Francesco Russo, un (non) classico giovane talento | Rolling Stone Italia
Interviste

Francesco Russo, un (non) classico giovane talento

Dalla serie ‘L’amica geniale’ all’horror ‘A Classic Horror Story’, ora su Netflix, l’attore campano è sempre più richiesto. Sarà che sa bene quello che vuole. Da quando era piccolissimo

Francesco Russo, un (non) classico giovane talento

Francesco Russo

Foto: Dirk Vogel. Abiti: Empresa Italia. Gioielli: Paola Spinetti Jewels

Francesco Russo è dannatamente sincero. Si dà del fesso da solo perché a soli cinque anni già si atteggiava ad attore impegnato, insofferente alla vita di provincia. Ammette che il mestiere dell’attore ti porta a «prendere a calci nel sedere la vita» ma che a lui va benissimo così, perché è «un figlio d’arte: che è una cosa ben diversa, e pure meglio, dall’essere figli d’artisti». Insomma avete capito: Russo ha quel genere di ironica schiettezza che ti farebbe stare lì ad ascoltarlo per ore. Forse anche per questo il nostro sta sfondando al cinema e in tv. Nonostante il physique du rôle non propriamente canonico («Eh, vabbè, quello è il mercato!»), Russo è molto richiesto. Il 14 luglio debutta su Netflix come protagonista del film A Classic Horror Story; è uno dei volti noti della serie L’amica geniale, che ritroveremo nella terza stagione, e farà capolino persino nell’attesissimo cult Freaks Out di Gabriele Mainetti: «Ma lì la mia è solo una piccola scena, non so manco se mi tagliano!».

Francesco, è vero che al provino per A Classic Horror Story hai mentito spudoratamente, spacciandoti per un esperto di film horror?
Tecnicamente non ho mai detto di avere una grande passione per i film horror. Ho fatto finta di averla, che è diverso. Ho recitato (ride, nda).

Stai cavillando, lo sai?
Al casting ho iniziato a citare registi a caso e scene che, in realtà, avevo visto solo su YouTube. Nella mia vita ho guardato dall’inizio alla fine solo un film di paura che forse, pur essendo un capolavoro, non è manco una storia horror: il titolo è Non si sevizia un paperino!

Furbo, comunque. E pure un po’ paraculo. Serve anche questo per sfondare come attore?
Battuta a parte, il mio personaggio in A Classic Horror Story si sarebbe comportato proprio così e ho pensato che, se i responsabili casting avessero notato un’assonanza tra me e lui, avrei forse avuto più possibilità di essere preso. Mi sono giocato questa carta perché volevo assolutamente la parte! Tra l’altro era giugno: c’era appena stato il lockdown, non lavoravo da tre-quattro mesi e, sai, io mi mantengo facendo questo mestiere.

Come dite nel film, oggi in pochi guardano i film horror italiani. Non è stato quindi un azzardo puntare su questo genere, tanto più che si sarebbe trattato del tuo primo ruolo horror?
Onestamente a me piace azzardare sempre, anche nei film che sulla carta hanno più possibilità commerciali. Per esempio, ho fatto commedie dove non ridevo mai e avevo battute serissime. Nell’Amica geniale interpreto un personaggio simpatico, che non ha nulla a che vedere con il tono, mélo e drammatico, della serie. E devo dire che mi piace. Sono infatti convinto che quei ruoli che tradiscono i canoni del genere finiscono per valorizzare il progetto, dandogli profondità e spessore.

Foto: Dirk Vogel. Abiti Empresa Italia. Gioielli: Paola Spinetti Jewels

A questo punto sospetto che la risposta alla più classica delle domande, ossia “Come ti sei preparato al ruolo?”, riserverà ghiotte sorprese…
Ho recuperato tutti i film dell’orrore e poi ho visto un po’ di snuff movie: quei brevi video che immortalano le persone mentre muoiono o vengono uccise. Mamma mia, sono davvero inquietanti e lo diventano ancora di più se pensi che per vederli non devi andare nel deep web. Basta smanettare su internet e li trovi.

Aspetta, mi sono persa: senza fare spoiler, ci spieghi perché ti sei inflitto questa preparazione super sadica?
L’attore lavora sui sentimenti, e la paura è uno di questi. Avere in testa quelle immagini terribili, mentre pronunciavo le battute, faceva sì che le parole non fossero vuote. Inoltre più alzi la posta in gioco, anche a livello di sentimenti, e più conquisti lo spettatore. Più l’attore sente la paura, meglio è.

Gli snuff movie, le immagini della seggiovia del Mottarone che cade nel vuoto e, più recentemente, il video delle torture nel carcere di Santa Maria Capua Vetere che, peraltro, è la tua città: la cronaca nera sta diventando il vero film horror?
Dilaga sicuramente una morbosità visiva, ma spesso è dettata dal sistema stesso della comunicazione: siamo immersi in un universo di immagini e quindi ci arriva tutto. Comprese le atrocità. Una volta invece c’era solo la televisione, era tutto più controllato. Per fortuna le persone che cercano volontariamente il video cruento sul deep web rappresentano ancora una minoranza.

Com’è stato recitare con un accento diverso dal tuo?
Ah, bello. Lo vorrei fare sempre, perché credo che i diversi accenti siano una ricchezza della lingua italiana. Non capisco perché ai Centri sperimentali e nelle Accademie di recitazione non li insegnino. Gli attori potrebbero specializzarsi in due o tre dialetti.

Nel film interpreti, passami il termine, il classico ruolo dello “sfigatone”.
È incredibile come sul set debba interpretare questi ruoli quando, in realtà, nella vita sono un Don Giovanni! (ride, nda) Non rispecchiano assolutamente la mia quotidianità.

Questa tua fisicità atipica si sta rivelando un punto a favore, perché ti permette di sfuggire dai soliti cliché?
Non direi. Come esiste il cliché del sex symbol, esiste anche quello dello sfigato. Per esempio, invece di essere il protagonista, finisci per fare l’amico del protagonista. Quindi corro gli stessi rischi dei miei colleghi “boni”.

Effettivamente, se bisogna restare bloccati in qualcosa, meglio il cliché del sex symbol.
Personalmente sceglierei il cliché dell’intellettuale: quello dell’attore impegnato. La cosa comunque che mi piace molto è che mi chiamano spesso per prendere parte a opere prime, web serie o progetti nuovi. Forse perché pensano che io sia uno che conosce gente… boh, non lo so! (ride, nda) Sta di fatto che mi fa piacere perché credo che sia un bel riconoscimento personale.

Veniamo a te: hai iniziato a recitare a cinque anni e a quindici eri già in tournée teatrale. Non hai perso tempo.
Ho iniziato un po’ per caso: una compagnia amatoriale girava uno spettacolo, lo scenografo era amico di mia sorella e così, a soli cinque anni, sono finito sul palco, nei panni di un bambino. E da quel momento è finita! Sceso dal palco, avevo già deciso che sarei diventato un grande attore.

Be’, i bambini sognano spesso in grande.
Credimi: a sette-dieci anni ero proprio un cogl… (ride, nda) Mi credevo già un attore, non mi capacitavo che fossi ancora lì, in quel paesino di provincia, a vivere, e se alle recite scolastiche avevo qualche battuta in meno rispetto agli altri mi arrabbiavo da morire. Tra l’altro guardavo tantissimi film di Totò: ho introiettato quei ritmi e l’idea di una maschera che possa essere versatile.

Francesco Russo (il primo da destra) con gli altri protagonisti di ‘A Classic Horror Story’. Foto: Netflix

Poi com’è finita?
È finita che a 12 anni vivevo già delle crisi pazzesche! Comunque il nostro mestiere è fatto un po’ così: ciclicamente vai in crisi, capisci che devi lavorare su qualcosa o de-strutturarti per risultare più spontaneo e naturale. Gli ostacoli fanno bene alla recitazione, la migliorano. Non finisci mai di imparare e se, come nel mio caso, inizi presto, questa trafila parte già da quando sei giovane.

Ma quelle cose che si dicono sempre, ossia “Mi sono perso gli anni più belli dell’adolescenza perché ho recitato presto”, sono vere?
In parte sì, e vale pure per gli anni seguenti: l’attore prende sempre un po’ a calci nel sedere la vita perché viaggia, vive tra un set e l’altro… ti perdi per forza qualcosa. Però va bene così, anche perché non è detto che gli anni dell’adolescenza siano poi così belli. Comunque, dopo la mia prima tournée, mi sono dovuto fermare fino a 18 anni: non andavo molto bene a scuola ed ero a rischio bocciatura. Non dico che i miei genitori mi avessero vietato le tournée, ma mi avevano fatto capire che dovevo dare la priorità alla scuola. Poi, dopo i 18 anni, sono andato in Accademia, che è tutto teatro, e una volta finita… ho fatto il cinema! (ride, nda)

Che tipo di attore vorresti diventare e che tipo di attore non vorresti mai diventare?
Non vorrei essere un attore integrato. Non mi piacerebbe se la gente dicesse: “Lui sa fare tutto”. Preferisco essere un volto con una personalità distinta che emoziona il pubblico e spazia tra i generi. Anche la commediaccia commerciale ha il suo valore: non esiste solo la storia impegnata. Tra l’altro mi piace anche scrivere: ho buttato giù qualcosa per il teatro e uno dei monologhi del mio personaggio in A Classic Horror Story è mio. Non ti svelo però quale: dai, lanciamolo come Easter egg del film!

Un mito con cui vorresti dividere il set?
Vanno bene tutti: datemi una star, e io sono felice. Tra l’altro recitare insieme a bravi attori aiuta moltissimo a migliorare: se funziono in A Classic Horror Story il merito è anche di Matilde Lutz, che è bravissima. Si recita infatti sempre insieme: mai da soli. Quello che però mi renderebbe felicissimo sarebbe essere sempre richiamato dalle persone con cui ho già lavorato: vorrebbe dire che ho fatto bene il mio lavoro. Allora sì, sarebbe il massimo.