Caetano Veloso: le mie prigioni | Rolling Stone Italia
Interviste

Caetano Veloso: le mie prigioni

Abbiamo incontrato il cantautore brasiliano per il documentario fuori concorso a Venezia 77 ‘Narciso em férias’, che ripercorre il suo arresto nel 1968. Ma che si schiera anche contro il governo di Bolsonaro di oggi

Caetano Veloso: le mie prigioni

Caetano Veloso nel documentario ‘Narciso em férias’, fuori concorso a Venezia 77

Caetano Veloso fu arrestato la mattina del 27 dicembre 1968 all’alba nella sua casa di San Paolo, fino a poche ore prima piena di amici e di musica. Aveva 26 anni ed era appena stato l’ispiratore principale delle canzoni della raccolta Tropicalia, uno dei manifesti più radicali e sorprendenti del rock di sempre, il Sgt. Pepper terzomondista e “cannibale”, come aveva spiegato lui stesso. Lo caricarono su un furgone e lo portarono in un carcere di Rio, in isolamento. Da qualche parte sullo stesso piano misero il suo amico Gilberto Gil, altri intellettuali e poeti. Terrorizzato, smarrito, con il suo afro di capelli cancellato da una rasatura punitiva, attese più di un mese che qualcuno si degnasse di comunicargli le accuse e il motivo dell’arresto.

«Avevo un ricordo molto chiaro della mia esperienza in prigione, alla mia testa piace molto ricordare», dice oggi collegato da casa sua in occasione della presentazione del documentario Narciso em férias, fuori concorso a Venezia 77. Sono passati più di cinquant’anni da allora, e di anni, se la matematica non inganna, Caetano ne ha 76. Non c’è molto altro da spiegare sul motivo che lo ha spinto a tirare fuori di nuovo questa storia, già raccontata in un capitolo della sua autobiografia Verità tropicale. La dittatura, l’arbitrio, il fascismo, certo. Mica per caso i registi Renato Terra e Ricardo Calil lo hanno incontrato poco prima dell’elezione di Bolsonaro in un teatro di posa spoglio, una telecamera, una sedia e un muro di cemento che poteva suggerire quello di una prigione. Hanno conversato con lui per parecchie ore dei ricordi di ieri e delle paure di oggi, hanno scelto alla fine un formato “minimalista”: soltanto il racconto di quei due mesi passati in carcere, compresa l’evocazione delle canzoni ascoltate alla radio e un vecchio numero della rivista Manchete in regalo.

Fu su quella rivista – gliel’aveva portata di straforo sua moglie Dedé – che Caetano vide la foto della Terra vista dallo spazio. Scrisse allora i versi di una delle sue canzoni più belle, Terra, con lo sguardo lontano di un marinaio prigioniero come l’astronauta di David Bowie. Avere di nuovo tra le mani quella rivista oggi è un momento di intensa emozione. Nel documentario, costantemente in primo piano, Caetano la sfoglia e gli occhi si bagnano di lacrime. La voce gli si incrinerà definitivamente più avanti, nell’evocazione del sergente che aprì la porta delle cella a Dedé, e l’amore consumato nello squallore del carcere tra le grida lontane dei torturati.

Alla memoria di Caetano il documentario di Terra e Calil aggiunge anche un pezzo di storia ritrovata: i verbali dell’interrogatorio, che il cantante si presta a rileggere e recitare con il sorriso amaro dell’incredulità. «Non sapevo della loro esistenza», spiega. «Quando dalla prigione mi trasferirono ai domiciliari a Bahia non ci lasciarono apparentemente nessuna carta, né verbali. Eppure, poco prima di fare il film, tramite mia nuora ho ricevuto questi documenti trovati da un suo amico storico che stava facendo delle ricerche». Sappiamo così come venne comunicata a Caetano, da un colonnello, l’accusa: denunciavano che in un concerto aveva cantato le parole dell’inno brasiliano su un’altra musica, una specie di parodia. Impossibile, rispose lui, i versi non ci stanno come metrica. Se la prendevano con le sue canzoni “svirilizzanti”. Sorride Caetano quando legge nei verbali la parola, la ripete e infine la rivendica con fierezza. Ricorda che, anche se riuscì a dimostrare l’inconsistenza delle accuse, dovette rimanere in carcere, e fu il colonnello dell’antiguerriglia che aveva studiato in America a rivelargli infine che consideravano il tropicalismo un nemico persino più pericoloso e subdolo della canzone di protesta pura e semplice. «La creazione artistica rappresenta sempre una minaccia per un potere autoritario», dice oggi Caetano, impegnato in più di una iniziativa nella difficile opposizione contro uno dei presidenti più feroci e caricaturali del mondo. «Attualmente in Brasile c’è un tentativo di autoritarismo, si cerca di impedire la circolazione delle idee. La situazione è diversa da allora, ma c’è una trama che cerca di corrodere i principi democratici. La paura di perdere i diritti acquisiti è grande».

C’è una canzone che accompagna come un leitmotiv il racconto di Caetano, una canzone dei Beatles. «Sono sempre stato fan dei Beatles, e i soldati davanti alla porta della mia cella avevano un radiolina dove suonava spesso Hey Jude, era il successo del momento». Hey Jude, dice, fu la canzone che riuscì a trasmettergli il senso dell’essere liberi, e lo ha aiutato a sopravvivere alla paura e all’incertezza di quei giorni. «Come si fa a creare canzoni che hanno il potere di trasmettere il senso di libertà in chi le ascolta?», si chiede oggi. «Credo che questo sia il mistero dello scrivere canzoni». Gli chiediamo se ha mai incontrato Paul McCartney per provare a chiarirlo, il mistero. «Purtroppo no. Ho incontrato soltanto una volta Mick Jagger dei Rolling Stones», scherza. Nel documentario a un certo punto imbraccia la chitarra e dà una versione magnifica di Hey Jude, con la voce che ancora non lo abbandona. Take a sad song and make it better. Se il ’68 ha ancora qualcosa da dire, fuori dalle celebrazioni e dal museo, sta in una canzone: Terra, oppure Hey Jude. «Vorrei portare ai giovani una visione di chiarezza, perché credo che le nuove generazioni, soprattutto in Brasile, siano sotto una nuvola di disinformazione», conclude Caetano, con il viso dei suoi 26 anni neppure troppo nascosto dietro gli occhiali degli anni di oggi.