Ho iniziato a guardare Sex and the City al college. La domenica sera, andavo nella stanza della mia amica Anna nel nostro piccolo college di arti liberali del Midwest. Mi sedevo sul pavimento con la moquette scadente, la nostra amica stava Kate sul letto. Bevevamo birra o Fresca (una bibita analcolica al gusto di pompelmo, ndt), mangiavamo sacchetti di Doritos e pizza unta della mensa. Urlavamo per la rottura con i Post-it. Per le scarpe da 485 dollari rubate al baby shower. Per le altalene, i dildo e i vestiti meravigliosi. Meravigliosi.
A quei tempi, il mondo newyorkese di Carrie (Sarah Jessica Parker), Miranda (Cynthia Nixon), Charlotte (Kristin Davis) e Samantha (Kim Cattrall) mi sembrava così lontano. Le guardavo come se stessi ammirando gioielli in una scatola di Tiffany. Era glamour, affascinante, scintillante, a volte incredibilmente pacchiano, ma sempre la vita dei sogni per qualcun altro.
Facevamo i quiz di BuzzFeed per determinare che personaggio di SATC fossimo. Io ero una Charlotte, Anna una Carrie, Kate una Miranda. (Niente Samatha, eravamo brave ragazze del Midwest allora). Era una sorta di valvola di sfogo sicura per noi e per le nostre vite. Non avevamo le scarpe, i capelli, gli appartamenti a Manhattan o la carriera, ma dovevamo comunque arrancare nella stessa palude di amore, perdita e relazioni fallite.
Sono ancora amica di Anna e Kate. Negli ultimi 24 anni, abbiamo accumulato quattro matrimoni, tre divorzi, tre figli e così tanta gioia e dolore che abbiamo smesso di tenerne il conto. E non importa dove io e le mie amiche abbiamo vissuto, o con chi siamo state sposate, ci siamo sempre sostenuta l’una con l’altra. E con Carrie Bradshaw.
Quando And Just Like That… (in Italia su Sky e NOW) è uscito nel dicembre 2021, lo abbiamo riguardato. Ora viviamo lontane, Fresca e Doritos lasciano il posto a caramelle gommose alla marijuana e acqua. Abbiamo quarant’anni, siamo stanche, ci fa male lo stomaco e nessuna di noi si siede più per terra. Ma ora, con la conclusione della terza stagione, il nostro tempo con Carrie e le sue amiche sta finendo. Lo showrunner Michael Patrick King ha annunciato in un post su Instagram del 1° agosto che il finale di stagione sarebbe stato anche l’ultima tappa per i personaggi che abbiamo imparato a conoscere e ad amare.
Il finale non è stato un momento kumbaya per le donne: un Giorno del Ringraziamento frammentato, inondato di drammi interpersonali e di merda, sia metaforici che letterali (vedi: il water intasato di Miranda). Alla fine delle vacanze, Carrie si è ritrovata sola, con un’intera torta tutta per sé, nella sua enorme casa. Non è stato un lieto fine facile. Ma è stato comunque un trionfo. Dopo aver visto Carrie Bradshaw affrontare una relazione dopo l’altra per 27 anni, finendo non da sola, ma per conto suo, è sembrato uno stop, una pace precaria con il mondo delle relazioni eteronormative.
Nei tre anni trascorsi da quando Carrie è tornata nelle nostre vite, molti fan hanno criticato la serie sequel: i personaggi erano odiosi, le trame umilianti. Miranda ora è gay, separata da Steve (David Eigenberg), e suo figlio Brady (Niall Cunningham) è un bambinone che barcolla verso i vent’anni. Charlotte è sposata con due figli, uno dei quali non binario, e sta cercando di rientrare nel mondo del lavoro. Anthony Marentino (Mario Cantone), originariamente spalla di SATC nel ruolo di wedding planner di Charlotte (e poi di Carrie, nel primo film), è un personaggio completamente sviluppato che gestisce una panetteria dove uomini in pantaloncini corti vendono baguette (capito?). Samantha era presente solo in contumacia: vive a Londra, dato che Kim Cattrall ha deciso di non tornare per il secondo round. Al suo posto, il sequel ha aggiunto Seema Patel (Sarita Choudhury), un’agente immobiliare sexy e di alto profilo; e Lisa Todd Wexley (Nicole Ari Parker), un’ambiziosa documentarista i cui figli frequentano la stessa esclusiva scuola privata di Charlotte.
E Carrie, dopo aver iniziato a usare le app, aver creato un podcast e averlo visto chiudere, è tornata insieme ad Aidan (John Corbett) 22 anni dopo la loro seconda rottura, solo per vederla fallire di nuovo in modo spettacolare. Ha una storia con un autore sexy che vive sotto di lei, ma è di breve durata. Come dice a Charlotte, “Devo smettere di pensare a un uomo. E iniziare ad accettare solo me stessa”.
Per molti, il glamour sembrava essere svanito, sostituito da una serie patinata di imbarazzi. “Perché queste donne non riescono a rimettersi in sesto?”, gridavano i critici. “Perché non può esserci dignità? Perché devono essere così imbarazzanti?” Perché non possono…
Perché non possono cosa? Vuoi che Carrie stia a casa a lavorare a maglia? Vuoi che bevano acqua, tengano un diario, facciano “lavoro mentale”, parlino del loro percorso di guarigione?
“Cosa vuoi da Carrie?” Vorrei urlare. Perché qualunque cosa ci abbia dato – e non sempre so cosa sia – è sempre stata così tanto. La molteplicità di queste due serie (e dei due lungometraggi nel mezzo) e delle vite di queste donne è sempre stata il punto. Le storie sono traboccanti di un’orribile e gloriosa abbondanza narrativa. C’è sempre avventura. Sempre sesso. Sempre lacrime. Sempre un Cosmopolitan con un’amica alla fine della giornata. Carrie ci ha dato così tanto, ma mai la perfezione. E la ringrazio per questo. Perché quella sarebbe l’unica cosa che non potrei sopportare.
Carrie Bradshaw, francamente, è sempre stata un disastro: una bellissima, imbarazzante, egoista che indossa abiti di alta moda. Di recente ho fatto guardare a mia figlia, una quattordicenne, e alle sue amiche della Generazione Z l’episodio della serie originale in cui Carrie esce con l’uomo bisessuale, Sean, ed è assolutamente sconcertata dalla sua fluidità. (Alanis Morrissette fa un’apparizione come ospite a una festa per giovani fighi che giocano al gioco della bottiglia, il suo personaggio e Carrie si scambiano quello che all’epoca, credo, era un bacio scandaloso.) Le ragazze urlavano e gemevano, proprio come me nel vedere Miranda seguire il suo fastidioso amore comedian, Che (Sara Ramirez), a Los Angeles in And Just Like That…, per poi tornare indietro, single e piena di vergogna.
“Ma perché è cringe?” ha chiesto mia figlia. “Perché la vita lo è”, le ho risposto. Ho alzato gli occhi al cielo. Ma è vero.
Chi se ne frega se il finale non è quello che volevi? Chi ottiene mai il finale che desidera da questa vita? E la storia di Carrie Bradshaw non è sempre stata la storia di una donna che cerca e non trova mai? Forse trovare la torta, e la pace, è sufficiente. Chi pretende una sorta di continuità narrativa da una serie che è sempre stata assurda e complicata sta ricordando una Carrie che non è mai esistita.
Le proteste per Carrie Bradshaw sono sempre state meno legate al personaggio e più alla nostra cultura. Al momento, soprattutto negli USA, viviamo una regressione culturale che non vuole vedere le donne nella vita pubblica. Il declino dei diritti riproduttivi, l’ascesa della moglie tradizionale come figura culturale: questi cambiamenti sembrano dire: “Non vogliamo vedere donne sole, che scopano con belle scarpe in una grande città”.
Parte del disagio culturale nei confronti del reboot della serie riflette un certo disgusto per l’idea dell’invecchiamento femminile. Vogliamo che le donne invecchino, ma che lo facciano con grazia (qualunque cosa significhi), e che lo facciano lì, dove non dobbiamo vedere lacrime, confusione, continue mortificazioni e sofferenze.
Adoro che la serie abbia avuto un seguito. Adoro che non abbia concesso né a Carrie né a noi spettatori la favoletta di una vita con l’iconico personaggio di Chris Noth, Big (per chi non lo sapesse, muore nel primo episodio del sequel per un infarto durante una corsa sulla Peloton), che in fondo sapevamo tutti non sarebbe mai stata poi così splendida. Adoro il fatto che sia tornata e ci abbia costretto ad affrontare con disagio il fatto che nessuno di noi arriva indenne alla mezza età. Che ci sono l’impotenza, il cancro, l’infedeltà, la vanità e la perdita. Che puoi fare così tanta terapia e comunque fare coming out e fare sesso con una suora (una sottotrama lesbica di Miranda in AJLT). Questa è la vita. Ho sicuramente fatto di peggio.
Questi personaggi hanno affrontato tutto, merda letterale e metaforica. Quindi, in questo senso, è stata una delle serie più surrealmente reali. Un sogno febbrile fantastico e assurdo che è sembrato più perfettamente imperfetto di qualsiasi altra cosa in TV fino ad oggi.
Mi rendo conto, in un certo senso, che il mio desiderio di urlare è una rabbia mal indirizzata verso i critici. Quello che voglio davvero urlare è contro un mondo che chiede così tanto alle donne, alle nostre vite e alle nostre storie. Cos’altro volete da noi? Volete che svaniamo in un oblio raffinato e meraviglioso, così da poter fingere che non siamo invecchiate, che non abbiamo fatto il Botox, che non abbiamo lottato con un mondo che ci toglie costantemente il tappeto da sotto i piedi proprio quando pensiamo di essere arrivate? Perché, la verità è che non arriveremo mai.
Qualunque cosa siamo, siamo umane, siamo fallibili, siamo dei pasticci imbarazzanti e spesso delle pessime amiche; non invecchiamo bene e non siamo brave educatrici. I nostri figli sono impertinenti e non li capiamo. I nostri partner sono bisognosi. Dai nostri bagni esce merda, abbiamo rapporti di lavoro complicati, viviamo delusioni, storie d’amore e ambizioni professionali, e tutto va storto più spesso di quanto vada bene. Spesso ci chiediamo come siamo arrivate a questo punto. E il più delle volte, come Carrie Bradshaw, rinunciamo al sogno di un uomo e abbracciamo il sogno di noi stesse. Non è bello, ma eccoci ancora qui, senza scarpe, a mangiare una torta intera in cucina.
Quindi dico: lunga vita a Carrie Bradshaw. Grazie per averci donato la tua esagerazione e il tuo caos. E lunga vita a tutte noi, donne terribilmente meravigliose e splendide.












