Dalia Colli: il trucco c’è… ed è da Oscar | Rolling Stone Italia
Interviste

Dalia Colli: il trucco c’è… ed è da Oscar

Una chiacchierata con la make up artist candidata agli Academy Award per ‘Pinocchio’. La formazione nel segno dell’arte, i primi lavori sul set, il sodalizio con Matteo Garrone. Ma anche i segreti professionali e privati di una di quelle maestranze che fanno grande il nostro cinema

Dalia Colli: il trucco c’è… ed è da Oscar

Marine Vacth è la Fata Turchina in ‘Pinocchio’ di Matteo Garrone

Foto: 01 Distribution

Dalia Colli è una make up artist che lavora nel cinema. È candidata all’Oscar per il lavoro svolto sul film Pinocchio, diretto da Matteo Garrone. È un’eccellenza tra le maestranze italiane, che spesso lavorano nell’ombra e che, insieme con i vari reparti, collaborano alla realizzazione e al successo di un film. Ha vinto un European Film Award per Dogman e tre David di Donatello per i film Reality, Dogman e Pinocchio. L’Oscar per il Best Makeup and Hairstyling è stato istituito dall’Academy nel 1982, e alcuni italiani si sono già aggiudicati il prestigioso premio, gli ultimi Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini per Suicide Squad nel 2017. Ma è solo la seconda volta, dopo quella toccata ad Aldo Signoretti e Vittorio Sodano nel 2010 per Il Divo di Sorrentino, che riceve la candidatura un film ttaliano.

Come hai preso la notizia della nomination all’Oscar?
Be’… non mi sarei mai aspettata di arrivare a questo punto. Sinceramente non era proprio nella lista delle aspettative. Sono già diversi mesi che siamo al lavoro per promuovere il film, per farci conoscere, per andare avanti in questa grande avventura. La candidatura è per me già una vittoria, perché è una cosa molto grossa. È già tanto che ti capiti una volta nella vita. Mi spiace non poter andare a Hollywood a causa della pandemia. Ma sono molto impegnata per la lavorazione su un film e, tra una quarantena e l’altra, sarebbe un casino. È meglio così. Parteciperemo alla cerimonia di premiazione dell’Academy da Roma.

Raccontami un po’ della tua storia, come hai iniziato, se da ragazzina volevi diventare una make up artist.
Quando ero piccola ero un po’ malaticcia, soffrivo d’asma, non potevo fare sport. Ero un po’ immobilizzata. Quindi, per non annoiarmi, iniziai a suonare il pianoforte. Ero anche una teledipendente: iniziai a disegnare guardando i cartoni animati e da lì non ho più smesso. La musica mi ha accompagnato per tanti anni. Dalle elementari fino alle superiori ho studiato anche al conservatorio, ed è stato molto impegnativo. Per la musica avevo una grande passione, che mi ha trasmesso il mio babbo, batterista di un gruppo jazz. Ho sempre avuto interesse per l’arte in generale, mi piaceva osservare le opere degli artisti del passato.

Qual è stata la tua formazione scolastica?
Alle superiori ho studiato al liceo scientifico sperimentale Francesco Cecioni. Erano i primi anni ’90, ed era una scuola fighissima. Era il primo liceo sperimentale pubblico a Livorno. Il biennio era liceo scientifico tradizionale, e poi dal terzo anno potevi scegliere la specializzazione: io scelsi l’indirizzo artistico. Tantissime cose che so e che ho messo poi nel mio lavoro le ho imparate lì. Dopo mi sono iscritta a disegno industriale a Firenze, ma non era la mia disciplina, quindi sono passata all’Accademia di Belle Arti, sempre a Firenze, dove ho iniziato a studiare decorazione. A livello teorico ho fatto molti esami di storia dell’arte, e ho iniziato effettivamente a conoscere tutte quelle tecniche antiche come ad esempio la calchistica, l’incisione, il restauro, la classica ornamentale, scultura, pittura, tutte materie importantissime che hanno allargato i miei orizzonti artistici e la mia sensibilità. A quei tempi che sarei diventata una truccatrice non lo sapevo. Vivendo a Livorno non conoscevo il mondo cinematografico. L’ho scoperto il primo anno di Accademia a Firenze. E quando ho saputo che esisteva lavoro nei reparti cinematografici – e dico reparti perché io non sapevo che cosa volevo fare – mi sono trasferita all’Accademia di Belle Arti a Roma, perché lì c’era anche il corso di regia. Da lì ho dato il via a tutto. Era il 1999. Ho cambiato vita completamente. Partita da una cittadina come Livorno, mi sono ritrovata a Roma con la mia bella valigia e tanta voglia di fare.

Un ritratto di Dalia Colli. Courtesy Dalia Colli

Come e quando hai iniziato a lavorare sui set?
Ero al primo anno di Accademia a Firenze e arrivò a Livorno una piccola troupe cinematografica. Era un piccolo progetto. Un mio amico ci lavorava e mi disse che cercavano qualcuno come location manager, attrezzista, scenografa, insomma un po’ un tuttofare che conoscesse la città e i posti. Io, incuriosita, andai al colloquio con il regista perché mi sembrava che fossero cose alla mia portata. E poi ricordo come se fosse ora quando mi disse che mi avrebbero pagata, ma essendo purtroppo un film low budget avevano a disposizione “solo“ 300mila lire a settimana. Era il 1998, alla mia prima esperienza, per fare un lavoro fighissimo. Ho capito che mi sarebbe piaciuto lavorare in quel mondo. E così fu. Solo che inizialmente cominciai con la scenografia. Infatti i primi tempi che stavo a Roma lavoravo per una cinetecnica a Guidonia.

Come sei diventata make up artist?
Un amico di mia mamma mi mise in contatto con Paola Gattabrusi, che è una famosa truccatrice italiana della mia stessa città. Una volta finita l’Accademia, la chiamai e le chiesi informazioni su come potessi fare per iniziare a frequentare i set. Io ancora non sapevo cosa volessi fare, nel senso che sapevo fare un po’ di cose ma non approfonditamente, ero molto giovane. Lei mi disse che era una truccatrice e che, se avessi voluto, mi avrebbe portata qualche giorno sul set per provare. E così, dopo un po’ di tempo, mi chiamò per fare una giornata con lei per un film. Io arrivai con due ore di ritardo perché ero con un vecchio motorino, con Tuttocittà in mano, e non riuscivo a trovare la strada nel casino di Roma. Mi presi subito un bel cazziatone. Erano esattamente vent’anni fa, e quello fu il mio esordio come truccatrice.

E da lì hai scoperto che ti sarebbe piaciuto diventare make up artist.
Da lì ho scoperto che mi sarebbe potuto piacere. Perché io non amo truccarmi molto, e non ho mai dato molta importanza all’estetica femminile. Quindi era un campo completamente nuovo. Però quello che riconoscevo è che potevo riportare nel trucco le nozioni che già avevo imparato, quello che sapevo fare con le mani, dipingere con i colori, usare i materiali. E così è stato. Nel 2001, Vittorio Sodano, truccatore romano che poi ricevette due candidature all’Oscar, aprì un piccolo laboratorio di effetti speciali per fare calchistica, modellatura, preparare materiale per i truccatori. Cercava qualcuno che lo gestisse, e mi chiamò. Fu la mia gavetta, e imparai le basi di quello che poi divenne il mio mestiere. Fu il mio primo maestro. Iniziai a conoscere, ad esempio, la composizione dei prodotti, come creare il sangue artificiale o la gelatina che si utilizzava per realizzare le protesi, quelle che cambiano i connotati, o per i mostri che poi venivano utilizzati nei film. Tutte le nozioni che ho imparato, a partire dai miei professori del liceo, dell’accademia, fino ai truccatori con cui ho collaborato, sono un bagaglio enorme. Solo grazie a un buon imprinting puoi superare quello che ti viene insegnato. La caratteristica dei truccatori italiani è la poliedricità. La capacità di adattarsi in ogni situazione. Spesso può capitare sul set, per problemi logistici o produttivi, di non avere i materiali giusti che ti sarebbero serviti per fare al meglio il lavoro richiesto dal regista, e quindi devi essere in grado di trovare una soluzione che sia una degna sostituta a quello che avresti potuto creare nelle condizioni ideali.

Quale è stato il tuo primo film come capo reparto make up?
Dopo aver lasciato il laboratorio, ho iniziato a camminare con le mie gambe e nel 2005 fui chiamata per fare la mia prima esperienza come caporeparto. È stata una scelta molto azzardata. Il film era L’estate del mio primo bacio, regia di Carlo Virzì, il fratello di Paolo, con protagonista Laura Morante. È stata un’esperienza molto importante per me. In alcune giornate c’erano molte comparse, dovevo coordinare il reparto, far capire alle persone che lavoravano per me su che linea dovevano muoversi. Prima ero stata solo assistente. Anche se l’assistente è un ruolo veramente fondamentale. Quando lavoro su film molto importanti, lunghi e difficili, che richiedono molta professionalità e responsabilità, ho bisogno di avere accanto una o più persone che siano sulla mia stessa lunghezza d’onda per quanto riguarda l’estetica dell’immagine che ho in mente. Una persona a cui non devo dire niente. Non sempre i budget o la produzione te lo consente, ed è difficile farlo capire. Io collaboro da parecchi anni con Valentina Tomljanovic, che fa un lavoro preziosissimo, senza il quale per me sarebbe più complicato. Come è stato quando ho lavorato per Pinocchio. Colgo l’occasione per ringraziarla.

Tu hai lavorato con tanti registi famosi. Noi ci siamo conosciuti sull’ultimo film del maestro Ermanno Olmi, Torneranno i prati. Che ricordo hai di Ermanno?
Conoscere Ermanno è stata un’esperienza molto bella, perché personalmente ti dà veramente molto. Come ha dato molto tramite la sua cinematografia. Avrei potuto passare ore ad ascoltare le storie che mi raccontava. Amavo ascoltarlo. Quando mi spiegava come eseguire il trucco, lo faceva lui con le sue mani, ad esempio mostrandomi come doveva essere sporcato il viso dei soldati dopo che era esplosa una bomba. Era veramente interessante ed educativo. È stato un film bellissimo, l’ho visto tante volte e mi dispiace che non abbia avuto i giusti riconoscimenti, perché è una poesia. Ho un ricordo molto bello della troupe, stavo affrontando un momento difficile della mia vita privata e anche grazie alle persone che ho incontrato durante i mesi di lavoro sul set ad Asiago sono riuscita a superarlo.

Parlami del tuo sodalizio lavorativo e professionale con Matteo Garrone.
Il primo film che feci con lui fu Gomorra nel 2007. Potrei dire che Matteo Garrone è una persona tanto semplice quanto complessa. Mi ricordo che su Gomorra facevo fatica ad interloquire con lui, a capire cosa volesse. Cioè, avevo capito la sua intenzione estremamente realistica, che i personaggi dovevano essere totalmente reali e odierni, allora proponevo delle cose che sembrava andassero bene. Abbiamo avuto anche tanti screzi, lì per lì, ma devo dire che dopo Dogman ci troviamo più facilmente sulla stessa lunghezza d’onda, anche perché se no non avremmo potuto stare insieme così tanti anni. Ecco, con Matteo devo un po’ trovare la chiave di cosa vuole, perché spesso faccio un po’ fatica a tradurre subito nel mio lavoro materiale la complessità del suo immaginario. È un processo, allora inizio a fare ricerche, ci confrontiamo, faccio proposte, e man mano riesco a concretizzare quella che è la sua idea, ed è meraviglioso.

Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini sono il Gatto e la Volpe. Foto: 01 Distribution

Per Pinocchio hai collaborato con Mark Coulier, un make up artist vincitore di due Oscar per Grand Budapest Hotel di Wes Anderson e The Iron Lady di Phyllida Lloyd.
Non conoscevo Mark personalmente, lo conoscevo professionalmente per i film che aveva fatto, e poi noi truccatori siamo in contatto e le informazioni girano. Quando ho saputo che avrebbe lavorato su Pinocchio ero molto felice, perché è uno dei più grandi, ed ero emozionata perché avrei dovuto essere all’altezza e riuscire ad impreziosire il suo lavoro. Ha una tecnica ineccepibile ed è molto meticoloso. Il suo staff è composto da circa cinquanta persone, che hanno lavorato in laboratorio e sul set.

Com’era suddiviso il reparto di make up e in cosa consisteva il tuo lavoro per la preparazione dei personaggi del film?
Prima che Matteo contattasse Mark, erano già due anni che noi parlavamo del progetto del film. Ci eravamo molto confrontati, avevamo già fatto molte prove di trucco e iniziato ad immaginare i vari personaggi. Quando ho saputo che gli effetti speciali li avrebbe curati Mark, ero sicura che sarebbe diventato un lavoro bellissimo. Il reparto era suddiviso in tre: make up curato da me, special make up effects curato da Coulier e hairstyling curato da Francesco Pegoretti. Infatti siamo entrambi candidati all’Oscar. Durante il lavoro di preparazione, che è durato sei mesi tramite Skype call, è iniziato il design dei personaggi, grazie ai concept meravigliosi realizzati in Photoshop da Pietro Scola Di Mambro, alle immagini che ci scambiavamo, alle prime protesi, e man mano i personaggi prendevano forma. Sono tantissime le modifiche fatte rispetto alle prime idee. È stato un lavoro immenso. Eravamo organizzati bene. Io mi occupavo di molti dei personaggi che facevano da contorno a Pinocchio. Curavo Geppetto, le due fatine, Mangiafuoco, i personaggi del circo, il popolo, il Gatto e la Volpe. Il lavoro fatto su il Gatto e la Volpe (interpretati da Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini, ndr) è stato molto bello, perché è stato un lavoro di équipe, e per me sono alcuni dei personaggi meglio realizzati. Garrone voleva realismo perché, nonostante ci fossero personaggi magici, in un film devi far credere che quella sia la realtà. Il Gatto e la Volpe erano gli unici due personaggi antropomorfi. Infatti avevano solo un piccolo intervento di prostetica, un particolare del muso sotto il naso e le orecchie, tutto il resto era modificato da me in modo da farlo sembrare animale. Ad esempio, per fare le unghie ho dovuto prendere il calco delle mani degli attori, dal calco creare il dispositivo di gesso, sulle dita modellare le unghie in plastilina e poi prendere lo stampo, in modo da poter ripetere in serie tutte le unghie delle mani per ogni singolo dito. Ma siccome Garrone voleva questo effetto realistico, dovevo realizzare delle unghie che fossero a metà tra uomo e animale, quindi ho dovuto cercare una resina che fosse trasparente. È stato un lavoro lungo e tecnicamente molto difficile. Ogni personaggio era veramente molto impegnativo. Per il personaggio della Fata Turchina, invece, abbiamo fatto delle prove di trucco su due attrici italiane molto belle, però purtroppo la loro natura mediterranea non faceva venir fuori il progetto che avevamo in mente, cioè questa fata fantasma che doveva essere allo stesso tempo sia bellissima, materna, rassicurante, che misteriosa e un po’ inquietante. Nel libro di Pinocchio, che avevo letto a 6 anni, era così, io ho questo ricordo della fatina, un po’ mi inquietava perché sapevo che era un fantasma. Allora, quando abbiamo trovato l’attrice che avrebbe interpretato la Fata Turchina adulta (la francese Marine Vacth, ndr), ripensando alle sensazioni che avevo provato da piccola volevo riuscire a creare un collegamento con quei ricordi, perché il film in primis era destinato ai bambini. Ho cercato di trovare il giusto colore della pelle, che non fosse troppo mortifera ma comunque luminosa. Quindi ho usato colori che ho ritrovato nelle tele di Klimt, il blu di Prussia, tutte le sfumature del bianco. Mi serviva la drammaticità di Klimt, ma siccome dovevo rappresentare quasi un paradosso, la bellezza nella morte, avevo bisogno di una via di mezzo, e ho trovato anche ispirazione nelle donne preraffaellite con la pelle color latte, con la stessa dolcezza, sensualità e nostalgia per esempio di Ofelia, che muore affogata nel fiume. Tutti effetti romantici. Questo per farti capire quanto conoscere la storia dell’arte mi aiuti a trovare un senso. Mi aiuta tecnicamente. Osservare le opere di un’artista, di uno scultore, di un pittore è un’importante fonte d’ispirazione.

Immagino che ogni giorno, prima di iniziare le riprese, impiegavi molto tempo a preparare gli attori.
Certo. Il Gatto e la Volpe, dopo che erano stati preparati con gli effetti speciali, venivano da me e ci mettevo quasi due ore per completare il lavoro: applicazione di peli finti, le cicatrici, i colori. Una preparazione molto lunga ce l’aveva il personaggio di Geppetto, interpretato da Roberto Benigni. Solo con me doveva stare un’ora e mezza, poi un’altra mezz’ora per la parrucca. E poi bisogna avere molta cura durante le riprese, se il personaggio ha una parrucca si deve stare sempre attenti che non si sposti e si veda l’attaccatura dei capelli, o che il trucco e le protesi siano sempre a posto, perché basta un attimo, una disattenzione, e si rovina una scena.

Roberto Benigni nei panni di Geppetto. Foto: 01 Distribution

Ho sempre pensato che chi fa il tuo lavoro, oltre a dover possedere indiscusse nozioni e qualità tecniche, debba anche avere qualità umane, sensibilità, dolcezza, simpatia, perché trascorre molto tempo a stretto contatto con personaggi famosi. Roberto Benigni, ad esempio.
Benigni è una persona estremamente piacevole, per la sua simpatia e per quante cose sa e ti può raccontare nei momenti che ci trascorri insieme. Mentre lavoravo con lui, avevo spesso le lacrime agli occhi dal ridere. Capitava che, mentre stavo facendo degli interventi delicati e anche pericolosi come passare un ferro rovente vicino al viso per allungargli le sopracciglia, lui con il suo tipico tono mi chiedeva: “Dimmi, qual è la capitale del Kazakistan?”. E io sono ignorante in geografia, non ne sapevo una. Lui rideva: “Nooo! Che vergogna!”, e anch’io scoppiavo a ridere. È stato veramente molto piacevole collaborare con lui. È stato uno dei personaggi a cui mi sono maggiormente affezionata per la sua interpretazione e per le sensazioni che mi ha trasmesso. Ma ogni attrice o attore con cui ho lavorato mi trasmesso qualcosa. Perché sono persone particolari, hanno veramente una sensibilità diversa e credono fermamente in quello che fanno. Io cerco sempre di farle sentire subito a loro agio, rassicurando che tecnicamente si possono raggiungere degli ottimi risultati. Sono persone abituate a stare sotto i riflettori, spesso hanno bisogno di certezze, e basta poco per incrinare un rapporto o creare tensione. Ma l’esperienza ti aiuta ad imparare a relazionarti con i diversi caratteri. Io dico sempre la verità. Se un intervento non posso farlo o so di rischiare di sbagliare, lo dico subito.

I tuoi progetti futuri?
In questo momento sinceramente sono un po’ frastornata per via della candidatura all’Oscar. Sono stata fortunata nella mia vita perché, quando sono partita dall’Accademia di Belle Arti di Firenze per andare a Roma, mi ero fatta un progetto. E si è realizzato ben oltre le mie aspettative. Quindi non saprei cosa sperare. Ma c’è una cosa che in effetti vorrei realizzare: una scuola per make uk artist. Un vero e proprio Centro di formazione professionale a Livorno. Io devo molto a tutti i docenti o professionisti che ho frequentato e mi piacerebbe mettere a disposizione quello che ho imparato e che so a chi vorrebbe intraprendere questa carriera. Spero, prima o poi, di farcela.