È un problema se mi è piaciuto ‘La ragazza più fortunata del mondo’? | Rolling Stone Italia
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È un problema se mi è piaciuto ‘La ragazza più fortunata del mondo’?

Tratto dal bestseller internazionale di Jessica Stoll, è diventato in poco tempo il secondo film più visto di Netflix. Pensavamo fosse il solito film anonimo del lunedì sera, invece – sorpresa! – ci ha fatti innamorare della storia (e sfidare il femminismo)

È un problema se mi è piaciuto ‘La ragazza più fortunata del mondo’?

Mila Kunis in una scena di ‘La ragazza più fortunata del mondo’

Foto: Netflix

A ripetizione, ogni tanto, mi viene in mente lo spot di quella macchina: «L’impressione si crea in sette secondi». Un claim molto forte per vendere una vettura, ma anche per convincerti a guardare un film. E infatti sette secondi ci sono voluti affinché, vedendo le immagini del trailer, decidessi in un anonimo lunedì sera di guardare La ragazza più fortunata del mondo, il nuovo thriller psicologico di Netflix basato sul bestseller del 2015 scritto da Jessica Stoll e pubblicato col titolo Luckiest Girl Alive. Dopo aver visto il trailer, da un lato pensi: ci sono già troppi film con l’equazione “case belle + love story + mistero” per cascarci (ormai, dopo L’amore bugiardo – Gone Girl, queste storie le ispeziono fino all’ultimo centimetro); dall’altro però dici: perché mai, insieme a milioni di sedicenni, anche qualche migliaio di persone con senso cinematografico ha contribuito a rendere questo film il secondo più visto su Netflix a ottobre? Perciò mi sono avventurato nella storia di Ani Fanelli (Mila Kunis), editor di una rivista femminile, Women’s Bible, che si sta avvicinando al matrimonio con il futuro marito Luke (Finn Wittrock), rampollo di Blackrock che, nel mentre, sta per capire se dovrà trasferirsi (con Ani) a Londra per lavoro.

Le location e il contesto del film sono facilmente intuibili: ampi scorci sulle avenue di New York, passeggiate sulla Fifth Avenue, vestiti costosi e una redazione che sembra uscita fuori dal sogno nel cassetto di una giovane studentessa di Lettere. Ani, insieme al suo capo, sta capendo se si concretizzerà il loro passaggio alla redazione del New York Magazine. Lei è specializzata in articoli su fellatio e più in generale su pratiche sessuali, indossa collane di Cartier e ha paura a prendere la metro: una (presunta) ragazza posh a 360 gradi, mixata con un po’ di girlboss guai-a-chi-tocca-il-mio-ragazzo (il tutto in salsa Mila Kunis: sguardo magnetico e seduzione a ogni passo). Ma tutto il film gioca sull’inversione dei piani e, nella sua vita perfetta, Ani ha anche un ingombrante mostro nell’armadio che condiziona il suo presente apparentemente intoccabile: l’essere una superstite (anzi, una vittima) di una sparatoria nella sua high school quando era adolescente; sparatoria nel corso della quale alcuni suoi compagni rimasero uccisi.

Un trauma passato che inizia a emergere pian piano, scena dopo scena: prima con scene con coltelli insanguinati e forchette infilzate a cena, poi con problemi sessuali, esplosioni verbali e gesti irriverenti che complicano i rapporti umani. Il trauma in questione, però – oltre a quello della sparatoria – è soprattutto quello di uno stupro, subìto prima del massacro nella scuola, e a opera degli stessi ragazzi che sono morti nell’incidente. Il silenzio di Ani sull’aggressione, insieme ad alcuni episodi sospetti legati alla sua sopravvivenza, hanno fatto sì che qualcuno dubitasse della sua versione sui fatti. E di nuovo, così, ritorna l’inversione dei piani: Ani non è più la parte lesa, ma un’ipotetica colpevole; non è più una donna con in mano la sua carriera, ma una ragazza immobilizzata dagli eventi del passato.

Lei però reagisce, ed è qui che ho capito che La ragazza più fortunata del mondo non è stata un’ora e mezza buttata via. Ani cambia: cambia la sua prospettiva del mondo, cambia idea sul matrimonio, sulla sua vita; cambiano perfino i mezzi di trasporto nonché il taglio che vuole dare all’articolo che racconta il suo stupro, e che (spoiler!) la porterà ad avere una sua foto a tutta pagina sul New York Magazine. Il plot twist, a differenza di tanti titoli da Monday Night su Netflix, è ciò che accende la storia. La fragilità della protagonista si ribalta e diventa un’impavidità che la trasforma in una vera e propria macchina da guerra: Ani abbandona la gabbia della tipa bella ma complessata per liberarsi – del suo passato, di suo marito e della sua famiglia, degli articoli sui cazzi – e vivere esattamente la vita che la rende sé stessa.

E – paradossalmente, qualcuno penserà – proprio per questo non è un film femminista. Come è ben intuibile, infatti, in una storia che mischia carriera e personalità femminili con un finale che si risolve nella piena emancipazione caratteriale e professionale della protagonista, la tematica femminista non può che iniziare a salutarci da dietro l’angolo. Non per altro, su Reddit e Twitter diversi fan sono ricorsi al MeToo per commentare il film, soprattutto in merito alla scena dello stupro di lei da adolescente, giudicata da molti eccessivamente cruenta e che, negli Stati Uniti, ha dato il via ad accesi quanto inutilissimi dibattiti sui social.

Quella femminista è solo una lettura della Ragazza più fortunata del mondo e –aggiungo io – sembra fin troppo semplicistica. Nel film lo switch caratteriale di Ani non è soltanto una presa di posizione sul mondo, ma una metamorfosi del suo personaggio in qualcosa di non scontato, una sorta di catarsi che la rende effettivamente la ragazza più fortunata del mondo. Ed è il messaggio che non ti aspetti da un film che ti propone come trailer Mila Kunis e un figaccione in camicia che passeggiano davanti alle vetrine di Cartier: il messaggio che ti fa capire che, almeno per me, non è stata una serata buttata via.