Si stava meglio quando i pompini erano un affare di Stato? | Rolling Stone Italia
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Si stava meglio quando i pompini erano un affare di Stato?

Con ‘American Crime Story: Impeachment’ Ryan Murphy racconta il Sexgate ‘starring’ Bill Clinton e Monica Lewinsky senza essere né moralista né indulgente. Ricordandoci che è stata la nostra ossessione per il sesso, a cambiare la politica

Si stava meglio quando i pompini erano un affare di Stato?

Clive Owen/Bill Clinton e Beanie Feldstein/Monica Lewinsky in ‘American Crime Story: Impeachment’

Foto: Tina Thorpe/FX

Quando ero all’università, una mia compagna sosteneva che «le ragazze serie non ricevono telefonate dopo mezzanotte». Lo ripeteva sempre, appena vedeva qualcuna allontanarsi dal gruppo con in mano un cellulare improvvisamente rianimatosi: controllava l’orologio, scuoteva la testa, e ribadiva la solita manfrina. Non che le sue bacchettate ci tangessero: le ragazze serie, si sa, sono rimaste in tre, e noi di certo non rientravamo nella ristrettissima cerchia. Ci ho ripensato spesso, a questo fatto delle telefonate, di mezzanotte e delle ragazze serie, mentre guardavo la terza stagione di American Crime Story, Impeachment, in Italia dal 19 ottobre FOX. La povera – in senso figurato, poiché figlia di immigrati ebrei piuttosto benestanti – Monica Lewinsky (Beanie Feldstein) a metà anni ’90 manco aveva lo StarTAC, e le toccava trascorrere i weekend a casa fissando un telefono in attesa che l’amato Bill (Clinton, interpretato da Clive Owen) la chiamasse alle tre, le quattro, le sei del mattino. Robe per cui la mia compagna d’università l’avrebbe corcata, insomma.

Dopo l’acclamato e (giustamente) premiato Il caso O.J. Simpson e dopo quel mezzo fiasco di L’assassinio di Gianni Versace, Ryan Murphy – uno che cento ne pensa e altrettante ne fa – torna all’attacco per raccontare il Sexgate che ventisei anni fa turbò i sonni di mezza America e rischiò di costare la presidenza a Bill Clinton, ma non solo. Turning Point – L’11 settembre e la caccia al terrorismo (docuserie per insonni senza ritorno, su Netflix) ne dà la definizione perfetta: «Mentre tutti erano distratti da ciò che Bill Clinton combinava col suo pene, in Medio Oriente si gettavano le basi del terrorismo islamico». Tradotto: negli anni cruciali che segnarono la nascita di Al Qaeda, l’ascesa di Bin Laden e dei talebani, il concepimento di attacchi terroristici con vittime di massa, noi dai media pretendevamo soltanto la dose quotidiana di aggiornamenti politici soft-core. D’altronde, da che mondo è mondo, tira più un pompino che un talebano imbottito di tritolo.

In breve: nel 1993 il governatore dell’Arkansas Bill Clinton diventa il 42° Presidente degli Stati Uniti, interrompendo una tradizione di tromboni repubblicani che durava dal 1969, con la sola (deludente) parentesi di Jimmy Carter. Clinton è giovane, progressista, un “New Democrat”, per di più belloccio: piace alle donne almeno quanto le donne piacciono a lui, e questo rimarrà il suo grande tallone d’Achille. Nel 1995 inciampa nella madre di tutti i cliché e inizia una relazione extraconiugale con la stagista ventiduenne della Casa Bianca Monica Lewinsky, che però s’innamora, lascia viaggiare un po’ troppo la fantasia e decide di confidare le sue pene (scusate, è più forte di me) amorose all’amica, nonché collega, Linda Tripp (Sarah Paulson). Tripp capisce d’avere tra le mani una gallina dalle uova d’oro: registra le telefonate con Monica e, quando nel 1998 scoppia il caso Paula Jones – l’impiegata statale che accusò Clinton di molestie sessuali nel periodo in cui era governatore dell’Arkansas –, sperando nella propria consacrazione e (magari) in un bestseller, consegna i nastri al giudice Kenneth Starr.

Il resto è storia, una storia che Murphy infarcisce di tutte le ossessioni e perversioni americane, che nostro malgrado ci appartengono. Le diete, la magrezza: il pasto preconfezionato di Weight Watchers consumato in solitudine davanti al notiziario della sera; i fiocchi di latte che sanno di acqua sporca ma che ti promettono tre libbre in meno in un paio di settimane; il digiuno forzato nei giorni prima dell’incontro con l’amato. La fama: se è vero che nel futuro chiunque sarà famoso per quindici minuti, Linda Tripp sa che per avere il successo che crede di meritare deve vendere le confidenze di chi s’è fidato di lei, e non si fa troppi scrupoli morali. Il sesso: Monica credeva fosse amore e conservava un vestito blu macchiato del di lui sperma nell’armadio, così come noi attaccavamo la gomma del tizio con cui avevamo limonato alla Smemoranda. La meschinità femminile: prendi due donne, ognuna frustrata per i suoi personalissimi motivi, lascia che leghino quel minimo sindacale per capire che sono funzionali l’una all’altra, siediti a goderti lo spettacolo. La coscienza di classe: Lewinsky non è white trash, anzi, e paradossalmente l’estrazione borghese non gioca né a suo favore, né a favore di Clinton. Il potere: Monica, che pensavi? Che il Presidente degli Stati Uniti avrebbe mollato baracca e burattini per te?

Non ha scopi didattici, Impeachment, non mira a riscrivere gli eventi o a narrarli da un punto di vista meno indulgente, cosa che in patria non è andata giù, ma che forse il pubblico europeo – meno bigotto e incline a trastullarsi col senso di colpa – apprezzerà. «Poteva essere una vicenda à la Mrs. America sulla nascita della vasta macchina del fango di destra, o una riconsiderazione alla luce del MeToo del comportamento di Clinton», scrive il New York Times: per fortuna, Ryan Murphy non è incappato né in uno, né nell’altro errore. La ricostruzione è fedele ai limiti del maniacale – tra protesi facciali e tute ingrassanti, il cast (eccezionale) pare una sfilata di doppelgänger – e, nel privilegiare la dinamica parecchio disfunzionale del rapporto tra Lewinsky e Tripp, ci pone di fronte a interrogativo spinoso: dov’è (se c’è) il “crime”?

Beanie Feldstein con Sarah Paulson, alias Linda Tripp. Foto: Tina Thorpe/FX

Monica Lewinsky non è una vittima: le sue prestazioni nello Studio Ovale non sono avvenute sotto coercizione e nessuno è autorizzato a parlare di sexual harassment. Inoltre, un giudice federale dell’Arkansas ha archiviato la causa civile di Paula Jones per danni contro Bill Clinton, stabilendo che «la presunta condotta del governatore può certamente essere definita maleducata e offensiva, ma neppure la lettura più amichevole degli atti di questa causa può rivelare una base per l’accusa di violenza sessuale». Il reato, dunque, rimane la menzogna: ostruzione della giustizia e falsa testimonianza, ossia l’estremo tentativo da parte dell’uomo più potente del mondo di mettere a tacere una storiella di corna, pompini e peni dotati di «distinguishing characteristics» quando in erezione.

Alla fine, s’arriva persino a provare un po’ di nostalgia per quell’epoca in cui il sesso – oltre a essere un affare di Stato – non ci imbarazzava né ci offendeva poi così tanto; un’epoca in cui sì, non ci si aspettava dal Presidente degli Stati Uniti il comportamento d’un dodicenne arrapato, ma nemmeno si urlava «Morte al patriarcato» per un paio di scappatelle. Bill Clinton, d’altronde, ha lasciato la carica con il più alto indice di gradimento mai ottenuto da un Presidente dopo la Seconda guerra mondiale, nonostante il quasi impeachment, nonostante le fellatio, nonostante le corna, nonostante i vestiti blu con chiazze inequivocabili: è la storia più vecchia dell’universo, e – anche se ci fa vergognare di noi stessi e dei nostri talvolta bassissimi istinti – tirerà sempre più di qualsiasi altra.