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Tutto quello che non funziona in ‘Halston’

La miniserie Netflix prodotta da Ryan Murphy (ancora!) è un’occasione persa. Perché fa del ritratto dello stilista che ha cambiato la moda USA un bigino in stile Wikipedia. E Ewan McGregor è più scazzato del solito

Foto: Atsushi Nishijima/Netflix

L’effetto Wikipedia

Lo sappiamo: viviamo nell’epoca in cui bisogna spiegare tutto agli analfabeti (cioè: a tutti). L’unica modalità possibile, dal conflitto israelo-palestinese oggi di nuovo in voga sui social ai – come in questo caso – biopic televisivi, è fare “divulgazione for dummies“: poche informazioni sintetiche e messe in bell’ordine. E alla fine pure Halston, la nuova miniserie ora disponibile su Netflix sullo stilista che ha rivoluzionato l’idea di lusso in America tra gli anni ’70 e ’80, sembra un’infografica di Instagram. I personaggi (a cominciare dal protagonista Ewan McGregor) si ritrovano a declamare i cenni biografici che li riguardano come in un Bignami della moda. Non esistono più i non detti, le ellissi, le ombre da scoprire: dall’infanzia (quando confezionava cappellini a mammà) alla morte (nel 1990 per AIDS), pare di scrollare una pagina Wikipedia. Mancano solo le paroline in blu su cui cliccare.

Tu quoque, Ewan?

Ewan McGregor alias Halston con Krysta Rodriguez nei panni di Liza Minnelli. Foto: Atsushi Nishijima/Netflix

Intendiamoci: a Ewan vogliamo bene, e pure qua non sfigura. Ma, ammettiamolo, fa il minimo indispensabile per consegnare il suo ritratto di omosessuale (apriti cielo nella comunità LGBTQ: McGregor è etero!) tra tormento ed estasi, solite mossette e scazzo generale: pare che lui sia il primo ad annoiarsi, e cercare di arrivare alla fine il prima possibile. Il suo personaggio gay più riuscito e debordante resta quello di Colpo di fulmine – Il mago della truffa (2009), in cui faceva l’amante campissimo di Jim Carrey. Funziona meglio il resto del cast: da Krysta Rodriguez alias una Liza Minnelli più vera del vero all’illustratore Joe Eula di David Pittu, fino a Rory Culkin nei panni di Joel Schumacher, il regista di Batman Forever e Il cliente morto lo scorso anno che da ragazzo aveva iniziato come vetrinista e tuttofare nella “bottega” del designer.

Se questo è lusso

Halston – e questa miniserie-Wikipedia ce lo ripete fino allo sfinimento – ha rivoluzionato l’idea di lusso negli Stati Uniti, diventando in patria il primo couturier alla maniera dei grandi d’Europa (e accolto dall’Europa stessa: vedi la cosiddetta “battaglia di Versailles” del 1973, accanto a nomi come Yves Saint Laurent e Hubert de Givenchy). Benissimo. Peccato che i costumi che si vedono sfilare (letteralmente) sullo schermo sembrino usciti più da un catalogo Postalmarket che dagli archivi dell’alta moda newyorkese (anche per questo, oltre che per la sceneggiatura troppo “sesso e droga”, la vera famiglia dello stilista non ha gradito). Al confronto, la nostra Made in Italy – la serie sulla nascita del fashion milanese: non vediamo l’ora che arrivi la seconda stagione – pare un filologico défilé di Miuccia Prada.

Il ryanmurphismo

Ewan McGregor/Halston allo Studio 54. Foto: Atsushi Nishijima/Netflix

Dopo sette (!) titoli prodotti o diretti tra film e serie nel 2020, quest’anno Ryan Murphy ne ha già pronti almeno cinque: Halston è il primo. Diciamo che lo showrunner sta onorando il contratto milionario stipulato con Netflix a dovere, forse pure troppo. Qui scrive e produce (la regia è di Daniel Minahan), ma il suo tocco anche visivo si vede eccome: dalle inquadrature all’idea di storytelling, ormai il ryanmurphismo è un sottogenere a sé. Con i suoi indubbi pregi (aver reso il mondo queer uno sfondo “largo” per storie destinate a una platea sempre più generalista: vedi, soprattutto, Pose) e i suoi ormai evidentissimi difetti. Più di tutti, uno spessore sempre più sottile (per non dire scarso) nelle storie raccontate, nei personaggi ritratti, nello stile messo in scena. Ryan, forse è arrivata l’ora di prendersi una vacanza.

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