Smettiamola di fare la critica di ‘Emily in Paris’ e divertiamoci | Rolling Stone Italia
Solitano is the new place to be

Smettiamola di fare la critica di ‘Emily in Paris’ e divertiamoci

Tra 'bavazzatini', nepo baby e romanticismo pop, la serie con Lily Collins, arrivata alla quinta stagione (in trasferta a Roma e Venezia), continua a funzionare proprio perché sa cos'è. E ci gioca, senza fingere di essere altro

Smettiamola di fare la critica di ‘Emily in Paris’ e divertiamoci

Foto: Lily Collins (Emily) e Ashley Park (Mindy) in 'Emily in Paris 5'

Foto: Giulia Parmigiani/Netflix

Gli ormai mitici bavazzatini, i nepo baby della moda, l’acqua alta a Venezia, Ashley Park che da contratto canta almeno una volta a episodio (pure dentro un gigantesco bicchiere da Martini!), il cibo vegano a Roma (!) e lo spaccio di junk food nel seminterrato dell’ambasciata americana a Paris.

E ancora Solitano, l’immaginario paese del cashmere (aka il borgo di Ostia Antica) che diventa una sorta di Roccaraso estiva versione upper class; Moulin Rouge! animato con i ratti (Ratine!); il convento delle suore romane trasformato in nuovo hotel low-cost; l’acqua “omofobica” che ha bisogno di un rebranding; e Princess Jane (la deliziosa new entry Minnie Driver), alias l’americana che ha sposato un nobile al verde e che conosce tutti: «Dalla Fiat a Fendi».

A questo punto la domanda non è se Emily in Paris sia superficiale e piena di cliché (anche se Jay Kelly, per dire, se la cava molto peggio in quanto a luoghi comuni sul Bel Paese), ma perché continuiamo a pretendere che non lo sia, anche davanti a una lista così consapevole di dettagli instant cult, camp fino al parossismo, che abitano un mondo dichiaratamente esagerato e deliziosamente frivolo. Lo scrive anche il Guardian, che individua il miglior consiglio di visione in una battuta di Alfie (Lucien Laviscount). Mentre aiuta Mindy (Ashley Park) a preparare una coreografia di tango per Ballando Ballando Ballando (!), le dice semplicemente: «Smetti di pensare e salta!». Ecco: smettiamola di recensire Emily in Paris come se dovesse per forza essere qualcos’altro e divertiamoci, perché è tutto quello che la serie chiede — e promette — da sempre. Una volta di più con la quinta stagione (dal 18 dicembre su Netflix).

Emily in Paris | Season 5 Official Trailer | Netflix

Il mood è chiarissimo anche per chi la fa. «Emily corre e cade parecchio sui tacchi nei capitoli precedenti, quindi ho pensato che fosse il momento di mettere delle scarpe basse così sta più attenta a non inciampare», ride Lily Collins alla conferenza stampa veneziana. «A parte gli scherzi, credo che ogni anno il personaggio evolva e cresca. Nella prima stagione stava cercando la propria voce, ora ce l’ha e sta imparando ad appropriarsene davvero. C’è anche una maggiore vicinanza con Sylvie, e credo che da lì nasca una sicurezza interiore che si riflette nella sua vita quotidiana, sia privata che professionale».

Se Emily, in questa quinta stagione, prova finalmente a stare in piedi da sola (e va pure a raccogliere i tartufi avec costosissima zeppa verde smeraldo), anche la serie sente il bisogno di allargare il campo, di spostarsi un po’ più in là del solito boulevard parigino. Emily resta in Paris, ma si concede una “vacanza romana” e una capatina in gondola (what else) nella Serenissima, sempre con foulard firmato al collo per evitare l’italianissimo “colpo d’aria”. «Per me è stata un’evoluzione arrivata dopo la terza stagione. Volevo ampliare l’orizzonte della serie senza abbandonare definitivamente Parigi, ma esplorando nuovi luoghi e offrendo al pubblico un’esperienza “per procura” di città come Roma e Venezia», spiega il creatore Darren Star. «La storia deve sempre portarti nei luoghi in modo organico, e la nostra ci ha condotti in Italia per molte ragioni. È un posto che tutti nel mondo vorrebbero visitare. E se non possono farlo davvero, hanno l’opportunità di farlo attraverso la serie».

L’inevitabile guida made in Italy è Eugenio Franceschini, alias Marcello Muratori, erede della dinastia del cashmere più esclusivo nonché love interest della nostra. «Mi sono trasferito a Roma a 18 anni per studiare al Centro Sperimentale e per me rappresenta gli anni della libertà totale, senza soldi ma pieni di sogni. E poi Venezia… è la città più bella del mondo. Quella in cui vorrei vivere un giorno, e forse anche morire». Girare lì, racconta, è stata «una grande emozione, una grande responsabilità e un grande orgoglio. Volevo far innamorare Lily e tutti gli altri di questi posti. A Parigi, paradossalmente, è stato più facile: non avevo questo peso emotivo».

Lily Collins (Emily) e Eugenio Franceschini (Marcello) in ‘Emily in Paris 5’. Foto: Netflix

E in effetti Collins ha gli occhi a cuore. «Venire a Venezia era nella mia bucket list. Non avrei mai immaginato che sarebbe stato lo show a portarmici». Racconta due momenti in particolare: «Il viaggio dall’aeroporto in barca, entrare nei canali come se fossi sul set di un film, e poi sbucare davanti a Piazza San Marco, con l’oro, la luce, i colori». E poi l’albergo: «Ho aperto la finestra e ho pensato: “Ma sarà davvero questa la mia vista ogni giorno?”. Non ero pronta per tanta bellezza».

Ma non esiste Emily senza Sylvie, che resta la controparte ironica e sofisticata della protagonista. «Era orribile con Emily, e io mi sono divertita moltissimo a interpretarla», ammette Philippine Leroy-Beaulieu. «È bellissimo recitare personaggi che possono fare tutto quello che nella vita reale non faresti mai». In questa stagione, però, «l’armatura si incrina»: emergono disordine, vulnerabilità, dubbi sentimentali e professionali. «Prova tante strade e fallisce spesso, ed è questo che adoro. Amo i personaggi che falliscono».

Bruno Gouery (Luc) Philippine Leroy-Beaulieu (Sylvie) in ‘Emily in Paris 5’. Foto: Giulia Parmigiani/Netflix

E poi c’è Mindy, l’amica, la “sorella”, la figlia del re cinese delle cerniere diventata ormai showgirl. «Nella prima stagione era quella con più libertà, con meno da perdere», racconta Ashley Park. «Ora invece ha molto più in gioco». La quinta stagione mette alla prova la loro sorellanza in modo inaspettato: «È incredibile pensare che siano passati cinque anni dall’inizio. Mi è piaciuto tantissimo vedere queste tre donne forti e curate affrontare anche un umorismo molto fisico». E aggiunge: «È bello poter esplorare i difetti dei personaggi in uno spazio sicuro, soprattutto dentro un’amicizia. La cosa più bella della sorellanza è arrivare dall’altra parte della montagna, che sia con la comunicazione o con il malinteso».

Sui malintesi sorvoliamo per non fare spoiler, ma qui vale la pena prendere in prestito — smettendo per una volta di fare i critici seriosi, se ma li siamo davvero stati — le parole di Anton Ego, il critico gastronomico di Ratatouille. «La triste verità», dice, «è che anche l’opera più mediocre ha più anima del giudizio che la definisce tale». Ecco: rilassiamoci. Perché quando Emily in Paris indulge nel suo immaginario patinato e sopra le righe, lo fa senza mai perdere consapevolezza. Sa benissimo cos’è, cosa rappresenta e perché funziona: non prova a sembrare più profonda, e non ne ha bisogno. Ha già fatto centro. Ogni volta che una stagione finisce, viene voglia di vedere subito quella dopo. Un’Emily tira l’altra.

E alla fine, il consiglio che Lily Collins darebbe alla sua protagonista sull’amore vale anche per chi guarda la serie: «Smettere di cercare la perfezione e lasciare che le cose siano quello che sono. L’ansia di essere perfetti può impedire a qualcosa di bello di accadere. Se ti lasci andare, forse andrà tutto bene».