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‘SanPa’ me l’ha confermato: dopo 25 anni, non riesco a condannare Vincenzo Muccioli

La docuserie Netflix che tutti stanno guardando (e di cui tutti parlano) non scioglie i misteri sul fondatore della comunità per tossicodipendenti più grande d’Europa. Ma forse si può guardare oltre le ‘tenebre’

Foto: Netflix

Quante notti di Capodanno ha salvato SanPa, la docuserie uscita strategicamente su Netflix lo scorso 30 dicembre ed entrata in men che non si dica nella classifica dei titoli più visti sulla piattaforma? Le cinque puntate firmate da Gianluca Neri, Carlo Gabardini, Paolo Bernardelli e dirette dall’italo-britannica Cosima Spender causano d’altronde dipendenza – no pun intended – quindi come biasimare chi ha preferito addentrarsi tra le «luci e le tenebre» di San Patrignano anziché stappare un prosecco da quattro soldi davanti a Morandi e Amadeus?

SanPa ha anche un ulteriore, innegabile merito, oltre all’aver rappresentato un utile diversivo durante la notte di San Silvestro più triste di sempre: quello di essere un prodotto italiano unico nel suo genere, destinato a diventare un ingombrante benchmark per chiunque verrà dopo. Mai in Italia era stato pensato, scritto e confezionato un documentario con simili ambizioni, che ricorda grandi titoli come Going Clear – Scientology e la prigione della fede (HBO) o Wild Wild Country (Netflix) e che – nonostante tema e personaggi possano rivelarsi una trappola – riesce a scardinarsi elegantemente dalla questione morale, lasciando nelle mani del pubblico la scelta più difficile. Ossia scendere a patti con i propri valori, con la propria coscienza, e decidere in completa autonomia se condannare o assolvere Vincenzo Muccioli, il controverso fondatore di quella che sarebbe diventata la comunità terapeutica per tossicodipendenti più grande d’Europa.

Ero una bambina quando l’eroina cominciò a diffondersi in maniera quasi epidemica, e ricordo che ne ero terrorizzata. Ricordo i titoli dei giornali; ricordo i primi servizi sull’HIV e sull’AIDS (quanta confusione, allora i due concetti erano spesso sinonimi); ricordo le siringhe ai giardini, per strada, sotto i portici vicino a casa. Ricordo pure che all’inizio non avevo capito, io li chiamavo «tossicopendenti», perché ai miei occhi infantili “pendevano”, non riuscivano a stare dritti, mi parevano degli zombie e mi facevano una paura del diavolo. Avevamo una vicina eroinomane la cui madre, disperata, di tanto in tanto si sfogava con la mia: l’angoscia era acuita dal senso di impotenza, dalla convinzione – nient’affatto errata – che non ci fosse nulla da fare, che la figlia fosse ormai persa. Lo Stato si era dimostrato completamente impreparato a gestire l’emergenza (certe cose, ahinoi, col tempo non migliorano), nessuno aveva idee o possibili soluzioni; soprattutto, nessuno voleva prendersi in carico dei drogati, a partire dal Servizio Sanitario Nazionale.

SanPa non chiarisce che cos’abbia spinto Vincenzo Muccioli, nel 1978, ad accogliere il primo tossicodipendente nel suo podere alle porte di Coriano, sulle colline riminesi. Raccontando la storia di quel romagnolo scapestrato, cresciuto nella convinzione di non essere stato amato dal padre, qualche supposizione viene spontanea: spirito caritatevole? Desiderio di trasformarsi nel padre che avrebbe voluto? Smania di affermazione, di potenza, e (inconsciamente) di riconoscenza da parte dei più deboli che aveva salvato? «L’omone con uno sguardo che sembrava trapassare l’aria», come lo descrive Fabio Cantelli, ex ospite e poi capo ufficio stampa di San Patrignano, è il leader carismatico per eccellenza. Un po’ santone hippie che crede in una cura basata su pane e amore; un po’ insegnante severo che pretende il rispetto di regole incontestabili, altrimenti sono guai; un po’ imprenditore; un po’ sfruttatore; un po’ genitore che accoglie i reietti nel suo caldo abbraccio e promette loro una seconda chance, una nuova vita, una casa dove è semplicissimo entrare, ma da cui è impossibile uscire.

Vincenzo Muccioli si sente dio, un dio laico che, in virtù del vecchio adagio secondo cui il fine giustifica i mezzi, crede fermamente nella bontà del proprio metodo e si auto-autorizza qualsiasi azione, pur di liberare i suoi figli dalla schiavitù della droga. Chiede in cambio disciplina, metodo, lavoro e una fiducia cieca e incrollabile, che non ammette il dissenso: si arriva a una specie di culto della personalità, alimentato da folle adoranti e da amicizie altolocate, al punto che è naturale domandarsi se gli ospiti di San Patrignano non abbiano sostituito la dipendenza da sostanze stupefacenti con quella nei suoi confronti. Icona pop (aspettiamoci un biopic su di lui, scrive un amico su Facebook) nonché ultima – e unica – speranza delle famiglie italiane distrutte dall’eroina, Muccioli lo dice forte e chiaro: ai tossicomani non do pacche sulle spalle, non do carezze, con loro non ci vado per niente leggero. Anzi: li schiaffeggio finché non capiscono che devono tornare sulla retta via, costi quel che costi.

Foto: Netflix

Come spesso succede, l’espansione della comunità, l’esigenza di delegarne la gestione e la conseguente amministrazione gerarchica vedono aumentare gli abusi e le sopraffazioni, che sfociano in una serie di scandali (il suicidio di due ospiti a distanza ravvicinata di tempo, l’omicidio di un terzo). C’è però una componente in un certo senso fisiologica che, giunti a questo punto, è doveroso considerare: San Patrignano all’epoca accoglieva circa duemila tossici, disposti a rubare, a prostituirsi, a umiliare amici e genitori, a mentire, persino a uccidere per procurarsi una dose. In una sorta di “piccolo Stato”, di città semi-indipendente abitata soltanto da emarginati e tossicomani, quanto può essere considerato, non azzardo normale, bensì comprensibile che determinati eccessi accadano? E ancora: che alternative, che aiuti, che sostegni offriva lo Stato a titolo gratuito ai tempi, oltre al metadone indistintamente somministrato dai SerT?

Sono cresciuta in una famiglia che non ha mai demonizzato Vincenzo Muccioli, e non certo per un eccesso di campanilismo poiché conterranei. Ciò può avermi influenzata guardando SanPa? Chiaro che sì. Nel 1995, anno della sua morte – tuttora parzialmente avvolta nel mistero – ero un’adolescente che credeva sia nella grande chiesa che «passando da Malcolm X attraverso Gandhi e San Patrignano arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano», sia che «tra il male e il bene è più forte il bene». A distanza di un quarto di secolo più una manciata di giorni, non ne sono più così convinta: ho imparato che il bianco e il nero non esistono, e che chi interpreta la realtà in modo netto e polarizzato, non cogliendo le sfumature intermedie, commette un errore che il cognitivismo chiama «pensiero dicotomico». Ho provato a non caderci, durante i trecento minuti di SanPa: Vincenzo Muccioli – così come Walter Delogu, Red Ronnie, Letizia Moratti, Antonio Boschini e tutti gli altri che hanno gravitato e gravitano intorno all’universo di San Patrignano – non è buono o cattivo tout court, ha in sé entrambe le facce. È complesso, contraddittorio, estremamente umano.

Ed è proprio la sua umanità a sfumare i confini tra male e bene, tra giusto e sbagliato, tra giustificabile e inaccettabile, rendendomi difficile una presa di posizione di piena condanna. Non so se tra il male e il bene è ancora più forte il bene, ma so che Vincenzo Muccioli, dal 1978 al 1995, ha fatto più bene che male. Oggi mi basta questo, insieme alla consapevolezza che le ambiguità, i contrasti, le tenebre continueranno comunque a esserci: sta a noi farci pace, accettando quella che – rubando le parole a Fabio Cantelli – è destinata a essere la nostra «verità sfuggente».

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