Francesco Di Leva, arte militante | Rolling Stone Italia
Interviste

Francesco Di Leva, arte militante

Eduardo e ‘Il sindaco del Rione Sanità’ come spartiacque, il NEST e la recitazione che diventa strumento sociale, i due film che ha portato ad Alice nella Città. Incontro con l’attore, ma soprattutto con l’uomo

Francesco Di Leva, arte militante

Foto: Martin Di Maggio

«Continuo a vivere a San Giovanni a Teduccio. E non me andrò mai di lì», mi disse Francesco Di Leva quando l’ho incontrato a Venezia per Il sindaco del Rione Sanità. Un paio di anni dopo, le intenzioni (e soprattutto i fatti, perché Di Leva è uomo e artista d’azione) sono ancora identiche. Anzi, se possibile, il cuore di Francesco è ancora più infiammato e instancabile. Tutti dovrebbero scambiare due parole con lui periodicamente nella vita, giusto per rimettere un po’ in ordine le priorità. E fare un bagno di realtà.

In quel quartiere difficile alla periferia est di Napoli nel 2017 ha fondato, insieme a un collettivo di amici, il Teatro NEST per dare una speranza ai ragazzi della zona. La sua è una recitazione militante. E quando la racconta nelle interviste è ancora più “combattente”. «Non a caso uno dei nostri slogan al NEST è che “militiamo cultura”, è un atto di resistenza, un avamposto contro la barbarie. Le frasi fatte non sono sempre belle, ma sono giuste. Questa cazzo di bellezza e questa cazzo di cultura ti rendono un uomo migliore. Io non compravo mai un libro, mo ne leggo uno a settimana». Da qui inizia una chiacchierata-fiume intensissima, a partire dai due film che Francesco ha presentato ad Alice nella città: Come prima di Tommy Weber e Un mondo in più di Luigi Pane. E va oltre, molto oltre.

Partiamo da qui.
Ho visto solo Un mondo in più. Volevo vedere Come prima, Antonio Folletto ed io ci siamo fatti una promessa d’amore: guardarlo insieme in sala, mano nella mano. Chissà se ci riusciremo.

Un amore che c’era già o che è nato per il film?
Io ormai faccio questo lavoro per stringere amicizie. Quando mi ha chiamato il produttore, mi ha chiesto con chi mi sarebbe piaciuto lavorare e io ho indicato Antonio, perché è molto bravo e mi sarebbe piaciuto diventargli amico, così, a sensazione. E pure Folletto ha detto che voleva lavorare con me da un sacco di tempo.

Antonio Folletto e Francesco Di Leva in ‘Come prima’. Foto: Anna Camerlingo

Come prima e Un mondo in più sono due titoli molto diversi, però entrambi parlano in qualche modo di famiglia: rapporti difficili tra padre-figlio o tra due fratelli, con dentro anche altre tematiche enormi come l’immigrazione o le contraddizioni del dopoguerra.
Sì, c’è un filo conduttore in un momento storico dove c’è l’esigenza di raccontare i rapporti, vedo sempre più film che parlano di famiglia, l’amore e l’odio all’interno di un nucleo. Mi arrivano sceneggiature dove il conflitto è sempre quello e quindi credo che ci sia proprio la necessità da parte di autori, sceneggiatori e produttori di metterlo a fuoco. Non è che non sia mai stato raccontato, perché ovviamente è già stato sviscerato, però sta tornando. E poi c’è anche questa nuova generazione di attori che sta iniziando a raccontare storie diverse. Il tema è sempre lo stesso, ma si adatta ai tempi. Poi io sono padre nella vita, quindi quando mi vedo padre anche nei film…

Volevo arrivarci: vedo che pubblichi spesso le foto dei tuoi ragazzi su Instagram, immagino che in Un mondo in più ci sia stato un trasporto anche personale.
Ho cercato di ingrandire quella parte di me che è molto protettiva, quell’aspetto che ogni padre ha, e le madri ancora di più – voi donne siete una razza superiore. Però anche i padri, messi alle strette, sono capaci di esprimere con forza l’amore che provano per i propri figli. In questo caso c’era l’assenza di una mamma dentro, ma per il rapporto con l’attore che interpreta il ragazzino (Francesco Ferrante) ho pensato tanto a mio figlio Mario. Anche lui è un essere indifeso, sembra un po’ il personaggio di Diego. Senti l’esigenza di proteggerlo, ma in realtà lui si sta già difendendo da solo. Perché è un ragazzo che studia, e oggi quella è l’arma.

Francesco Di Leva e Francesco Ferrante in ‘Un mondo in più’

La cultura come difesa.
Io abito in un quartiere molto difficile della periferia napoletana e molti mi dicono: “Perché non vai via?”. Avrei la possibilità di trasferirmi in un altro posto, anche solo a Napoli. Ma poi penso: “No, tanto i miei figli studiano”. E quando lo fai si alza il livello. Questo aspetto paterno è venuto fuori moltissimo in Un mondo in più, mi sono divertito e insieme dilaniato tantissimo. E poi credo che il vero plot del film sia il discorso sociale: una vicenda che è accaduta davvero a Roma. Un ragazzo che dà addosso a quelle persone di destra – non mi va nemmeno di nominarle, hanno idee un po’ diverse dalle nostre. E lui invece sostiene che gli zingari devono restare, che sono una cultura che dobbiamo difendere. Sono partito da quella realtà. E poi ho scoperto Roma e i romani, non li avevo mai incontrati veramente. Ad Acilia la gente ti abbassa i caffè dai paniere, cosa a cui sono abituato, a Napoli è normale. Se frequenti il centro invece, quanti romani ci sono? Quando arrivi alla stazione di Napoli hai a che fare con il napoletano, a Roma no, è un tessuto completamente diverso. I romani sono proprio come noi! (ride) Ho trovato grande accoglienza e mi sono sentito bene.

A proposito invece di Come prima: quanto è diverso dare vita a un personaggio di una graphic novel?
Io credo che sia divertente, ovviamente pone anche dei limiti perché guardi qualcosa di già fatto. Ma può essere anche fonte di ispirazione: ti chiedi quanto si può avvicinare a te quella figura. Appena mi è arrivata la proposta sono andato a leggere il fumetto. Da attore ho apprezzato molto il poter dare più vite a un personaggio disegnato. E il fatto che dalla testa di un autore come Alfred, quindi dalla Francia, nasca un fumetto che in realtà è mezzo italiano, e che poi questo fumetto catturi un regista che trova una produzione italiana, napoletana, e che arrivi a me e a San Giovanni a Teduccio e ad Antonio…

È già un film.
Esatto, perché la gente deve avere a che fare con l’arte? Perché c’è un procedimento enorme. E domani a un ragazzo che sta guardando questo film magari viene l’idea di scrivere una storia.

So che ti sei diplomato da poco.
Sì, l’ho fatto per una scommessa con mia figlia. Le ripetevo sempre di studiare. Ma lei mi rispondeva: “E tu che hai fatto?”. Allora prima mi sono andato a iscrivere, poi un giorno ho preso lo zainetto. Mia moglie mi chiede: “Dove vai?” E io: “A scuola”. “Non fa’ u scemo, pa’”. La mia famiglia non ci credeva: mi sono messo in macchina, gli ho mandato la foto di me tra i banchi, e loro sono impazziti. Mi sono fatto un anno e mezzo di tortura vera, perché poi l’impegno è impegno, ho scelto una scuola pubblica, non privata. Tutte le sere, quattro o cinque ore a studiare. E mia figlia è diventata bravissima a scuola: adesso c’è il rapporto tra noi che si gioca tanto su quello. Prima mi ha mandato un messaggio: stamattina l’hanno interrogata in francese.

Ecco il valore di quello che hai fatto.
Io poi mi interrogo e le interviste ti danno modo di fare il figo sui pensieri che hai fatto (ride). Vado a un festival, mi metto una maglietta e faccio finta di essere l’alternativo della situazione. E invece quel contesto va onorato, ti devi mettere ‘a camicia. Per l’anniversario di matrimonio devi portare tua moglie a cena, punto, non ci sono scuse. Chesta è ‘a vita. Questo incontro con te è un momento della mia giornata che dura mezz’ora, io me ne vado da qua e ho a che fare con i miei figli, i miei problemi. Voglio che la mia vita sia talmente intensa da avere qualcosa da raccontarti. Quando magari la produzione mi dice: “L’intervista la puoi fare per telefono”, e non vuole pagarti il viaggio per venire a Roma, io rispondo: “Me lo pago da solo”, perché voglio onorare quello che ho fatto e quello che hanno fatto le persone che hanno lavorato con me. Per questi due film mi sono – ci siamo – fatti un mazzo tanto. Ho sofferto, sono stato in totale tre mesi e mezzo lontano dalla mia famiglia, per scelta non sono tornato q Napoli anche per soffrire il distacco, poi di mezzo c’è stato il Covid e tutto il casino. E io devo fare il figo, con la bella foto che poi metterete su questa intervista e non ti devo nemmeno venire a incontrare?!

Francesco Di Leva in ‘Un mondo in più’

È chiaro che questa intervista sta diventando un’altra cosa adesso (ridiamo).
Tu magari metterai anche delle considerazioni sull’uomo che hai incontrato, no?

Be’, non ci sono sempre persone che si “danno” così.
Ma tu lo sai che io nasco panettiere?

Racconta: come nasce Francesco attore?
Io sono sempre stato attore. Sembra strano, ma in realtà non ho mai deciso di smettere di fare il panettiere, non c’è mai stato un giorno in cui ho detto: “Vi lascio, vado a fare un altro lavoro”.

Ma il pane a casa lo fai ancora?
Certo, noi abbiamo un lievito madre che dura da 124 anni e passa di generazione in generazione. Ma io non sono mai stato dai miei zii a dire loro: “Non vengo più”. Per parlare di cinema, è stata una dissolvenza incrociata: sono andato a fare spettacoli, film, e poi a un certo punto li chiamavo: “Domani vengo in panificio, ho finito la tournée”. Poi a un certo punto non li ho più chiamati, era diventato talmente tanto il lavoro che non riuscivo più, ma se domani dovesse diminuire io non avrei nessun problema a tornare a lavorare. Ho tutto ancora in mente: per un kg di acqua ci vogliono 600 gr di sale. Guardo il grado di umidità e so quanto lievito metterci. E questa è sempre stata la mia forza. Perché quando ci sono stati momenti difficili, pensavo: “Vabbè, torno a fare il panettiere”, che è una grande cosa.

Quindi non c’è mai stato un momento in cui hai deciso. Però ricordo che una volta mi spiegasti che tuo nonno, vedendo la foto di Mario Martone sul giornale…
Mi disse una cosa molto napoletana: “Devi trasi’ (entrare, nda) nelle grazie di quest’uomo”. Mario su quel giornale aveva l’età che ho io adesso e già mi sembrava gigante come uomo e come artista. Teneva questo corso a Ischia nella villa di Luchino Visconti, c’era una spesa di segreteria di 24mila lire, ma io prendevo 70mila lire a settimana e non ci volevo andare. Mio nonno disse: “Sponsorizzo io”. Mandai questo dvd con dei pezzi recitati e Mario mi scelse.

E non vi siete più lasciati.
Credo di essere stato bravo nei rapporti, è una mia predisposizione. Dopo cinque anni sono capace di scriverti un messaggio come se non ti sentissi da ieri. Ma non lo faccio perché è il mio lavoro, lo faccio perché è naturale. E quella dote mi ha permesso di tenere un rapporto con Mario per tanti anni, fino a che non sono andato poi a proporgli di fare Il sindaco del Rione Sanità.

E avete aperto un’autostrada: portare i classici di Eduardo nella contemporaneità.
È stato un bel viaggio perché fino ad oggi Eduardo è stato toccato teatralmente da un punto di vista sperimentale, ma – come dire – sono andati oltre la linea. Invece qui si è data la possibilità di non sovrastare il testo con delle immagini così forti come succede ad esempio in Natale in Casa Cupiello di Antonio Latella, che pure ho apprezzato. Volevamo mostrare il testo sotto un’altra forma. E poterlo giudicare per quello che era. Ed è stata anche la scelta di Mario metterlo là, nudo e crudo. Infatti la gente ci diceva: “Ma avete toccato il testo”. E noi rispondevamo: “No, abbiamo soltanto suonato quelle parole in un altro modo”. Noi con Eduardo abbiamo sempre avuto un problema. Succede dalla notte dei tempi: con Shakespeare fanno Romeo+Juliet e dicono che è un capolavoro, non capisco perché noi non possiamo fare Filumena+Marturano (ride).

Tra l’altro, adesso ci sono diversi film che raccontano quel teatro: Qui rido io di Martone stesso, dove c’eri anche tu, e ora anche I fratelli De Filippo di Sergio Rubini.
Credo che Il sindaco sia stato uno spartiacque, dopo che è uscito sono arrivati tanti progetti. Non vorrei dire cretinate, ma mi pare che il produttore di tutti i De Filippo che stanno facendo in tv, tipo Edoardo De Angelis ecc, abbia dichiarato: “Ho visto Il sindaco e mi sono detto: ma allora è possibile”. E abbiamo dato anche coraggio anche a tutti questi registi napoletani… si era creato un rapporto strano tra l’autore Eduardo e Napoli, era intoccabile. Che va benissimo rispettare per l’autore: ma che cosa ha fatto Il sindaco del Rione Sanità sul sociale? Ha fatto sì che lo scoprisse un pubblico che mai avrebbe conosciuto Eduardo e quell’opera. Ora ne parliamo spesso, ma era un testo che non conosceva quasi nessuno. Si conoscono Natale in casa Cupiello, Filumena Marturano, Napoli milionaria. Il sindaco ha permesso a un pubblico di giovani – perché poi il pubblico è giovane, quando tu fai un film giovane – di conoscere Eduardo e questa suo titolo. E se su 100mila ragazzi, anche solo 10 domani mattina hanno la curiosità di andare a vedere chi è questo autore, sarebbe un trionfo. La vittoria non è sui numeri, è sul cambiamento.

Che cosa ha cambiato Il sindaco con la popolarità e i premi? Anche se mi sembra che il punto fondamentale per te sia l’aumento della tua potenza di fuoco, quello che puoi fare per il teatro, per le persone.
Io sono sempre lo stesso, è cambiata la percezione degli altri nei miei confronti. E mi domando perché, sono sempre lo stesso attore e la stessa persona di prima. Una cosa però è successa: adesso busso e mi ascoltano. Prima dovevo faticare, ma mi facevo ascoltare lo stesso. Ora è più facile per il lavoro sociale che mi porto dietro. C’è chi mi chiede perché lo faccio. Sono in un momento della mia carriera in cui potrei farmi gli affari miei, le vacanze con la mia famiglia. E invece porto nel mio quartiere una testimonianza vera, concreta: che la cultura si può fare. Cito sempre Muhammad Ali: non esiste l’impossibile, lo creano gli altri. A volte sono stanco, non dormo la notte, vado dallo psicologo. E mia moglie mi dice: “Fra’ ma perché non freni un po’?”. Ho innescato talmente tanti meccanismi che, se adesso prendo il cellulare, non trovo i messaggi dei registi o dei giornalisti che mi cercano, ma quelli dei ragazzi di San Giovanni che mi scrivono: “Ho fatto questo provino, lo vedi?”.

Una delle storie più recenti che hai incontrato?
Sono andato a fare un dibattito sul sindaco e c’era un ragazzino, Rosario, che è mi venuto vicino: “Io voglio diventare come te”. Ce n’erano a centinaia di ragazzi però ho visto che lui mi guardava in un modo particolare. E allora ho chiesto informazioni: non ha più il padre, la madre ha deciso di andare a stare con lui in una casa famiglia dopo che il bambino le era stato sottratto, ha due sorelle, di cui una disabile e vivono tutti insieme in una stanzetta. Ho fatto in modo di incontrare il giudice che si prende cura di Rosario. Per fartela breve: adesso sta con me sul set del nuovo film di Martone. Un giorno vorrei non avere più limiti tra la mia vita e quello che porto sul set, vorrei che fosse un prototipo di esperienza per cui poi un domani qualcuno pensi: “Seguiamo quel percorso, c’è stato chi c’è riuscito”. Ma non chiedo lo sforzo agli altri: sono andato a sedermi personalmente cinque ore in sala d’attesa ad aspettare il magistrato e mi sono sorbito tutto il procedimento. Adesso ho chiamato un altro casting, Rosario ha fatto un nuovo provino l’altro giorno e l’hanno chiamato per una nuova serie. Sto costruendo un attore? No, sto creando l’innamoramento di un essere umano nei confronti di qualcosa che lui stesso mi ha chiesto. Lui va su un set e incontra persone perbene, magari vede un elettricista che sistema dei cavi vicino ad un proiettore e capisce: “Voglio fare quello”. Significa semplicemente dargli un’occasione.

Qual è il tuo sogno ora?
Vorrei avere il numero del Ministro, chiamarlo e dirgli: “Domani mattina vieni un attimo a Napoli che ti devo parlare un paio di cose”. E lui arriva. (Si ferma, sospira, sorride). È difficile dirlo a parole, perché ogni cosa può essere fraintesa.

In realtà è tutto molto chiaro.
Ecco, già succede ma vorrei avere delle armi in più. Mo mi sono fissato, voglio portare Bansky a San Giovanni. Dovrebbe solo disegnare uno dei suoi topi di 30 cm sulle pareti del mio quartiere. Gli metto l’impalcatura e non mi deve dire nemmeno quando viene: disegna, firma e se ne va. E così mi aiuta a rivoluzionare San Giovanni, perché si attiverebbe un processo turistico. Noi non siamo è la Sanità, le opere d’arte le dobbiamo creare. Poi aggiungi il NEST, dai a Jorit un posto in cui dipingere, chiami Mimmo Palladino. E quando arrivano magari a Napoli le persone verranno a vedere l’opera di Banksy a San Giovanni. Il progetto diventa più ampio, le merde che delinquono si rintanano. I turisti arrivano lì con i cellulari, diventa una sorveglianza a cielo aperto. E poi ci sarà pure un indotto lavorativo. Tanto a Banksy che cacchio gli costa? Potrebbe rivoluzionare la vita di 27mila abitanti. Ci riusciamo, ne sono convinto.