‘The Last of Us’ è finita, e manco io mi sento troppo bene | Rolling Stone Italia
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‘The Last of Us’ è finita, e manco io mi sento troppo bene

La serie postapocalittica starring Pedro Pascal che ha battuto ogni record s'è appena conclusa, ma i dilemmi etici e morali che ha sollevato non sono destinati a placarsi. Uno su tutti: voi sareste in grado di sacrificare la persona che amate per dare a chiunque l’opportunità di salvarsi?

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Joel (Pedro Pascal) ed Ellie (Bella Ramsey) nell'episodio finale di 'The Last of Us'

Foto: Sky Atlantic

Vorrei tanto trovare un difetto a The Last of Us, un qualcosa che non ha funzionato, una qualche debolezza per fomentare una polemichetta da quattro soldi, ma la verità è che no, non ne ho scovato manco uno. La serie di Craig Mazin e Neil Druckmann firmata HBO, adattamento televisivo dell’omonimo videogioco del 2013 sviluppato dallo studio statunitense Naughty Dog – il cui ultimo episodio è andato in onda il 13 marzo su Sky Atlantic – ha battuto ogni record e spazzato via ogni critica o dubbio, ricevendo un «plauso universale» secondo l’aggregatore Metacritic. Nonostante la concomitanza con la notte degli Oscar, il finale di stagione Look for the Light è stato visto negli Stati Uniti da 8,2 milioni di telespettatori, e il fatto si commenta da sé.

Perché stare qui a scriverne, dunque, avendolo già ampiamente fatto in occasione di Long, Long Time, quella terza puntata che m’ha fatto versare tutte le lacrime che avevo in corpo. Chiunque mi conosca sa che, appena m’imbatto in una serie che mi prende parecchio (vedi alla voce Euphoria), divento monotematica e per un certo periodo parlo soltanto di quello: The Last of Us non fa certo eccezione, e ormai non conto nemmeno più gli aperitivi e le cene dove mi sono dilungata a discuterne la bellezza ammorbando i miei commensali. Ciò che m’ha colpito – per non dire scioccato – guarda caso quando il mio interlocutore era una persona parecchio più giovane di me, era la convinzione di costui o costei che si trattasse di «una semplice storia di zombie».

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Foto: Sky Atlantic

Che poi, già su “semplice” avrei molto da dibattere, ma non è tanto questo il punto. Che qualsiasi film o serie televisiva postapocalittica racchiuda una metafora più o meno potente e lampante della società mi pare quasi scontato, ed ero certa che in The Last of Us ciò fosse lapalissiano sia per i gamer che hanno trascorso notti insonni davanti alla PlayStation, sia per coloro che per la prima volta s’affacciavano al mondo distrutto dal Cordyceps e al lungo viaggio di Joel (un Pedro Pascal ormai consacrato alla gloria eterna) ed Ellie (Bella Ramsey). Eppure sbagliavo io, che mi perdevo in discorsi articolati su oppressi e oppressori, sul controllo della paura, su leader carismatici che esercitano il potere appigliandosi talvolta alla fede, talvolta a una forma elementare e distorta di giustizia costruita su misura, che replica per filo e per segno la legge del taglione.

Di fronte a me, occhi sgranati e mezze frasi – «Dici? Non ci avevo pensato, però hai ragione» – che mi confermavano un vecchio adagio a cui non m’abituerò mai, ossia l’impossibilità da parte della stragrande maggioranza della gente di cogliere qualsiasi sottotesto, vuoi per pigrizia, vuoi proprio per mancanza di mezzi, riferimenti, di capacità di astrazione. Seguiamo la narrazione (avvincente, stupefacente, visivamente ineccepibile) di un’epidemia scatenata da un fungo che, a causa del surriscaldamento globale, muta e viene trasmesso agli esseri umani attraverso farine e zuccheri trasformandoli in zombie quasi senza porci interrogativi, sicuri che il succo risieda nella CGI pazzesca e nell’indiscutibile bonaggine di Pedro Pascal.

Nessun salto logico, nessun parallelismo, nessun pensiero laterale, niente di niente: l’importante è solo staccare il cervello e cullarsi nel vuoto pneumatico godendo dell’immediatezza e dell’ovvietà, lasciando anche quel minimo sindacale di fatica fuori dalla porta. Che poi, aperta parentesi, sembra che si stia dissertando de I fratelli Karamazov, pure io mi sento vagamente a disagio a dover specificare l’ovvio cianciando di un prodotto televisivo – chiusa parentesi.

L’ultima cosa da aggiungere, saltando di palo in frasca, è relativa a una considerazione fatta da David Sims su The Atlantic, che – da appassionato giocatore del videogame – sostiene di aver tastato con mano il grande limite della serie, ossia il fatto di non essere protagonista in prima persona del dilemma etico che assale Joel sul finale. In breve, se nel videogioco sei tu con il tuo joystick a dover decidere di salvare Ellie a discapito dell’umanità intera, con il travaglio interiore che ne consegue, quello stesso travaglio interiore nella serie televisiva viene trasmesso sì fedelmente, ma allo stesso tempo solo parzialmente.

Foto: Sky Atlantic

Va da sé che vederlo non può essere paragonabile a “interpretarlo” – e qui occorrerebbe un’ampia digressione sulla nostra capacità d’immedesimazione quando, da gamer, ci caliamo nei panni di un personaggio –, ma la scelta di Joel porta comunque con sé una serie di dubbi e domande di fronte alle quali non è possibile restare indifferenti. Mi metto sul banco degli imputati io per prima, che accuso la società attuale di un crudele individualismo che le ha fatto perdere di vista i concetti di collettività e di bene comune: sarei in grado di sacrificare una persona a cui mi sento profondamente legata per dare a tutti l’opportunità di salvarsi? Sarei capace di anteporre il suddetto “bene comune” al mio bene personale? Preferirei vivere in un mondo libero che ha un vaccino contro un’epidemia mortale, però sola, oppure sarei disposta a sopportare gli zombie, la paura di morire da un momento all’altro, la dittatura, consapevole di avere affianco colui o colei che amo? La risposta, ahimè, la conosco, e non cambia né da giocatrice, né da spettatrice: penserei a me stessa, e un po’, leggendo queste parole, mi faccio schifo.