Lo ammetto, forse mi era un po’ scesa, l’hype era sfumato, probabilmente in parte per l’attesa che sembrava non finire mai. Eppure quando a Hawkins hai la fortuna di esserci stato (ad Atlanta, vabbè), hai camminato nello scantinato dei Wheeler, visto il capanno distrutto di Hopper, assistito a Eleven che affronta il Mind Flyer nel mitico Starcourt Mall, basta poco, pochissimo per riaccendere il fuoco. E altro che fuoco, la prima parte della quinta stagione di Stranger Things (dal 27 novembre su Netflix) parte con una fiammata. Resta da vedere se si trasformerà in incendio con il secondo capitolo (fingers crossed).
Partiamo dalla preoccupazione maggiore: sì, i fratelli Duffer azzeccano quasi tutte le cose importanti perché, a differenza di altri (non facciamo nomi: Game of Thrones, ops) hanno sempre saputo dove volevano andare a parare. E questi nuovi episodi, al netto del gigantismo produttivo, dei tempi dilatati e dei meme sul cast che ormai potrebbe fare da tutor ai propri personaggi, arrivano con un’urgenza nervosa, come se i bros. della serialità avessero finalmente liberato la valvola di una pressione durata anni. E ci arrivano con la vitalità che abbiamo imparato a conoscere, un’energia Eighties che ormai ha metabolizzato i suoi riferimenti, tanto da diventare a sua volta modello. È sempre stata la loro forza: fare nostalgia senza essere nostalgici, costruire qualcosa che è familiare ma che sembra ogni volta nuovo.
Siamo nell’autunno 1987, sono passati quattro anni dall’inizio della storia, anche se, nella vita reale, ne sono trascorsi una decina: praticamente un giorno sullo schermo vale quanto una corsa di Holly e Benji da porta a porta (scusate il riferimento millennial, ma rende perfettamente l’idea). Hawkins è ormai “diventata” il Sottosopra: un territorio corrotto, contaminato, dove il confine tra i due mondi non esiste più, perché è tutto un unico, enorme campo di battaglia. I nostri eroi sono tutti (e intendo proprio tutti: da Joyce a Hop, da Steve a Nancy, da Mike a Dustin; “restiamo uniti” per dirla con Gianni Morandi) concentrati sullo stesso obiettivo: rintracciare Vecna, evaporato nel nulla come un’ombra con un piano troppo grande per essere intuito. Nel frattempo il governo ha trasformato la città in una zona rossa e rimesso Eleven nel mirino. E, mentre l’anniversario della scomparsa di Will si avvicina, Hawkins sembra trattenere il fiato.
Se il primo impatto davanti alla quinta stagione in effetti è un po’ uno shock temporale (leggi i ragazzini non sono più ragazzini), i Duffer giocano apertamente con questo straniamento. Non cercano più l’illusione dell’infanzia e decidono invece di spingere sul coming of age, trasformando l’imbarazzo della crescita in un elemento narrativo. E funziona, perché si prendono davvero il tempo per raccontare l’espansione emotiva dei personaggi, a partire da quella di Will Byers feat. l’interpretazione più vulnerabile e consapevole di Noah Schnapp: il ragazzo che un tempo era la vittima designata del Sottosopra ora cerca il proprio posto nel mondo con la stessa paura e lo stesso coraggio con cui affronta i mostri reali. Anche grazie alla saggezza tenera e imperfetta di Robin (We love you Maya Hawke, lo stesso vale per Joe Keery).
Lungo il percorso, i Fratelli (anche alla regia di tutti e quattro gli episodi) riescono a tenere insieme le linee narrative senza farle esplodere. E il ritmo è quello di un romanzo corale che torna a concentrarsi sulle relazioni mentre i protagonisti provano a combattere l’apocalisse: ci sono amori sospesi (per i motivi più disparati), triangoli inevitabili, rapporti familiari complicati, amicizie che possono attraversare qualunque tempesta. Sono cresciuti, sì, ma non abbastanza da essere pronti per quello che li aspetta. E forse non lo siamo nemmeno noi.
Ci sono almeno due boom, due mic drop nel primo capitolo (probabilmente uno più telefonato, ma non per questo meno emozionante e ben gestito), che sono ovviamente pure due cliffhanger e di cui non vi posso (pena l’arresto da parte della polizia degli spoiler, giustamente) né voglio dire nulla. Basti sottolineare che il Sottosopra è ormai davvero quasi apertamente metafisico: non solo un altrove infernale, ma la rappresentazione visiva del crescere, del lasciar andare. In questo, Stranger Things esplicita un livello simbolico che forse non aveva mai raggiunto. E la parte horror della stagione è forse la più ambiziosa e “spettacolare” che abbia mai messo in scena. Non è solo una questione di mostri più grandi o di un Upside Down sempre più corrosivo: è il modo in cui i Duffer spingono l’estetica del terrore verso un territorio debitore di Carpenter, Cronenberg e persino del Raimi più sfrontato. Le creature non sono più solo minacce, diventano sono mutazioni, distorsioni della realtà che pulsano e si aprono come ferite vive sullo schermo. Il gore, mai gratuito, è una manifestazione fisica dell’ansia che tutto sta per crollare. Tra architetture organiche e il Sottosopra che si espande come un’infezione, è un horror viscerale che punta a farti sentire addosso la sensazione che qualcosa di profondamente sbagliato stia arrivando. Perché quel “piccolo manipolo di geek contro la fine del mondo” è sempre stato il motore segreto di Stranger Things sin dal pilot. Solo che il look ora è più cupo, più cinematografico persino: e non (solo) perché tutto sia diventato adulto, ma perché si sente l’urgenza del finale. È come se il countdown fosse partito e ogni inquadratura ci portasse un passo più vicino allo scontro decisivo.
E poi Should I Stay Or Should I Go dei Clash, Upside Down di Diane Ross: la musica resta la guida della serie, solo che gradualmente acquisisce un peso diverso, più tragico. Anche se c’è ancora spazio per l’ironia, quella alla Stranger Things, fatta di battute che arrivano al momento giusto per sgonfiare la tensione e ricordarci che prima di tutto questa serie è una storia di amicizia e che i personaggi sono legati da quella singolare forma di lealtà che esiste solo quando sei molto giovane e insieme molto vecchio, perché hai visto cose che voi umani (semicit.).
Quindi sì, l’inizio della fine di Stranger Things promette benissimo: è traboccante, stratificato, ma non cerca mai scorciatoie, né si traveste (troppo) da greatest hits. Non ha paura di lasciare porte aperte, né di prendersi il tempo per accumulare tensione invece di scaricarla subito. È come se, con questi primi quattro episodi, facesse un respiro profondo prima dell’urlo finale. È un conto alla rovescia umano, più che narrativo, un avvicinamento inesorabile ma elettrizzante allo scontro definitivo. Non è ancora il finale, ma è il momento in cui capisci che Stranger Things non ha mai perso il suo cuore. E quello che arriverà dipenderà tutto da quanto forte deciderà di farlo battere.









