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A casa di Godard

Dopo un lungo corteggiamento, l’anticonformistissimo maestro ha trasferito permanentemente il suo studio – pardon, il suo atelier – alla Fondazione Prada. Imperdibile

A casa di Godard

Foto: Agostino Osio – Alto Piano. Courtesy of Fondazione Prada

A Jean-Luc Godard piacciono i tappeti persiani, ha un mouse pad a forma di gatto e usa il Leone d’oro vinto nel 1983 per Prénom Carmen come fermalibri (dei romanzi di Céline e delle sue Histoire(s) du cinéma). E per saperlo non serve più cercare di stanarlo a Rolle, il borgo svizzero sul lago Lemano in cui si è isolato da quarant’anni, ma basta farsi un giro alla Fondazione Prada di Milano dove, dal 4 dicembre, il padre della Nouvelle Vague ha trasferito permanentemente lo studio in cui monta i suoi film da una decina d’anni a questa parte. Dopo un lungo corteggiamento, Miuccia (o chi per lei) è riuscita a convincere l’anticonformistissimo maestro, che davanti ai musei ha sempre storto il naso (celebre il caos per realizzare la mostra al Centre Pompidou di Parigi nel 2006), a dire oui.

La location bien sûr l’ha scelta Jean-Luc in persona: l’atmosfera è quella di una casa pure un po’ borghese, di uno spazio di lavoro sì, ma anche e soprattutto di vita. Per arrivarci bisogna salire un paio di strette rampe di scale nella galleria Sud. Si entra in un’anticamera in cui, appoggiati a una sedia-sdraio, ci sono alcuni indumenti sportivi, una racchetta e una scarpa da tennis. All’angolo scope e secchi, sulla parete una foto gigante di Hannah Arendt e il ciak di Le Bolero fatal, il film che doveva girare il regista immaginario Vicky Vitalis in Forever Mozart. Poi una serie di piccole fotografie incollate al muro: i suoi riferimenti – Kafka e Virginia Wolf, Dostoevskij, Pirandello e Molière, Cervantes e Goethe – sì, ma pure piccoli collage di guerre, immagini di un gatto nero, di cani. Un bassotto, a essere precisi.

Jean Luc Godard. Foto: Niccolò Quaresima. Courtesy of Fondazione Prada

L’odore del signature-sigaro di Godard ha impregnato cappotto e cappello di feltro attaccati a un appendiabiti. E, finalmente, ecco lo studio, o meglio l’atelier, come preferisce definirlo lui per evocare la dimensione artigianale della sua attività di artista, Le Studio d’Orphée, come ha chiamato l’installazione: “Anch’io avevo creduto per un momento che il cinema autorizzasse Orfeo a voltarsi senza far morire Euridice. Mi sono sbagliato. Orfeo dovrà pagare”, dice in Histoire(s) du cinéma. D’altra parte per lui la storia del cinema si innesta direttamente su quella della pittura: è patremoir, patrimonio della memoria.

È tra questi tappeti che ha concepito Le Livre d’image, il suo ultimo film, vincitore del premio speciale della giuria a Cannes 2019, ed è qui che Godard vuole mostracelo, esattamente dove è stato realizzato, montato, mixato e post-prodotto. Il suo cinema si fa al montaggio: c’è la timeline di Final Cut su uno dei tre schermi, mentre sul monitor più grande scorrono le immagini e le parole, che, proprio come in Ėjzenštejn sono grandi, urlate.

È la prima volta che ci si trova tanto dentro il processo creativo all’origine di un’opera cinematografica. Eppure l’occhio continua a essere distratto dalla poltrona logora aggiustata con il nastro adesivo, dai manifesti appoggiati a terra dell’Avventura di Antonioni e di Jour de fête di Tati, dal vinile di Lotta continua, dalla scatola da scarpe che la moglie da bambina trasformò in un mini-cinema. Dalla vita di Godard, che a 89 anni appena compiuti, ha deciso che potevamo smettere di immaginarla. E ha deciso che quel mouse pad a forma di gatto potevamo vederlo pure noi.

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