Da ‘Viale del tramonto’ a Quentin Tarantino: i migliori film su Hollywood | Rolling Stone Italia
Cinema & TV

Da ‘Viale del tramonto’ a Quentin Tarantino: i migliori film su Hollywood

Nel giorno in cui il capolavoro di Billy Wilder festeggia 70 anni, ecco la nostra selezione di titoli sul mito e la maledizione della Mecca del Cinema. C’era una volta… e c’è ancora

Da ‘Viale del tramonto’ a Quentin Tarantino: i migliori film su Hollywood

Gloria Swanson, alias Norma Desmond, in ‘Viale del tramonto’ di Billy Wilder

La storia di Hollywood è costellata di film su… Hollywood. Ma come Viale del tramonto di Billy Wilder, che proprio oggi festeggia settant’anni esatti dall’uscita, non c’è nessun altro. Forse. Perché, negli ultimi anni, sono arrivati nuovi capolavori a rinverdire il mito (e la maledizione) della Mecca del Cinema: su tutti, il folgorante C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino. Più quelli dei decenni precedenti: da Robert Altman a Martin Scorsese, da David Lynch a Tim Burton, tutti i più grandi autori si sono almeno una volta confrontati con il luogo dove comincia e finisce tutto. Tralasciando a malincuore moltissimi titoli grandi e piccoli del “genere” – dagli Ultimi fuochi a S.O.B., da È nata una stella (e relativi remake) a Get Shorty –, ecco la nostra (parzialissima) selezione.

Viale del tramonto di Billy Wilder (1950)

Il capostipite, o quasi. Prima c’erano stati altri maestri come George Cukor (A che prezzo Hollywood?, 1932) e Preston Sturges (I dimenticati, 1941) a indagare sulla Los Angeles dei provini e dei teatri di posa. Ma il capolavoro di Billy Wilder è (ancora oggi) la sintesi perfetta di tutti i film sul tema. Merito della sceneggiatura dello stesso autore e di Charles Brackett (che assegnano la parte del narratore a… un morto: cioè il meraviglioso William Holden), della performance debordante di Gloria Swanson, delle citazioni (vedi il “maggiordomo” Erich von Stroheim) che segnano il passaggio dalla Golden Age a un’età nuova. «Io sono sempre grande, è il cinema che è diventato piccolo», sospira la diva al crepuscolo. Questo cinema, invece, è grandissimo sempre.

Cantando sotto la pioggia di Stanley Donne e Gene Kelly (1952)

Il più grande musical di sempre è anche una lezione di storia del cinema, diretta da due monumenti del genere: Stanley Donan e Gene Kelly. Che, con Debbie Reynolds e Donald O’Connor, è anche il protagonista di questo take canterino e ballerino sul caos che il passaggio dal muto al sonoro ha scatenato nell’industry, e che potrebbe costare la carriera al suo Don Lockwood. Tra canzoni memorabili, coreografie sontuose (featuring anche Miss Cyd Charisse) e quell’indimenticabile numero di Kelly sotto la pioggia.

I protagonisti di Robert Altman (1992)

Hollywood come «luogo di tagliole con personaggi seduti nei loro uffici, preoccupati solo a far profitto e con nessun senso di vergogna. Nel passato si cercava un buon attore, un buon regista e un bravo scrittore, ora prima decidono come vendere un film, e una volta venduto cercano di farlo». Così parlò il grande Bob a proposito del soggetto dell’opera che lo ha rilanciato presso critici e pubblico. Il produttore Griffin Mill (John Cusack), minacciato di morte, resta una delle figure più memorabili della “fake” Hollywood. Come tutto il film, graziato da un cast esagerato: tra gli altri si vedono Greta Scacchi, Whoopi Goldberg, Sydney Pollack, Christopher Walken, Cher, Jeff Goldblum, Burt Reynolds, Susan Sarandon, Julia Roberts, Bruce Willis, quasi tutti nel ruolo di se stessi. I protagonisti, per davvero.

Ed Wood di Tim Burton (1994)

“Il peggior regista di tutti i tempi” raccontato da uno dei suoi più grandi fan: Tim Burton, come lui eccentrico e innamorato dei vecchi monster movie. Un biopic in un glorioso bianco e nero, che è anche una delle prospettive più lucide e grottesche sul dietro le quinte del mondo del cinema. Nonché una storia primordiale di creatività con una performance di Johnny Depp ispirata e naïf. Mettilo accanto a Martin Landau nei panni di Bela “Dracula” Lugosi, e sono fuochi d’artificio.

Mulholland Drive di David Lynch (2001)

Era nato come episodio pilota di una serie tv (purtroppo) mai realizzata, è rimasto uno dei film più clamorosi sul racconto dell’altra faccia di Hollywood. Un luogo (metaforicamente) colto da amnesia in cui le ragazze si fanno chiamare Rita dopo aver visto la divina Hayworth sul poster di Gilda e in cui tutti aspettano la Grande Occasione. In cambio c’è invece solo la Grande Illusione, come quella – impossibile da sciogliere – alla base del misteriosissimo intreccio del plot. Ironia o profezia, la protagonista Naomi Watts, al primo ruolo da protagonista dopo anni di provini andati a vuoto (esattamente come il suo personaggio sullo schermo), da questo momento diventerà una star.

The Aviator di Martin Scorsese (2004)

Vita, opere e miracoli (con gioie ma, soprattutto, dolori) del produttore cinematografico e pioniere dell’aviazione Howard Hughes by Martin Scorsese. Che sceglie coraggiosamente l’allora trentenne DiCaprio per dare corpo alle ossessioni del visionario magnate texano già sulla quarantina. E Leo ovviamente spacca, vedi le scene in cui dirige Hell’s Angels o quelle di disturbo compulsivo. Il resto lo fanno Gwen Stefani, Kate Beckinsale e – più di tutte – una Cate Blanchett da Oscar, nei panni glam delle donne di Hughes. Rispettivamente: le divine Jean Harlow, Ava Gardner e Katharine Hepburn. L’epica di Hollywood in volo.

Tropic Thunder di Ben Stiller (2008)

Provate a immaginare Apocalypse Now se fosse stato scritto da Borat. Ecco, Ben Stiller mette a segno la più esilarante parodia sui film di guerra di sempre, starring una Hollywood in guerra con il suo ego smisurato durante la realizzazione di un war movie costosissimo sul Vietnam, con il cast e la troupe peggiori che possiate immaginare. Il suo Tugg Speedman è una superstar muscolosa alla Rambo che però deve ancora dimostrare di saper recitare. Al contrario del Kirk Lazarus di Robert Downey Jr., cinque volte premio Oscar nel film. Che però si porta a casa anche una nomination – vera – come non protagonista.

The Artist di Michel Hazanavicius (2011)

Lo confessiamo da subito: non è uno dei nostri Hollywood movies del cuore. Ma nella lista non può mancare. Il film muto sull’età prodigiosa del cinema muto ha fatto comunque la storia. Diventando la prima produzione francese a vincere l’Oscar come “best movie” (insieme altri quattro, compreso quello al protagonista Jean Dujardin). Merito del soggetto spassionatamente americano, capace di strizzare l’occhio alla industry losangelina con riferimenti che non si contano: da Cantando sotto la pioggia, il modello dichiarato, al nome del personaggio principale George Valentin, che si rifà al celebre Rodolfo. Il jack russell “supporting” ha fatto il resto, in quella che è stata una vera conquista di Hollywood.

Maps to the Stars di David Cronenberg (2014)

Anche Cronenberg si mette nei panni dell’insider di Hollywood. Ovviamente alla sua maniera, cioè con deriva “psycho” assicurata. Sottovalutato da molti critici quando fu presentato al Festival di Cannes, è in realtà uno degli affreschi più spietati (e satirici) sulle stelle, vere o presunte: dalla diva Havana Segrand (Julianne Moore, giustamente premiata con la Palma d’oro) all’aspirante attore e sceneggiatore Jerome Fontana (Robert Pattinson), nomi splendidi attorniati dallo spettro di un vecchio enfant prodige, deliri assortiti, e pure Carrie Fisher nel ruolo di se stessa. To the stars, e oltre.

Ave, Cesare! di Joel ed Ethan Coen (2016)

Il film-sui-film dei fratelli Coen c’era già stato, e resta una pietra miliare: in Barton Fink – È successo a Hollywood, l’opera che nel 1991 li ha consacrati come autori (vedi la Palma d’oro a Cannes), mettevano in scena la magnifica parabola dello sceneggiatore ebreo interpretato da John Turturro. 25 anni dopo, eccoli tornare sul luogo del delitto, con un film forse più piccolo, ma ancora più irresistibile. Grazie a un décor che omaggia tutti i generi possibili, dal peplum al musical acquatico di Esther Williams. E alla prova collettiva di un cast scatenato: le gemelle in stile Elsa Maxwell di Tilda Swinton, la sirenetta Scarlett Johansson, il ballerino Channing Tatum. Più il “capitano” George Clooney, alias il divo Baird Whitlock: una delle sue maschere che non si dimenticano più.

La La Land di Damien Chazelle (2016)

Il jazz, un valzer tra le stelle nell’Osservatorio Griffith, un tip tap al tramonto sullo sfondo della Città degli Angeli, dove tutti i sogni possono avverarsi. O forse no. Damien Chazelle consegna il fascino senza tempo del musical hollywoodiano classico alle nuove generazioni. Grazie al pianista Sebastian e all’aspirante attrice Mia, alias la golden couple composta da Ryan Gosling ed Emma Stone, entrambi in stato di grazia. Lei canta meglio di lui (e vince l’Oscar), ma City of Stars vi resterà nelle orecchie. E nel cuore. Se alla fine del film eravate in lacrime è ok, we feel you.

C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino (2019)

Forse non c’è nessuno che adori visceralmente il cinema quanto Tarantino. Ce l’ha dimostrato una volta di più con il suo ultimo film, autentica lettera d’amore a Hollywood e al crollo delle certezze post Summer of Love e misfatti di Manson. Il cast è l’espressione della stardom hollywoodiana di oggi: Leo DiCaprio è il divo che tutti stanno dimenticando, Brad Pitt (clamoroso) lo stunt-man che divo non sarà mai, Margot Robbie la Sharon Tate che diva avrebbe dovuto diventarlo. Se solo le cose fossero andate diversamente. Ma si sa, con Quentin la Storia può essere riscritta. È il potere del cinema.

Bonus: Hollywood (2020) – disponibile su Netflix

La Hollywood che Ryan Murphy vorrebbe, un’ucronia (se la parola non fosse già abusatissima) sul sistema-cinema dei desideri: un’industry più inclusiva fin dalle sue radici, in cui colore della pelle, genere e preferenze sessuali non contano. Perché «i film non ci fanno vedere il mondo soltanto per com’è, ma per come potrebbe essere», sostiene programmaticamente il regista di origini asiatiche interpretato da Darren Criss. Tra eccessi splendidi, sequenze larger-than-life (vedi il festino a casa di George Cukor) e una sincerità di fondo (e di cuore) nel revisionismo storico, Murphy è troppo impegnato a sognare in grande per preoccuparsi dei dettagli. Ma pure quelli contano.