‘The Sandman 2’ ci ricorda perché raccontiamo storie (e perché ne abbiamo bisogno) | Rolling Stone Italia
Tales and adventures are the shadow truths

‘The Sandman 2’ ci ricorda perché raccontiamo storie (e perché ne abbiamo bisogno)

“Le cose non hanno bisogno di accadere per essere vere” (cit. Morfeo). È la poetica del Sogno, ed è quello che rende il fumetto cult e la serie diversi da qualsiasi altro fantasy in circolazione

‘The Sandman 2’ ci ricorda perché raccontiamo storie (e perché ne abbiamo bisogno)

Tom Sturridge (Morfeo) in 'The Sandman 2'

Foto: Netflix

Things need not have happened to be true”, tradotto molto liberamente: le storie, pur se di fantasia, possono risuonare anche più dei fatti nel loro impatto e nelle verità che trasmettono sulla condizione umana. Lo dice Morfeo, lo dimostra ogni inquadratura di questa seconda stagione (o meglio, della prima metà) di The Sandman. È una frase che meriterebbe di essere incisa sulla soglia di ogni biblioteca, teatro e sala di montaggio: “Le cose non hanno bisogno di accadere per essere vere. Le fiabe e le avventure sono verità d’ombra, destinate a durare quando i semplici fatti saranno polvere e cenere e oblio”.

Eccola, la poetica del Sogno. Ecco cosa rende The Sandman diverso da qualsiasi altro fantasy in circolazione: il rifiuto del realismo, il rifiuto della logica, il rifiuto della cronaca come unica forma di verità. Qui conta solo l’immaginazione. O meglio: qui l’immaginazione è tutto. Non come fuga, ma come fondamento. Perché se c’è una cosa che la seconda stagione della serie Netflix (tratta dall’omonima serie cult a fumetti) ci ricorda, è che non c’è nulla di più reale di un sogno che ci perseguita anche da svegli.

Prima di continuare, lo diciamo chiaramente: non ci occuperemo in questa sede delle gravissime accuse di violenza sessuale rivolte nei mesi scorsi a Neil Gaiman, l’autore originario di Sandman. Non perché non contino (contano ECCOME), ma perché qui vogliamo parlare dell’opera e del suo adattamento. Come ha dichiarato David S. Goyer, co-creatore della serie, a Variety: «Personalmente non avevo mai avuto il minimo sentore della situazione. E quando è uscita la notizia, mancavano tre settimane alla fine delle riprese, eravamo già molto avanti. Neil non era coinvolto in questa stagione come lo era stato nella prima. Ovviamente è complicato. Ho grande rispetto per le donne che hanno il coraggio di farsi avanti. E tutto questo mi preoccupa. Ma Netflix ha pensato: “Abbiamo lavorato due anni, ci sono attori, registi, sceneggiatori… Se non la mandiamo in onda, non saranno neanche pienamente retribuiti”. E così abbiamo deciso di lasciar parlare la serie». E ha concluso: «Ma sarei pazzo a dire che non è stato strano». E strano, in effetti, lo è. Ma anche necessario. Perché The Sandman, come sogno collettivo, è più grande di chi l’ha scritto.

La seconda stagione riprende esattamente da dove ci eravamo lasciati. Il Signore dei Sogni, interpretato da Tom Sturridge (che resta veramente un casting made in heaven, sempre più angelicato e ferino), è tornato sul suo trono, ma ha scoperto che persino i sogni hanno conseguenze. Dopo aver riconquistato il suo regno, Morpheus deve affrontare il vero abisso: quello dentro di sé. Queste nuove puntate – sei in tutto, prima parte di una stagione che verrà completata nel prossimo mese – alzano l’asticella e abbassano la voce. C’è meno action e più elegia, meno spiegazioni e più evocazione. È una serie che chiede allo spettatore di rallentare, di ascoltare, di perdersi.

The Sandman: Season 2 | Official Trailer | Netflix

In un panorama seriale che ha spesso scambiato il fantasy per una scusa per la guerra, The Sandman è ancora l’unico prodotto capace di restituire al genere la sua essenza: l’allegoria, la metafora, il mistero. I nuovi episodi sono una suite di racconti che ondeggiano tra inferni interiori e malinconie cosmiche, apparizioni divine e dilemmi troppo umani. Si va dalla tragica storia d’amore tra Dream e la regina Nada (Umulisa Gahiga, anche se qualche dinamica qui è stata modificata) al ritorno di Lucifero (Gwendoline Christie, sempre più caravaggesca), dal delirio di Delirio alla ricerca del fratello perduto Distruzione, con una guest star che non sveliamo. Anzi, sì, ché tanto ormai è ovunque: Jack Gleeson, aka colui che in Game of Thrones ha interpretato Joffrey Baratheon talmente bene da essere odiatissimo dal pubblico e aver così voluto abbandonare la recitazione per un po’. Qui è uno strepitoso Puck di Sogno di una notte di mezza estate (chi sa, sa).

Ogni episodio è un’opera a sé, ma anche parte di un ordito più vasto che ha il coraggio di restare incompiuto, ellittico come un sogno che si dissolve al risveglio. L’equilibrio estetico di The Sandman non è solo la fotografia onirica, i costumi barocchi, la colonna sonora che sembra provenire da un’altra dimensione (merito di David Buckley), è il modo in cui tutto questo viene messo al servizio del senso: ogni scelta visiva è simbolo, ogni gesto è un’eco di qualcosa che non possiamo nominare, ma che riconosciamo nel profondo. Anche se, e va detto, il budget pare certamente ridotto rispetto alla prima stagione (vedi il make-up un po’ emo-cheap di Dream).

Sandman continua a ricordarci che le storie sono uno specchio deformante, ma necessario. E che la verità, quella in cui ci riconosciamo, non sta per forza nei fatti, ma possiamo ritrovarla anche, potentissima, nelle fiabe. Come quella di Orfeo, figlio di un dio e di una musa, che qui viene narrata con una grazia e una ferocia che nessuna rivisitazione moderna aveva osato. Morpheus, nel dover fare i conti con le proprie colpe, diventa davvero tragico. Ed è proprio nel confronto con Orfeo, nel loro straziante dialogo padre-figlio, che la serie tocca uno dei suoi apici: la consapevolezza che il dolore non redime, ma rivela.

Foto: Netflix

La scelta di dividere la stagione in due parti può sembrare una mossa commerciale, ma in realtà si accorda bene con il ritmo interno della serie. Questi sei episodi sono un preludio, una danza lenta prima del precipizio. La vera guerra (quella cosmica, quella morale) deve ancora arrivare. Ma nel frattempo, ci viene chiesto di contemplare, di accettare il tempo lento della trasformazione, di fare pace con l’incompiutezza.

E se Morfeo appare sempre più umano, è anche grazie al lavoro silenzioso e potentissimo degli attori che lo circondano. Kirby Howell-Baptiste torna nei panni di Morte e ruba ogni scena con la sua dolcezza e saggezza spietate, Mason Alexander Park è una Desiderio sempre più carnale e serpentina, Esmé Creed-Miles una perfetta e fragilissima Delirio. E Jenna Coleman as l’occultista Johanna Constantine è il vero nucleo umanissimo della storia. Il cast è corale, vario, magnetico: non soltanto una concessione alla diversity, ma una scelta necessaria per raccontare un mondo fatto di archetipi e contraddizioni.

In fondo, guardare The Sandman significa accettare che i veri protagonisti siamo noi che leggiamo, guardiamo, sogniamo, che crediamo nelle storie non perché siano accadute, ma perché ci spiegano chi siamo. “Tales and adventures are the shadow truths”, dice Morpheus. E allora ben vengano le ombre, se servono a vedere meglio il sogno, se ci aiutano a capire la veglia. Ben venga The Sandman, ancora una volta, a ricordarci che il mondo può essere cupo, ma non è mai privo di senso. Finché ci saranno storie da raccontare. E sognatori disposti ad ascoltarle.