Ormai la serialità ce l’ha detto in tutte le declinazioni possibili: i ricchi sono più interessanti da guardare. Non perché siano migliori, ma perché sono peggiori in modi più sofisticati. Ed ecco l’ennesima storia ambientata in una villa extralusso vista oceano: Sirens, nuova miniserie Netflix con Julianne Moore, si iscrive – anche con una certa grazia – nel club esclusivo del “trauma upper class“: case bellissime, popolate da gente bellissima fuori e bruttissima dentro, spesso con un passato disastroso che ne giustifichi il disagio. E fin qui: già visto, ma tutto bene.
Cinque episodi (che sono una buona notizia), un weekend lungo (quello del Labor Day), una sorella ribelle from Buffalo with rage (Meghann Fahy, da perfetta moglie trofeo della seconda stagione di The White Lotus a precisissima bad girl), l’altra sorella che forse è stata plagiata (Milly Alcock, la giovane Rhaenyra di House of the Dragon, qua versione Stepford Wife bionda con lo sguardo da cerbiatta in ostaggio) e una guru-filantropa manipolativa con vestaglie in seta e quella dolcezza inquietante che solo Moore riesce a rendere credibile e spaventosa allo stesso tempo. Anche quando sussurra cose tipo: “Non sei arrabbiata con me, sei arrabbiata con te stessa”. È un Chi ha paura di Virginia Woolf? apparentemente impacchettato per il post-femminismo (ci torniamo) e le newsletter di goop. Ma dietro shooting che paiono affari di stato, brunch che sembrano rituali di status ed estetica che mescola design scandinavo e spiritualità Etsy, Sirens racconta un mondo che non sa più distinguere tra autenticità e performance. Una serie che mette a nudo l’arte – anche quella perversa – del prendersi cura degli altri (attraverso il denaro) come forma suprema di controllo.
A ben vedere, Sirens potrebbe essere l’altra faccia di Maid: col senno del poi, infatti, la serie precedente di Molly Smith Metzler starring Margaret Qualley non era “solo” una parabola drammatica sulla working class e gli abusi domestici. Dietro alla routine tossica e alle case da pulire c’era già la vera ossessione di questa autrice: i rapporti di forza e quanto ci mettiamo a spezzarli, soprattutto quando somigliano pericolosamente a un abbraccio. Che viviamo in una roulotte o nella casa dei sogni a Martha’s Vineyard, l’inferno è lo stesso. Se in Maid la protagonista cercava di scappare da un sistema che la schiacciava, in Sirens, adattamento di Elemeno Pea, opera teatrale della stessa Metzler, Simone (Alcock) si infila volontariamente in un altro sistema, più elegante ma non meno tossico, per fuggire dalla sua vita. Devon (Fahy) arriva per riportarla a casa, ma si ritrova davanti a un universo incantato (?) da cui la sorella non vuole essere salvata.

Milly Alcock (Simone) e Julianne Moore (Michaela). Foto: Netflix
E allora Sirens diventa un mélo familiare sotto ayahuasca, un thriller da camera (extralusso), un wellness drama che però stressa, un incubo olistico con elementi fantasy accennati e poi un po’ inspiegabilmente mollati per strada. Visioni, sogni, qualcosa di soprannaturale (il titolo non è casuale, e il personaggio di Moore sembra riuscire a comunicare con i rapaci che salva con la sua fondazione: d’altra parte, nella mitologia greca le sirene sono creature mostruose dal volto di donna e il corpo di uccello con gli artigli; ma se vi aspettavate pure voi qualcosa di un po’ più chimerico, recuperate quel guilty pleasure italianissimo che è Sirene, c’è pure Michele Morrone che fa il tritone, #tuttovero). Un’atmosfera fantastica che distingue la serie non solo da Maid, appunto, ma anche dagli innumerevoli e più o meno riusciti titoli su ricchezza e classismo nati sulla scia pionieristica di Big Little Lies e The White Lotus. Metzler lancia suggestioni, tenta virate di tono, infila simboli, allegorie, canti ipnotici, ma poi li perde. È come se la serie fosse uno di quei retreat new age in cui vai per rimettere insieme i pezzi e finisci per uscire più confuso di prima.

Meghann Fahy (Devon) e Milly Alcock (Simone). Foto: Macall Polay/Netflix
La tensione tra le due sorelle, Devon e Simone, dovrebbe essere il cuore della storia. E funziona quando Sirens smette di cercare la scena madre e si lascia andare al rancore quotidiano, alle ferite che solo la famiglia sa infliggere senza alzare la voce, o quando non si prende troppo sul serio (a un certo punto, dal nulla, Devon lecca il collo del tuttofare, LOL). Fahy e Alcock reggono bene il confronto con Moore, che fa inevitabilmente da catalizzatore avvolta com’è da quell’aura mistica, ma con il cinismo di chi sa esattamente come manipolarla: una deificazione à la Nicole Kidman, come nei recenti titoli di culto sui ricchi disfunzionali (Nine Perfect Strangers su tutte), dove la diva non è solo attrice, ma figura mitologica, curatrice, salvezza possibile e, al tempo stesso, minaccia sotterranea.
Il personaggio di Michaela Kell è una matriarca postmoderna che trasforma ogni parola in oracolo, ogni sguardo in giudizio divino. Si muove in slow motion anche quando cammina veloce, parla piano ma taglia come un bisturi, tutto e tutti orbitano attorno a lei. E in quella cornice di lusso rarefatto e manipolazioni emotive, diventa l’incarnazione perfetta della nuova estetica del potere femminile televisivo — seducente, ambigua, impenetrabile. Questa santificazione pop non è nuova, ma Sirens la porta al limite: Michaela non ha bisogno di essere credibile, perché non abbiamo altra scelta che crederle. Ed è lì che Moore, come Kidman prima di lei, diventa icona da venerare e temere, in un rituale che confonde empowerment e controllo, femminilità e feticismo.

Julianne Moore (Michaela) in ‘Sirens’. Foto: Macall Polay/Netflix
Ma per una serie che ha per protagoniste tre donne (+ Kevin Bacon nei panni del marito ricchissimo di Michaela), scritta da donne, che più che satirizzare i ricchi in fondo in fondo vuole raccontare le dinamiche di potere (e insieme paradossalmente di affetto) al femminile, l’ultima cosa che ti aspetti è che finisca con una coltellata alla sorellanza (metaforica, ma neanche troppo). Un finale cinico, perfino crudele, che cancella ogni patina di quell’empowerment e fa crollare tutto il castello con un ghigno a sottolineare che it’s a man’s man’s man’s world (but it wouldn’t be nothing / nothing without a woman or a girl).
Allora, per tornare all’inizio: Sirens è un buco nell’acqua (pardon), ma almeno per un po’ il suo canto ammalia ed è interessante da guardare. Non perché sia migliore di altre serie simili, ma forse è peggiore (?) in modi più sofisticati. Metzler vuole fare tanto, probabilmente troppo: critica del capitalismo spirituale, riflessione sulla colpa e il perdono, studio di classe e di genere, vibe soprannaturale. Ma alla fine le cose non si incastrano mai davvero e tutto pare precipitare giù dalla scogliera narrativa (pardon, di nuovo). Peccato. Di certo però basta per meritarsi la nostra attenzione, anche solo per il tempo di un weekend lungo. E di una crisi esistenziale con vista oceano.