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‘The Umbrella Academy 2’, Let’s Do the Time Warp Again

I supereroi più disfunzionali della serialità devono vedersela con l'Apocalisse. Di nuovo. E la serie, tratta dalla graphic novel di Gerard Way dei My Chemical Romance, resta uno dei titoli più eccentrici e cool di Netflix

Foto: Netflix

Quando vai sul set di un film o di una serie, spesso capita che a quel titolo poi ti ci affezioni. E, altrettanto spesso, oltre a carpire i segreti di quella produzione, ne capisci anche il potenziale valore, che può o non può coincidere poi con l‘effettivo successo commerciale o di visualizzazioni. A me con The Umbrella Academy è successo esattamente questo. Era il 2018 a Toronto, nel West Stage degli studios dove hanno girato pure The Handmaid’s Tale. E, appena scesi dal bus, mentre facevamo colazione avvolti dalla leggera nebbia che serviva a dare un look più cinematografico alle immagini, era già chiarissimo che la serie, tratta dalla graphic novel di Gerard Way dei My Chemical Romance e Gabriel Bá, aveva qualcosa di inafferrabilmente cool, unico, singolare. Insomma, era una figata.

E in effetti, dopo il rilascio della prima stagione, lo show era – numeri di Netflix alla mano – uno dei titoli più popolari di Netflix (secondo i loro altrettanto inafferrabili calcoli). Eppure in Italia se n’è parlato pochino, probabilmente anche a causa degli scarsi sforzi di marketing della piattaforma, che non ha certo dedicato alla serie lo stesso martellamento pubblicitario di hit come Stranger Things e simili. Ora che è arrivata la seconda stagione (dal 31 luglio sempre su Netflix), la storia purtroppo un po’ si ripete. Ma facciamo un passo indietro, ché bisogna per forza partire dall’abbecedario.

The Umbrella Academy segue una famiglia disfunzionalissima di supereroi. “Chepppalle”, direte, “ancora?!. Il fatto è che prima che fuori dall’ordinario, i protagonisti sono misfits pieni di ansie e desideri, traumi e dolori, ben oltre il canone “supereroi con superproblemi” di Stan Lee, più umani degli umani. Sono in sette, nati inspiegabilmente (insieme ad altri 36 bambini) da donne non collegate tra loro che non mostravano alcun segno di gravidanza il giorno prima, e sono stati adottati dall’estroso (e abusivo) miliardario Reginald Hargreeves, identificati con dei numeri – Numero Uno, Numero Due… – e preparati a salvare il mondo. C’è il good guy che ha il complesso paterno all’ennesimo potenza, la macchina per uccidere che è prima di tutto un mummy’s boy, la ragazza che ha usato il suo potere per diventare un’attrice famosa, il tossico anarchico che parla con i morti, il killer che ha oltre mezzo secolo intrappolato nel corpo di un 15enne, quello che ha dei mostri dentro (letteralmente) e la violinista che ha sempre pensato di essere “diversa” dai fratelli adottivi.

Già nella prima stagione avevano dovuto vedersela con l’Apocalisse, che li ha seguiti nel loro salto spazio-temporale: sono stati catapultati a Dallas in anni diversi e si sono ritrovati finalmente insieme nel 1963, qualche giorno prima dell’uccisione di John Fitzgerald Kennedy. Ora dovranno impedire che tutto finisca. Di nuovo. Per dirla alla Rocky Horror, “Let’s Do the Time Warp Again”. Il primo episodio si apre con il botto e con una delle sequenze action più spettacolari della tv di quest’anno, con la solita colonna sonora pazzesca: da Right Back Where We Started From di Maxine Nightingale a My Way di Frank Sinatra. Sì, il time warp è anche musicale: da Aretha Franklin a Sam Cooke e i Kiss, ma pure i Backstreet Boys (!), gli Gnarls Barkley e un remix wow di Wicked Game. Ah, poi ovviamente c’è un singolo inedito di Gerard Way, Here Comes the End. I brani come sempre fanno parte integrantissima di una sceneggiatura sempre meravigliosamente estrosa, che riesce ad alleggerire il tono senza perdere il suo nucleo emotivo, dando così ai super fratelli materiale per crescere, farti ridere e farti scendere la lacrimuccia mezzo secondo dopo. C’è anche spazio per l’ormai immancabile riflessione sociale, tra la guerra del Vietnam, l’essere gay o neri negli anni ’60 (senza mai però arrivare a toccare le vette di Watchmen sul suprematismo bianco) e la difficoltà di rimanere sobri, ma sempre senza perdere quel piglio irriverentemente ironico e grottesco. Non ci sono molti titoli che riescono a essere politicamente scorretti (che, di questi tempi, pare davvero aria freschissima) e attenti alla diversity nello stesso tempo. The Umbrella Academy può.

Un universo eccentrico e vibrante, con un cast centrato davvero centrato. Quando vai sul set di un film e chiacchieri con i protagonisti infatti, spesso capisci anche subito chi saranno gli MVP tra gli attori. E questa seconda stagione conferma la prima impressione una volta di più: se il nome più forte sulla carta era quello di Ellen Page, Robert Sheehan (già Nathan in Misfits), aka Numero Quattro, aka Klaus, il tossico che interagisce con l’aldilà e qui usa il suo potere per diventare il leader di un culto, è da antologia. E Aidan Gallagher, aka Numero Cinque, è semplicemente perfetto nei panni dello stronzetto saggio che ne ha viste fin troppe anche se fisicamente sembra un adolescente. Let’s Do the Time Warp Again. And Again. And Again.

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