Stanley Kubrick, l’intervista di ‘Rolling Stone’ | Rolling Stone Italia
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Stanley Kubrick, l’intervista di ‘Rolling Stone’

Era il 27 agosto del 1987 e negli USA era uscito da poco 'Full Metal Jacket'. Il regista parla del suo cinema: le manie di controllo, la leggenda dei cento take per scena, l'insofferenza per le domande troppo concettuali e il rapporto con i critici

Foto: Ag. / IPA

Non è piombato dentro la stanza e non ci è arrivato per caso. La verità, visto che avrebbe ripetuto l’azione più volte, ha diverse sfaccettature e sarebbe giusto dire che Stanley Kubrick è entrato nella suite dei Pinewood Studios, fuori Londra, in diversi modi. Era allo stesso tempo felice di aver trovato il posto dopo una ricerca durata 20 minuti, mortificato per il ritardo e ansioso per la tortura che avrebbe dovuto sopportare di lì a poco.

Mi hanno detto che Stanley Kubrick odia le interviste. È difficile prevedere cosa aspettarsi da lui se hai visto soltanto i suoi film. Qualcuno percepisce nelle sue pellicole un artigianato scrupolosissimo, un intelletto furioso all’opera, una devozione tenace. I suoi film non si prestano a una semplice analisi; questo spiegherebbe la natura pomposa di alcuni dei libri che sono stati scritti sulla sua arte. Facciamo un esempio: “E mentre Kubrick è fermamente convinto che il potere visivo di un film renda l’ambiguità sia qualcosa di inevitabile che una virtù, lui non condividerebbe mai la credenza mistica di Bazin per cui i migliori registi sono quelli che sacrificano le loro prospettive personali per un’effimera cristallizzazione di una realtà della cui presenza circostante uno è costantemente consapevole”.

Uno allora pensa che un’intervista fatta a questo livello sarebbe una stronzata pretenziosa. Kubrick, comunque, mi è sembrato esattamente l’opposto di presuntuoso. Indossava scarpe da ginnastica e un vecchio golfino Corduroy. Aveva una chiazza di inchiostro sotto la tasca dove qualche biro è morta dissanguata. “Che posto è questo?” ha chiesto Kubrick. “È la suite executive” ho risposto. “Penso che qui ci mettano i pezzi grossi”. Kubrick si è guardato attorno verso i muri tappezzati di legno nero, i candelabri, i divani di pelle e le sedie. “C’è un bagno?” mi ha chiesto con un po’ di urgenza. “Dall’altra parte della hall” ho risposto. Il regista allora si è scusato ed è andato a cercare la toilette. Io nel frattempo ho sistemato i miei appunti.

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Kubrick ha accettato di incontrarci per parlare del suo ultimo film, Full Metal Jacket, una pellicola sulla guerra del Vietnam che ha prodotto e diretto. Ha anche curato la sceneggiatura con Michael Herr, l’autore di Dispatches, e Gustav Hasford, che ha scritto The Short-Timers, il romanzo su cui si basa il film. Full Metal Jacket è il primo lungometraggio di Kubrick da sette anni a questa parte.

Il regista, complicato ed esigente, è tornato dal bagno un po’ perplesso. “Penso che tu abbia ragione,” mi ha detto. “Questo è un posto dove le persone vivono. Mi sono guardato un po’ in giro, ho aperto una porta e c’era questo ragazzo seduto sul bordo di un letto”.
“Chi era?” ho chiesto.
“Non lo so”, ha risposto Kubrick.
“Cosa ha detto?”
“Niente. Mi ha solo guardato e me ne sono andato”.
Ci fu un lungo silenzio mentre riflettevamo sull’inevitabile ambiguità della realtà, in particolare in relazione a un ragazzo seduto su un letto dall’altra parte del corridoio. Poi Stanley Kubrick ha iniziato l’intervista: “Non mi fari domande concettuali, giusto?”

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I libri e la maggior parte degli articoli che ho letto su di te – sono tutti molto concettuali.
Sì, ma non per volere mio.

Pensavo di dover fare domande di questo tipo.
No, cavolo, no. Questa è … [Rabbrividisce] È la cosa che odio di più.

Davvero? Ho tutte le domande scritte in questa forma che pensavo avresti preferito. Sembrano uscite da un saggio di un seminario di filosofia post laurea.
La verità è che mi sono sempre sentito intrappolato, inchiodato e tormentato da quelle domande. Roba come [legge dai miei appunti] “il tuo primo film, Paura e desiderio, nel 1953, riguardava un gruppo di soldati persi dietro le linee nemiche in una guerra senza nome; Spartacus conteneva alcune scene di battaglia; Orizzonti di gloria era un atto di accusa contro la guerra e, più specificamente, contro i generali che la dichiarano e Il dottor Stranamore era la più nera delle commedie su una guerra nucleare accidentale. In che modo Full Metal Jacket completa la tua analisi del tema della guerra? Lo fa?”. Questo tipo di domande.

È perché percepisci che la vera domanda che si nasconde dietro tutta la verbosità è semplicemente: “Cosa significa questo nuovo film?”
Esattamente. E a questo è quasi impossibile rispondere, specialmente quando sei stato profondamente immerso in un progetto per tanto tempo. Alcune persone ti chiedono di riassumerlo in cinque righe, come se lo leggessi in una rivista. Vogliono che tu dica, “Questa storia parla della dualità dell’uomo e della duplicità dei governi”. [Una descrizione piuttosto precisa del sottotesto di Full Metal Jacket, in realtà.]

C’è gente che riesce a farlo, a condensare tutto in poche parole, ma se un film ha qualche sostanza o sottigliezza, qualunque cosa tu dica non è mai completa, di solito è sbagliata, ed è necessariamente semplicistica: la verità è troppo sfaccettata per essere contenuta in un riepilogo di cinque righe.

Se il film è buono, quello che dici a riguardo di solito è irrilevante. Non lo so. Forse è vanità quest’idea che il lavoro sia più grande della capacità di descriverlo. Alcuni sono bravi a rilasciare interviste. Sono molto furbi e riescono perfettamente a evitare questa odiosa concettualizzazione. Fellini è bravo; le sue interviste sono molto divertenti. Fa solo battute e dice cose assurde che sai che non può intendere davvero. Voglio dire, sto facendo interviste per promuovere il film, e penso che aiutino, quindi non posso lamentarmi. Ma è … è difficile.

Allora parliamo della musica in Full Metal Jacket. Sono rimasto sorpreso da alcune scelte, come These Boots Are Made For Walkin’ di Nancy Sinatra. Cosa significa quella canzone?
Era la musica del periodo. L’offensiva del Têt è del ’68. Se siamo stati attenti come credo, nessuna delle canzoni dovrebbe essere post-’68.

Non sto dicendo che sia anacronistico. È solo che la musica che mi viene in mente in quel contesto è più, non so, Jimi Hendrix, Jim Morrison.
La musica è stata scelta in base alla scena. Abbiamo controllato la lista delle migliori 100 canzoni di Billboard per ogni anno, dal 1962 al 1968. Abbiamo cercato materiale interessante che si adattasse a ogni sequenza, provato un sacco di brani. A volte il range dinamico dei pezzi era troppo ampio e non potevamo lavorare su un dialogo. A un certo punto, la musica deve “venire fuori” rispetto alla voce, e se tutto quello che senti è il basso, non funzionerà nel contesto del film.

Perché?
Non ti piace These Boots Are Made For Walkin’?

Parlando sempre della musica del film, dovrei dire che sono più dalla parte di Wooly Bully di Sam the Sham, che è uno dei più grandi dischi da party di tutti i tempi. E di Surfin ‘Bird.
Un pezzo incredibile, vero?

Surfin ‘Bird arriva in seguito a una battaglia, mentre i marines atterrano con l’elicottero di soccorso. La scena mi ha ricordato Il dottor Stranamore, dove l’aereo sta facendo rifornimento a mezz’aria con quel tubo lungo e suggestivo, e la musica in sottofondo è Try a Little Tenderness. O il valzer cosmico in 2001: Odissea nello spazio, dove la navicella rotola lentamente nello spazio sulle note di Danubio Blu. E ora c’è l’elicottero e Bird.
Ciò che amo della musica in quella scena è che suggerisce l’euforia post combattimento – che vedi in faccia al marine quando spara agli uomini mentre corrono fuori dall’edificio: manca i primi quattro, aspetta un attimo, poi colpisce i due successivi. E quella bellissima espressione sul suo viso, quello sguardo di piacere euforico, il piacere di cui si è letto in tanti racconti di combattimento. Ha questo sguardo sul viso, e improvvisamente la musica parte, i carri armati si muovono e i marines decollano. Le scelte non sono state arbitrarie.

Sembra che tu abbia evitato il problema della droga in Full Metal Jacket.
Non mi sembrava rilevante. Indubbiamente i marines hanno preso droghe in Vietnam. Ma questa cosa della droga, sembra suggerire che tutti fossero tutti fuori controllo, mentre in realtà non era così. È una cosa piccola, ma guarda le foto scattate durante la battaglia di Hue: vedi marines con i loro giubbotti antiproiettile, ben allacciati. Beh, la gente odiava indossarli. Erano pesanti e caldi, e a volte li indossavano ma senza allacciarli. Le truppe più disciplinate li indossavano, perfettamente allacciati.

Come scegli il tuo materiale?
Leggo. Ordino libri dagli Stati Uniti. Vado nelle librerie, chiudo gli occhi e prendo volumi dallo scaffale. Se dopo un po’ non mi piace il libro, non lo finisco. Ma mi piace la sorpresa.

Full Metal Jacket è basato sul libro di Gustav Hasford The Short-Timers.
È un libro molto breve, bello e scritto in maniera sintetica. Come il film, lascia fuori tutte le scene obbligatorie dello sviluppo del personaggio: la scena in cui il ragazzo parla di suo padre, che è un alcolizzato, la ragazza – tutta quella roba così pesante che sembra arbitrariamente inserita in ogni storia di guerra. Quello che mi piace del non scrivere materiale originale – cosa che non sono nemmeno sicuro di riuscire a fare – è che hai questo enorme vantaggio di leggere qualcosa per la prima volta.

È un’esperienza unica per ogni storia. Hai una reazione, una specie di innamoramento. Da lì è come se dovessi decifrare un codice: dividere il lavoro in una struttura che è realistica, che non perde l’idea del contenuto o delle emozioni del libro. E inserire tutto in una cornice temporale più limitata, quella di un film. E finché puoi, devi limitare i tuoi slanci emotivi, qualunque cosa ti abbia fatto innamorare la prima volta.

Giudichi una scena chiedendoti: “Risponde al contenuto nel libro?”. Il processo è sia analitico che emotivo. Stai cercando di bilanciare il calcolo con il sentimento. E la domanda non è quasi mai “Che cosa significa questa scena?”, ma “È realistico o sembra falso?”, oppure “Questa scena è interessante? Mi farà sentire come mi sono sentito quando mi sono innamorato per la prima volta del materiale?”. È un processo intuitivo, come, immagino, sia anche scrivere musica. Non si tratta di mettere in piedi una discussione.

Hai detto quasi esattamente il contrario una volta.
Davvero?

Qualcuno ti aveva chiesto se esistesse un’analogia tra gli scacchi e il cinema. Hai detto che il processo di prendere decisioni era molto analitico in entrambi i casi, che basare tutto sull’intuizione sarebbe stata una scelta perdente.
Penso di averlo detto in un altro contesto. La parte del film che riguarda il raccontare una storia funziona più o meno come spiegavo. Nell’effettiva realizzazione del film, l’analogia degli scacchi diventa più valida. Ha a che fare con i tornei, dove hai un orologio e devi fare un certo numero di mosse in un determinato tempo. Se non ci riesci, perdi, anche se sei in vantaggio di una regina.

Prendi un grande maestro, un esperto con tre minuti sull’orologio e dieci mosse rimaste. Passerà due minuti a fare la prima mossa, perché sa che se non ottiene quello che vuole, perderà la partita. E poi fa le ultime nove mosse in un minuto. E potrebbe aver fatto la cosa giusta. Bene, nel cinema, ti toccano sempre decisioni del genere. Devi sempre mettere tempo e risorse contro qualità e idee.

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Sei noto per voler controllare ogni aspetto della produzione dei tuoi film, dalle fasi iniziali fino alla proiezione in sala. Perché ti è consentito avere tutto questo potere?
Mi piace pensare che sia perché i miei film abbiano qualità per reggere alla seconda, terza o quarta visione. Realisticamente, è perché chiedo budget entro limiti ragionevoli e i film vanno bene. L’unico che è andato male, dal punto di vista degli studios, è stato Barry Lyndon. Quindi, dato che i miei film non costano così tanto, ho trovato un modo per dedicare un po’ di tempo a garantire la qualità che arriva sullo schermo.

Sembra che la produzione di Full Metal Jacket sia durata a lungo…

Beh, siamo incappati in un paio di incidenti piuttosto seri. L’attore che interpreta il sergente maggiore Hartman, Lee Erney, ha avuto un’incidente d’auto nel bel mezzo delle riprese. Era l’una del mattino, e la sua macchina è scivolata via dalla strada. Si è rotto tutte le costole su un fianco, ferite tremende, e probabilmente sarebbe morto se non fosse rimasto cosciente ad accendere e spegnere i lampeggianti. Poi si è fermato un motociclista. È successo a Epping Forest, un posto dove la polizia trova cadaveri di continuo. Di sicuro non è un posto dove fai un giro in macchina all’una e mezza del mattino, figuriamoci fermarti a capire perché qualcuno stia lampeggiando. Comunque, Lee è stato fuori gioco per quattro mesi e mezzo.

Ma è davvero un sergente istruttore dei marine? 

Sì, nel campo di addestramento di Parris Island.

Quanto c’è della sua esperienza nel personaggio? 

Direi che il 50% dei dialoghi, soprattutto gli insulti, sono farina del sacco di Lee. Per trovare chi avrebbe interpretato le reclute, abbiamo intervistato centinaia di persone. Li mettevamo in fila e improvvisavamo la scena del primo incontro con il sergente istruttore. Non sapevano cosa avrebbe detto, e noi potevamo osservare le loro reazioni reali. Lee si è inventato qualcosa come, non saprei, 150 pagine di insulti. Cose fuori dal mondo: “Non mi piace il nome Lawrence, solo finocchi e marinai si chiamano Lawrence”.



A parte gli insulti, virtualmente tutte le cose serie che dice sono vere. “Il fucile è solo uno strumento, è il cuore di pietra quello che uccide”, lo sai che è la verità. A meno che tu non viva in un mondo che non ha bisogno di soldati, non puoi fargliene una colpa. Forse al suo comportamento manca un po’ di finezza. Ma non credo che il corpo dei marine degli Stati Uniti d’America sia il posto giusto per un sergente istruttore fine. 
Questo, comunque, è un personaggio diverso da quello interpretato da Lou Gosset in Ufficiale e gentiluomo. Credo che la performance di Gosset sia splendida, ha ottenuto il massimo dalla storia. Quello è un film che cerca di ingraziarsi il pubblico. É una cosa che fanno molti film. Fai vedere che il sergente ha un cuore d’oro – quella scena obbligatoria in cui è seduto in ufficio, i suoi occhi brillano d’orgoglio per i suoi ragazzi eccetera. Immagino che anche Hartman sia orgoglioso, ma è pericoloso cadere in quelle stronzate sentimentali.

Diffidi del sentimentalismo…

Non diffido dei sentimenti e delle emozioni, no. La domanda è diversa: “stai girando qualcosa per rendere il pubblico felice, o stai cercando qualcosa che sia vero e coerente con la storia? I personaggi si comportano come facciamo noi altri, oppure nel modo in cui vorremmo che si comportassero? Quello che voglio dire è che il mondo non è come appare nei film di Frank Capra. La gente ama quei film – che sono girati splendidamente – ma non credo dicano “la verità sulla vita”. Le domande da porsi sono sempre le stesse: “è vero? È interessante?” Preoccuparsi delle scene che la gente pensa siano fondamentali in tutti i film significa solo accontentare un certo ideale di pubblico. Alcuni film cercano di indovinare chi li andrà a vedere. Cercano di ingraziarseli, e non bisognerebbe farlo. È vero, c’è un pubblico che accorre a frotte per vedere film che non dicono la verità, ma questo non gli impedisce di apprezzare quelli che invece lo fanno.

***

Dai libri che ho letto sul tuo conto, sembra che per te la parte più importante del lavoro di un filmmaker sia il montaggio.
Ci sono tre parti ugualmente importanti: la scrittura, il lavoro duro durante le riprese e il montaggio.

Tuttavia hai citato Pudovkin sul fatto che il montaggio sia l’unica e originale forma d’arte di un film.
Credo sia così. Ogni cosa deriva da un’altra. La scrittura, ovviamente, è scrittura, la recitazione viene dal teatro e la cinematografia deriva dalla fotografia. Il montaggio, invece, è un arte propria del film. Con il montaggio riesci, ad esempio, a vedere qualcosa da differenti punti di vista in maniera quasi simultanea, e tutto ciò crea una nuova forma di esperienza. Pudovkin fa un esempio: vedi un ragazzo che appende un quadro al muro. All’improvviso mette un piede in fallo; vedi la sedia che si muove, la sua mano che scivola e il quadro che cade in terra. In quella frazione di secondo il ragazzo cade dalla sedia e tu sei in grado di vedere la scena in un modo impossibile se non attraverso il montaggio. Gli spot televisivi hanno compreso molto bene tutto ciò, infatti, se escludi il contenuti, alcuni degli esempi più spettacolari di film art si trovano nei migliori spot per la TV.

Un esempio?
Lo spot Michelob. Sono un fan del football professionista e ho tonnellate di videocassette con le partite registrate, compresi gli spot e tutto il resto. L’anno scorso Michelob mandò in onda una serie di spot, si vedevano solo le espressioni di persone mentre si divertono. Il montaggio, la fotografia, è uno dei migliori lavori che io abbia mai visto. Se ci si dimentica la ragione di quello spot – vendere birra – allora ci si trova davanti a vera e propria poesia visiva, dove in 30 secondi si riesce a creare qualcosa di infinitamente più complesso. Se sei in grado di raccontare una storia con quel tipo di visione poetics, allora sei capace di realizzare anche cose molto più complesse di uno spot.

Ci sono persone che spendono milioni di dollari e mesi di lavoro soltanto per quei 30 secondi.
È decisamente poco pratico. E credo non ci sia nulla che possa sostituire il grande momento drammatico, recitato come si deve. Tuttavia, le storie che noi rappresentiamo nei film sono irradiate nel teatro. Anche i film di Woody Allen, che sono grandiosi, sono molto tradizionali nella loro ossatura. Ho azzeccato l’anno dello spot della Michelob?

Credo di sì.
Te lo chiedo perché qualche volta mi ritrovo a guardare le partite del 1984.

Mi stupisce che tu sia un fan del football…
Perché?

Non si addice molto all’immagine che avevo di te
Che sarebbe…

Stanley Kubrick come una specie di monaco, un uomo che vive per il suo lavoro e nient’altro, certamente non il football. E poi quelle voci su di te…
Ho capito dove vuoi arrivare.

Posso parlare sinceramente?
Spara.

Si dice che Stanley Kubrick sia un perfezionista, che sia incredibilmente consumato dall’ansia per ogni aspetto di ogni suo film. Si dice che Kubrick sia un eremita, un espatriato, un nevrotico terrorizzato dalle automobili che non permette al suo autista di superare i 50 km orari.
Parte del mio problema deriva dal fatto che non riesco a smentire tutti i racconti su di me che si sono accumulati durante tutti questi anni. Qualcuno scrive qualcosa, magari è totalmente falsa, ma viene archiviata e ripetuta finché tutti ci credono. Ad esempio, ho letto del fatto che io indosserei un casco da football mentre sono in auto.

Per essere precisi, che tu non permetti al tuo autista di superare i 50 km orari e che indossi un casco da football mentre sei in auto.
Prima di tutto, non ho un autista. Guido una Porsche 928 e, quando mi capita, arrivo a toccare i 130 o i 145 km orari in autostrada.

Il tuo montatore dice che continui a lavorare sui tuoi vecchi film. Questo può essere definito perfezionismo nevrotico?
Ti dico io come può essere definito. Siamo venuti a scoprire che lo studio ha smarrito i negativi di Dottor Stranamore, così come i master della colonna sonora. Tutti i negativi erano corrotti. La ricerca è andata avanti per un anno e mezzo. Alla fine, ho dovuto provare a ricostruire l’immagine da due positivi a grana fine nemmeno troppo buoni, entrambi comunque già danneggiati. Se quelli venissero strappati, non sarebbe più possibile fare altri negativi.

***

Ti consideri un espatriato?
Dato che dirigo film, devo vivere in un importante centro di produzione di lingua inglese. E questo vale a dire che posso scegliere fra tre città: Los Angeles, New York e Londra. New York mi piace, ma è inferiore a Londra come centro di produzione. Hollywood è la migliore, ma non mi piace starci. Leggi libri o vedi film che ritraggono persone corrotte da Hollywood, ma non è nemmeno questo, è quel tremendo senso di insicurezza. Un sacco di competitività distruttiva.

A confronto l’Inghilterra sembra un altro pianeta. Cerco di stare al passo, di leggere i documenti commerciali, ma è bello averli solo su carta e non dover sentire parlare di questa roba ovunque. Penso che sia bello fare il lavoro e isolarti da quella corrente sotterranea di malevolenza.

Ho sentito dire che fai cento take per una scena.
Succede quando gli attori sono impreparati. Non puoi recitare senza conoscere bene i dialoghi. Se gli attori devono pensare alle parole, non possono lavorare sull’emozione. Quindi finisci per fare trenta take. Vedi la concentrazione nei loro occhi ma non sanno le battute. Giri e giri e speri che di poter tirare fuori qualcosa tagliando. Se l’attore è un tipo a posto, quando torna a casa dice “Stanley è un perfezionista, fa cento take per ogni scena”. Quindi i miei trenta take diventano cento, e ho questa reputazione. Se avessi fatto davvero cento take per ogni scena, non avrei mai finito un film. Lee Ermey, ad esempio, passava ogni secondo libero con il dialogue coach e conosceva sempre le sue battute. Suppongo che Lee abbia avuto una media di otto o nove take, a volte chiudeva la sequenza in tre. Perché era preparato.

Si dice che volessi approvare i cinema in cui proiettano Full Metal Jacket. Non è un esempio di ansia senza senso?
Alcune persone sono sbalordite dal fatto che mi preoccupi dei cinema in cui viene mostrato il mio film. Pensano che sia una forma di ansia folle. Ma Lucas Films ha un programma sui cinema. Sono andati in giro a controllare molte sale e hanno pubblicato i risultati in un rapporto del 1985 che praticamente conferma tutti i peggiori sospetti.

Ad esempio, entro un giorno il 50% delle pellicole viene graffiato. Di solito qualcosa si rompe. Gli amplificatori non sono buoni e il suono è cattivo. Le luci sono irregolari…

Le recensioni iniziali della maggior parte dei tuoi film sono a volte inspiegabilmente ostili. Poi c’è una rivalutazione. Sembra che i critici ti apprezzino di più a posteriori.
È vero. Le prime recensioni di 2001: Odissea nello spazio erano offensive, altro che brutte. Un importante critico di Los Angeles ha criticato Orizzonti di gloria perché gli attori non parlavano con accento francese. Quando uscì Il dottor Stranamore, un giornale di New York pubblicò una recensione dal titolo ‘Mosca non può più fare danni all’America’ o qualcosa del genere. Ma la critica sui miei film è sempre stata salvata da ciò che chiamerei la critica successiva. Ecco perché penso che il pubblico sia più affidabile dei critici, almeno all’inizio.

Il pubblico tende a non portare con sé tutto quel bagaglio. E penso davvero che alcuni critici vedano i miei film aspettando di vedere l’ultimo, e non è così. Immagino che sia come stare nella zona di battuta in attesa di una palla veloce quando il lanciatore ne tira una lenta. Il battitore oscilla, la manca e pensa: “Cazzo, ha sbagliato il lancio”. Penso che questo rappresenti bene parte dell’ostilità iniziale.

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