***Attenzione: contiene spoiler della quarta stagione di The Bear***
“And you are young and life is long, and there is time to kill today“. Così cantavano i Pink Floyd, i giovani ammazzano il tempo, anche se, girando la frase perversamente, si potrebbe leggere: oggi c’è tempo per uccidere. Per la cucina il mantra sarebbe: i cuochi ammazzano al lunedì e non al sabato, dato che di solito sono di turno. Ecco: è arrivata la nuova stagione di The Bear, la quarta (su Disney+), e sembra un enorme, unico lunedì.
Every second counts, lo sappiamo, ogni secondo può segnare il successo o il fallimento. Il tempo è sempre stato centrale nello show con Jeremy Allen White creato da Christopher Storer. Era il tempo che serve a deglassare, a impiattare, a pensare e provare una ricetta, a servire al tavolo. Un tempo di servizio e al servizio, una cosa pratica, mica dell’anima. Il lavoro di cucina era applicato per pensare ad altro o proprio non pensare, esattamente come quel famoso cameriere descritto del filosofo Jean-Paul Sartre: dimenticarsi di sé. Eseguire nel tempo dell’orologio senza vivere nella durata dell’esistenza (con termine, invece, di Bergson).
Ecco: la quarta stagione di The Bear inizia con un orologio che gira all’inverso, un countdown. Lo zio Cicero (Oliver Platt) sta per tagliare il rubinetto. I conti girano male, e la recensione tanto attesa del ristorante (sempre The Bear) è stata più negativa che positiva: la proposta tirata su da Carmy sarebbe inconcludente, senza una direzione precisa. Perciò Cicero sta perdendo la voglia: dodici settimane, calcolate in secondi come legge del taglione, per risollevare le sorti. Altrimenti, auf Wiedersehen. Regole chiare, no?
Sì, certo, la missione è limpida e ci proveranno. Quello che però nella prima stagione della serie, con i personaggi della prima stagione della serie, avrebbe fatto scattare un putiferio – leggasi: montaggio da attacco d’ansia, urla, schizzi di sugo, fuoco e letterali fiamme; tutto ciò che ci aveva catturato alla prima messa in onda – ora trasforma la gang in esistenzialisti. Pronti a rivendicare una propria durata, un tempo interiore: tempo per te e tempo per me, e tempo per cento indecisioni, e per cento visioni e revisioni, prima di sederci con un toast e il tè, traducendo abbastanza male The Love Song of J. Alfred Prufrock di T.S. Eliot.
Carmy, allora, è pronto a percepire il vuoto: «Ho paura del contrario del caos». «Della pace?», suggerisce Claire (Molly Gordon), dopo che sì, spoiler ma no, tanto avete già visto tutte le puntate, i due si sono riavvicinati. Ed è in quella calma che dovrà imparare a sguazzare, interiore prima di tutto. Come dice un certo-bono-di-Copenhagen-tornato-sulle-scene (il nome completatelo voi), in cucina «cominci a funzionare a meraviglia sotto pressione, e prima che tu possa accorgertene non vedi l’ora del prossimo giro. Hai bisogno di quella pressione. Poi la sfida diventa: riesci a vivere senza quella pressione?». Ne parla con Tina (Lina Colón-Zayas) mentre questa – tornata nelle retrovie narrative dopo i (begli) exploit delle stagioni precedenti – si allena forsennata per riuscire a chiudere uno dei primi del ristorante in meno di tre minuti (perché ogni secondo conta). Evidentemente non c’è carestia di grandi frasi memabili e riproponibili in mille salse, no, nemmeno in questa stagione.
E Sydney, ovvero la sempre più brava Ayo Edebiri? Eh, quanto tempo le servirebbe, tra decisioni e indecisioni. L’offerta di lavoro di Shapiro pende come una spada di Damocle, pò esse fèro o pò esse piuma; un’improvvisa chiamata dall’ospedale la obbliga a fare i conti con affetti tenuti troppo a lungo da parte; e, infine, è pronta a osservare la sua relazione con Carmy dalla giusta distanza. Ne riconosce l’importanza, la co-dipendenza basata sulla sofferenza che i due condividono, il fatto che lo chef sia un capo terribile e allo stesso tempo una persona a cui si è legata con un laccio karmico.
Richie (aka Ebon Moss-Bachrach)? Non canta più Taylor Swift, però ha capito che ha dei pilastri, dove pensava di collocarsi su un traballante ponte tibetano. La ex Tiff (Gillian Jacobs), di cui, come in tutte le famiglie allargate, deve sopportare il ri-matrimonio; la figlia Eva, i colleghi, il ricordo del migliore amico Mikey che si ristruttura a poco a poco, ricreando una fedeltà ignifuga, una relazione che va oltre il sangue.
Infatti, e come nelle tragedie shakespeariane, meno male che il fool, il giullare comunque arriva, ed è proprio l’ecosistema-Berzatto a fornire il controcanto più gradito alle paturnie di tutti questi che stanno ai fornelli (qui un utile albero non-proprio-genealogico spiegato per bene, per non perdersi). Ah, dimenticavo: Marcus (Lionel Boyce). Il pastry chef ritrova il suo pal Luca (Will Poulter) e continua la sua scalata verso piatti sempre più elaborati. Per strada però lascia il padre, desideroso di un contatto che lui non sembra interessato a concedergli. Nota a margine: Boyce, insieme a Edebiri, è autore di uno degli episodi già più amati della stagione e probabilmente della serie tutta.
Che poi però, attenzione: in che senso “tutta”? In mancanza di notizie ufficiali, il futuro si predice con quello che si ha. E ciò che abbiamo per le mani sono un mucchietto, non esteso ma consistente, di fili di trama svolazzanti. Chi è l’avventore solitario particolarmente deliziato da una cena al ristorante? Marcus e Syd hanno davvero guadagnato millemila punti aura solo per vedersi interrotti de botto, senza senso i loro percorsi professionali? È sufficiente per Carmen mollare le redini del The Bear (ops, mega spoiler, ma tanto vi avevo avvertito all’inizio) e dirsi done con la cucina? È possibile? Ma poi tutto il successo che stanno avendo i panini con the original beef of Chicagoland, nel take away operato da Eb (Edwin Lee Gibson)? E davvero non avremo mai uno spin-off con Donna (Jamie Lee Curtis) come supervillain scritto e diretto da Ti West?!?
Ai posteri l’ardua sentenza. Quello che posso mettere in fila io, al termine di una stagione con così tanto cuore che a volte credevo scivolasse nel raiunismo (ma anche tanti grandi momenti che mi hanno fatto dire: provo una sensazione simile al godimento fisico), sono al massimo due osservazioni pratiche.
La prima: io, al The Bear con il menu di Carmy, non ci vorrei mangiare mai. Perché fare un piatto “perfetto”, come spesso vengono definite le portate nella quarta stagione, cioè gustoso, ben bilanciato, tendenzialmente non pesante al palato e con uno o due ingredienti “elevati”, è piuttosto semplice e non racconta nulla di nuovo. Una grande cena assomiglia a una conversazione lunga e intrigante (la scrittrice Helen Garner usa questa metafora per una grande scopata, gliela rubo): quello che ti porti a casa supera gli “abbinamenti riusciti” o i “contrasti di sapori nuovi”. I piatti che si sono visti in The Bear, a essere sincera, non mi intrigano. E anzi corroborano e validano la chiacchierata estetica da foodpornari dei social: cose pulite, croccantine, via dicendo. Continuiamo a dire che il fine dining è morto, ma a livello ideologico (perché impostare un ristorante e proporre un certo menu è una visione del mondo) mostra sana e robusta costituzione.
Tutto un affare diverso per quei panini strabordanti di carne che infatti hanno un breve flash anche ai tavoli del ristorante. Quella è l’arte della gioia, e se avessi dovuto salvare io un ristorante messo malaccio, be’… aspettate, mi si è un attimo impigliato il cappello da impresaria della ristorazione (quale non sono).
La seconda cosa: The Bear è una grande serie tv. È una grande serie tv che riafferma la lezione di Anthony Bourdain: chi lavora in cucina è un capro espiatorio e, nel sacrificio che attua, ha qualcosa di cristologico. È una grande serie tv che spesso fornisce poche giustificazioni a ciò che mette in atto: su internet circolano già i meme sugli “sguardi fissi nel vuoto” dei personaggi, accompagnati da una colonna sonora sempre vincente, e sulle incredibili realizzazioni che avvengono nella mente dei loro protagonisti come fulmini tra i neuroni. Che devo dire, hanno ragione: è materiale memabilissimo. The Bear è una grande serie tv che, progredendo, ha scelto le strada dell’assoluzione plenaria, privandoci di un cattivo tangibile visto che tutto il “male” è conflitto interiorizzato. Vi ricordate This Is Us? Una grande serie tv che, proprio come The Bear, a un certo punto, mentre la storia si slabbrava agli angoli, ha cominciato ad assomigliare a una lunga sessione di psicoterapia (il termine in voga è questo). Solo che poi i personaggi non vanno mai in terapia. Solo che poi quelli ad andarci dovremmo essere noi. The Bear potrebbe continuare all’infinito. E diventerebbe sempre più una lunga, lunga seduta di psicoterapia.
Per ora che serve? Tempo, tempo, solo tempo. Tempo magari di rivedersela d’un fiato e riconsiderare il fenomeno che è diventato. Per il lancio di questa quarta stagione sono stata invitata a un evento organizzato a Milano da Disney+, The Fork e Identità Golose: l’esperienza di cena era una traversata attraverso alcuni dei piatti (o a essi simili) che avevamo incontrato fino a quel punto. Il fatto che a un certo punto ci siano state fornite delle cuffie attraverso le quali suonava Love Story di Taylor Swift, e che io, pur provando sostanziale antipatia per la musica della popstar americana, abbia avuto una scarica di commozione pensando a Richie deve voler dire qualcosa, solo che non so bene, ancora, cosa.
Il tempo serve per uccidere e creare, così scriveva sempre T.S. Eliot nella Lovesong. Anche noi avremo bisogno di tempo per uccidere The Bear, se questo vorranno gli showrunner o le case di produzione. Ora però si è fatto tardi, vado a ordinarmi un panino.