Jonathan Cott incontrava il grande regista, che oggi si prepara a girare il film dei suoi sogni — 'Megalopolis' —, per parlare di 'Un sogno lungo un giorno' e della sua visione del futuro

Francis Ford Coppola compie 81 anni: l’intervista di ‘Rolling Stone’

Francis Ford Coppola nel 1982

Foto: Michael Stuparyk/Toronto Star via Getty Images

Francis Coppola è ambizioso. Nei suoi film ha definito, ricreato ed esplorato le ossessioni, le passioni e le contraddizioni della psiche americana con la grandiosa visione dei romanzieri americani del diciannovesimo secolo. Ognuno dei suoi tre film principali rappresenta un diverso tipo di narrazione — dal realismo storico del Padrino alle allucinazioni da incubo di Apocalypse Now, fino al mondo onirico della notte di mezza estate di Un sogno lungo un giorno.

Definitiva opera d’arte americana come il libro di fotografia di Robert Frank, The Americans, o il secondo album della Band, il nuovo film di Coppola ambientato in un immaginaria Las Vegas, racconta la storia di Hank, uno sfascia carrozze, e della sua compagna Frannie, che lavora in un’agenzia di viaggi. Dopo la rottura il quattro luglio, giorno dell’indipendenza degli USA, i due incontrano rispettivamente la donna e l’uomo dei sogni, una ragazza del circo (Nastassia Kinski) e un pianista (Raul Julia), ma solo per tornare insieme alla fine del film.

Questa trama archetipica è solo uno dei quattro elementi principali del lungometraggio, oltre alla colonna sonora di Tom Waits (Coppola ha definito il lungometraggio “una favola con la musica”), che è interpretata con una chimica perfetta dallo stesso Waits insieme a Crystal Gayle, la luce e gli effetti cromatici del direttore della fotografia Vittorio Storaro (nella scena d’addio tra Frannie e Hank, Storaro trasforma un tramonto piovoso in una scintillante notte al neon) e le costosissime scenografie di Dean Tavoularis — un set che trasmette l’idea di Las Vegas in un modo così straordinario, da sembrare più reale di Las Vegas stessa, e che “ci costringe”, come Shelley ha detto della poesia, “a sentire ciò che percepiamo e immaginare ciò che conosciamo”.

Coppola ci spiega che ha controllato questo film stratificato con monitor video e progettando e predisponendo tutto con una simulazione elettronica (“Ho realizzato il film spazialmente più che linearmente”, dice). A causa di questo approccio high-tech, è stato criticato, anche con indignazione luddista, da diversi critici che non hanno capito quanto la magia tecnologica del regista fosse al servizio di una narrativa ispirata alle fiabe. L’incontro con Coppola è avvenuto nella suite dell’hotel del regista a New York, due notti dopo l’anteprima del film al Radio City Music Hall.

Il poeta francese Mallarmé una volta disse: “Tutto nel cosmo esiste per diventare un libro”. Sembra che per te il mondo esista per diventare un film.
Credo che la mia vita fosse destinata a finire come un film in cui cerco di capire o mettere insieme grandi temi come Amore e Vita, Sesso e Senso dell’Esistenza. Ma quella visione è il mio divertimento. Ogni volta, impari qualcosa. E poi, quando arrivi al tuo progetto più grande, puoi attingere da tutto ciò che hai fatto, dalle tue esperienze e capire come sintetizzarle.

Quando ero giovane a nessuno piaceva quello che scrivevo e mi sono lasciato intimidire, così ho iniziato a dirigere. E la gente è rimasta molto colpita da quello che facevo sul palco, perché ero stato il ragazzo delle scenografie e delle luci. E i miei spettacoli sono sempre stati i migliori. Ma volevo davvero fare lo scrittore e mi ha ferito molto l’opinione che non avessi talento. E più tardi nella vita, ho iniziato a rendermi conto che, alla fine ho scritto delle cose. E non importava che fossero buone o pessime. È come se ti facessi dei maccheroni stasera e non fossero un granché: non te la prenderesti come me, saresti felice che io ci abbia provato. E in qualche modo ho iniziato a capire che non importava avere “talento”, anche se nella mia famiglia, era un problema.

Sembra che tutti nella tua famiglia abbiano talento.
Mio padre e mio fratello avevano talento. Io non ne avevo e nemmeno mia sorella e mia madre. E quando sono cresciuto, speravo e mi chiedevo se avrei avuto (a) una ragazza e (b) talento. Alla scuola militare, quando avevo sedici anni, scrissi un musical. Era una roba romantica su Casanova, la magia e cose del genere. L’ho finito e l’ho fatto leggere al mio coinquilino — che era un ragazzo molto talentuoso e intelligente di nome Louie Cohen — sapevo che non andava bene. Ho pianto per cinque ore perché non avevo talento. E Louie Cohen è venuto da me e ha detto: “Non sai se hai talento oppure no”. La questione era importante, ma poi ho capito che non devi avere talento, devi solo essere molto entusiasta.

Quando hai finalmente capito di avere talento?
Ti dirò il giorno preciso, perché me lo ricordo. Ero nel bel mezzo delle riprese di Apocalypse Now alle Filippine. Era la prima volta che me ne rendevo conto. Da bambino ho sempre pensato di essere un genio scientifico. Adesso, mentre sto seduto qui, penso di avere qualche lampo di genio ma non talento, davvero. Voglio dire, conosco registi — Roman Polanski è uno di questi, e David Lynch, che ha fatto The Elephant Man, è un altro — che semplicemente quel talento ce l’hanno. Sono come bambini che disegnano a scuola e lo fanno benissimo. E tu invece non sei capace di disegnare così. E non sembravano fare nulla per meritarselo. Il mio talento veniva fuori dal volerlo intensamente. Come ho detto, penso di avere un vero dono scientifico. Mi sembra sciocco perché sono un regista, ma se cerchi una dozzina di persone di alto livello nel campo del video e dell’elettronica e chiedi, “Com’è questo ragazzo? È un fake?”, ti risponderebbero, “Ha davvero talento”. Lo giuro, è così. E questo significa molto di più per me, perché questo sarà il mezzo con cui realizzerò il mio Grande Film, perché cercherò di immaginare un sistema di cinema elettronico, che mi permetterà di fare un prodotto in cui vedrai Perry entrare nel porto di Tokyo nel 1854. Perché il mio Grande Film riguarderà il Giappone e l’America, l’est e l’ovest, il maschio e la femmina. In altre parole, il tipo di film che voglio realizzare è talmente ampio nel suo campo visivo che non potrei farlo se dovessi girarlo. Dovrò fare sintesi. Ed è qui che entra in gioco il cinema elettronico — sto cercando di capire come avere il sistema che lo renderà possibile.

Quindi pensi che attraverso l’elettronica si possano realizzare più sogni?
Sì, senza limiti.

Hollywood negli anni ’40 e ’50 era chiamata la fabbrica dei sogni. Sembra che tu l’abbia preso alla lettera.
È Sostituzione di Coscienza. Quando scherziamo sulla science-fiction qui, la chiamiamo così. È un argomento molto interessante, più interessante di quello di cui la gente vorrebbe discutere. Sogno di costruire una Radio City Music Hall del futuro in cui potersi esibire per un sacco di persone, ma con tutti questi ologrammi. E ho chiesto a qualcuno di scoprire se sarebbe stato possibile lavorare su ologrammi elettronici e quanti soldi ci sarebbero voluti. E quando il tizio è tornato, mi ha detto: “C’è molta ricerca in atto: gli ologrammi elettronici sono assolutamente fattibili”. Nessuno li sta realizzando, nemmeno i russi, contrariamente alle dicerie. Ma la cosa più interessante è che non sarebbe più difficile o costoso mettere le immagini direttamente nel cervello. Gli esperti dicono che per la quantità di denaro, tempo e ricerca necessari per creare un ologramma 3D, sarebbe più facile indurlo nella mente.

Cosa ne pensi?
Ciò che direbbe chiunque altro, mio ​​Dio, certo che sarà possibile! È logico. Questa è solo roba che penso o di cui parlo con la gente. Ho avuto un amico meraviglioso in Francia, un uomo di nome Joseph Polonsky, scomparso la scorsa settimana. È stato il principale ricercatore di Thomson-CSF, che produce videocamere. Era responsabile della ricerca, ma il suo altro campo era la biochimica del cervello. E abbiamo fatto molti discorsi sull’inevitabilità di essere in grado di introdurre immagini e suoni direttamente nel cervello. Con la mia mentalità da Meccanica Popolare — il mio amore per le macchine ecc — sembra chiaro che un giorno o l’altro nel prossimo futuro sarà possibile vedere Un sogno lungo un giorno direttamente nella mente. E potresti persino starci dentro.

Nei tuoi recenti progetti cinematografici, ti sembra sempre di essere in una situazione ad alto rischio, di essere sempre sull’orlo del baratro. Credi in questa tensione? Lo fai per pubblicità? Se Un sogno lungo un giorno va male, sarai davvero sul lastrico?
Dico semplicemente come stanno le cose: stavo lavorando a un film, mi è stato comunicato che i soldi erano finiti e che, se volevo andare avanti, dovevo rischiare mettendoci del mio. E a quel punto c’ero così dentro che ho detto “ok”. In altre parole sono in questa situazione grazie al mio ottimismo e alla mia volontà di andare avanti. E poi questa è la storia che vuole sentire chi scrive di me. Quando mi chiedono: “Se il film è un flop, la tua società fallirà?”. Se dico di sì, è perché sembra proprio che andrà così. Ma non è l’idea che voglio dare al pubblico. Mi dispiace di essere trattato più come un ciarlatano o un truffatore che come un professionista, e a dirla tutta, questo ferisce i miei sentimenti. Non sono spericolato o pazzo. Mi interessa fare film più che accumulare denaro, che è solo uno strumento. Ad esempio, se qualcuno improvvisamente mi regalasse un miliardo di dollari, lo investirei nel mio lavoro. Dico di sì a tutto quello che mi sembra ragionevole e a volte sono un po’ troppo dentro ai progetti perché voglio davvero farne parte.

[…]

Da quando hai iniziato a fare film negli ultimi vent’anni, quali lavori di altri registi sono stati più importanti per te?
Mi hanno impressionato Cenere e diamanti e I Vitelloni di Fellini. Sono rimasto molto colpito la prima volta che ho visto Eisenstein, Kurosawa e il Dottor Stranamore di Kubrick. Ma adoravo anche Lawrence d’Arabia e film del genere. Dei registi della mia generazione, mi piacciono Il braccio violento della legge di Billy Friedkin, L’uomo che fuggì dal futuro e American Graffiti di George Lucas, Mean Streets — Domenica in chiesa, lunedì all’inferno di Scorsese e i film di Spielberg. Sono tremendamente dotati e meravigliosi, ma non sempre mantengono alta la loro visione, secondo me. È come se volessero ribadire più e più volte di poter realizzare i film di maggior successo.

Godard una volta ha detto che i film non sono un modo per fare soldi, ma un modo per spenderli. Pensi che le nuove tecnologie consentiranno finalmente ai giovani registi di fare di nuovo film per una quantità ragionevole di denaro?
Assolutamente. Tutti useranno la tecnologia, tutti faranno film, tutti sogneranno. Penso che succederà questo. Ne spedirai uno a un tuo amico e lui te ne manderà un altro indietro. Trovo i ragazzi — oggi sedicenni e ventenni — estremamente brillanti, idealisti e reattivi. Penso che, molto presto, ci sarà un nuovo modo di affrontare le cose, e i designer, gli architetti, i filosofi e gli artisti saranno quelli che guideranno la società. E sono i più qualificati per farlo.

Sai cosa penso? Che le persone abbiano paura di me. Temono che se mai avessi troppo potere, cambierei le loro vite, e hanno ragione! È successo a San Francisco. Possedevo la rivista City, una compagnia cinematografica, alcuni teatri. Il popolo di San Francisco ha detto, “se questo inizia davvero ad avere in mano la città, che cosa è in grado di fare?” E così mi hanno distrutto. E hanno ragione a essere spaventati, perché se mai avessi… mettiamo che Un sogno lungo un giorno incassi due miliardi di dollari, cosa potrebbe accadere? In realtà penso che andrà molto bene. Ma diciamo che vada davvero alla grande, tipo Star Wars. La gente sa che spenderei quei soldi l’anno prossimo, che spenderei il doppio di quel denaro. E se mai avessi davvero un sacco di grana, cambierei il mondo del cinema.