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‘Sfida al presidente – The Comey Rule’ e l’America ancora “sotto” per la botta di Trump

La miniserie con Jeff Daniels e Brendan Gleeson, in arrivo su Sky, ripercorre la storia recente come fosse un film in costume. Che fa ancora venire il mal di stomaco

Foto: Ben Mark Holzberg/CBS

Una cosa può essere troppo datata e troppo in anticipo allo stesso tempo? Guardare Sfida al presidente – The Comey Rule, la miniserie (in onda il 12 e 13 ottobre su Sky e Now Tv, ndr) sull’ex direttore dell’FBI James Comey e il suo operato di quattro anni a cavallo delle amministrazioni Obama e Trump, è come trovarsi di fronte a un vecchio film in costume. Nelle prime scene, vediamo Comey prima del colloquio alla Casa Bianca con Obama. Comey (interpretato da Jeff Daniels) è fermo davanti al suo armadio, indeciso su quale completo blu scuro indossare. Alla fine, è sua moglie a scegliere per lui. L’apparente banalità di quel momento, così come il lusso di poter perdere tempo su una questione del genere – come: niente mascherine? –, fa un effetto straniante.

Qualche scena dopo, l’azione si sposta nello Studio Ovale. Fuori campo si sente una voce calda e baritonale che suona assai familiare; affonda nel nostro subconscio come la lama di un rasoio. Il presidente Obama (Kingsley Ben-Adir, perfettamente a suo agio nel ruolo) è al telefono: sta rassicurando il governatore o il pubblico ufficiale di chissà quale Stato sul fatto che i finanziamenti promessi arriveranno presto. Quindi accoglie Comey – un repubblicano che in precedenza ha lavorato al fianco di Geroge W. Bush – con un’energica stretta di mano, un’occhiata complice e un modo di fare molto garbato. È il 2013. Otto anni fa. Ma sembra un momento così vicino che lo puoi quasi toccare, come se stesse accadendo davanti ai tuoi occhi al di là di un vetro. Avendo tutti bene in mente l’imminente carico di confusione e sventura che sta per travolgerci, viene quasi voglia di distogliere lo sguardo dallo schermo.

Sfida al presidente non è una serie perfetta, ma del resto nemmeno James Comey è un uomo perfetto. Sembra saperlo lui stesso, avendo confessato nella sua autobiografia del 2017 – A Higher Loyalty: Truth, Lies, and Leadership, a cui la serie si ispira – di essere spesso «testardo, borioso, egocentrico, troppo sicuro di me». Per chiunque abbia piantato quella lettura perché incapace di conciliare tutta questa autostima con il rifiuto dell’autore di fare i conti con la pasticciatissima gestione dell’indagine sulle e-mail di Hillary Clinton – riguardo alla quale aveva rilasciato non una ma due dichiarazioni pubbliche, nelle tormentate settimane che precedettero le elezioni del 2016: la prima affermava che la condotta della candidata alla presidenza, se non illegale, era stata «estremamente superficiale»; la seconda chiedeva a sorpresa di riaprire il caso –, quel preciso momento storico non sarà facile da digerire una seconda volta.

Anche chi ha pensato e prodotto la serie sembra condividere lo stesso atteggiamento ambivalente nei confronti del protagonista. Basti la scelta narrativa di non mostrarci per primo Comey, tra i personaggi che appaiono sulla scena, bensì l’ambiguo Rod Rosenstein (Scoot McNairy), il viceprocuratore generale che firmò la cosiddetta “nota Comey” che accompagnava il licenziamento del direttore dell’FBI nel 2017. Fin dall’inizio, Rosenstein definisce Comey un boy scout e uno sbruffone. In effetti, nelle prime sequenze, il protagonista ci viene presentato come una sorta di diligente studentello in abiti sartoriali. Il copione indugia su dettagli già presenti nel libro: Comey usa un immaginario un po’ New Age, quando si rivolge ai suoi 37.000 sottoposti (vedi il mantra «Dovete amare qualcuno nella vostra vita, farà bene anche al vostro lavoro»); si diverte a spiazzare le persone chiedendo quale sia il loro dolcetto di Halloween preferito; non sa cos’è una golden shower (che Dio lo benedica). E sembra spesso arrogante, anche quando è mosso dalle migliori intenzioni. Daniels mette in scena la sua rettitudine attraverso uno spettro che va dall’intimamente riflessivo al freddamente operativo.

La trama ripercorre tutti i punti critici delle elezioni del 2016, e le loro drammatiche conseguenze: l’hacking da parte dei russi del Democratic National Committee; l’incontro improvvisato tra il procuratore generale Loretta Lynch e Bill Clinton sulla pista dell’aeroporto di Phoenix; la scoperta delle e-mail di Hillary Clinton nel pc portatile di Anthony Weiner; il dossier Steele sui rapporti tra Trump e Putin. Comey e la sua squadra sembrano un pugile che barcolla sul ring, continuamente sottoposto a nuovi colpi.

Jeff Daniels con Kingsley Ben-Adir, alias Barack Obama. Foto: Ben Mark Holzberg/CBS

Di scena in scena, ci vengono presentati i tanti volti del cast, tutti impegnati in ottime performance in stile West Wing: c’è Michael Kelly, indimenticato in House of Cards, nei panni del vicedirettore dell’FBI Andrew McCabe; una sottoutilizzata Holly Hunter in quelli del viceprocuratore generale Sally Yates (il massimo che fa è declamare aforismi sulla giustizia e sulla politica a un suo stagista, metafora del “pubblico”); William Sadler è il generale Michael Flynn; Jonathan Banks, già visto in Breaking Bad, il direttore dei servizi segreti James Clapper. C’è un numero infinito di altri personaggi, tutti coinvolti negli incidenti che hanno minato la pubblica sicurezza degli Stati Uniti e tutti utili a oliare i classici ingranaggi del dramma politico.

Ma è quando entra in scena Donald Trump che la tensione della serie tocca il suo apice (e che la nostra ansia cresce fino a farci tornare i brividi). Interpretato con una forza quasi animalesca dal bravissimo Brendan Gleeson, Trump smonta il credo di Comey fondato su codici e regole fino a metterlo in imbarazzo. Daniels è al suo meglio quando è in scena con Gleeson, riesce a rivelare tutto il profondo disagio di Comey anche solo serrando le labbra o facendo un’espressione schifata. Se Comey è tutto filosofia e intelletto, Trump è una bestia. Gleeson cattura tutta la sua rabbia, soprattutto nel monologo durante la conferenza stampa in cui la cinepresa “zooma” sul suo primissimo piano. La fronte aggrottata, gli occhi penetranti, la bocca ringhiosa, l’oratoria affannata, la farneticante autoadulazione, le digressioni senza senso: c’è tutto.

Non serve dirvi come si sviluppa la “relazione” tra Comey e Trump, o come si conclude questa storia. Sullo schermo c’è quello che è accaduto davvero, e che ti fa venire il mal di stomaco anche se è ampiamente drammatizzato. Ciò che oggi fa forse più soffrire è vedere un uomo intelligente e onesto, un uomo che voleva solo «far fuori i ragazzi cattivi», aprire loro involontariamente le porte, pensando di essere in ogni caso la bussola morale dell’FBI (e dunque del governo). Con l’illusione – e questo è uno dei problemi più critici e oscuri della nostra democrazia – di poter sempre risolvere le cose. Anche le peggiori.

Da Rolling Stone Usa

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