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Romagna mia, ma perché ti disegnano così?

Ho visto tre puntate di 'Summertime' e sono arrabbiata: perché la mia terra sullo schermo è costretta a tenersi in equilibrio tra lo yuppismo di ieri e il politically correct che si dà in pasto alle generazioni di oggi?

Imbarazzo, fastidio, rabbia. Ecco cos’ho provato, in successione, guardando i primi tre episodi di Summertime su Netflix (no, non sono andata avanti, non ho mai provato piacere ad arrecarmi volutamente del male). Sebbene cresciuta nel capoluogo emiliano sono romagnola, ne vado più che fiera, e vedere la bella Cesenatico ridotta a «una città di sfigati, che tutta l’estate attrae maree di sfigati da tutti i posti più sfigati del mondo», nonché la Romagna trasformata nell’esatto stereotipo di ciò che non è, mi ha profondamente offesa. Non starò qui a sindacare circa la necessità di replicare Tre metri sopra il cielo – che era perfetto com’era, che andrebbe rivalutato e che nessuno ce lo tocchi – o la volontà di sviluppare narrazioni che trasudano buonismo da ogni poro, guai mai che qualcuno – donne, gay, afroamericani, trans, ispanici – s’offenda. Non starò nemmeno qui a tirare in ballo i dialoghi, che sono d’una banalità che Tre metri sopra il cielo a confronto pare Via col vento (ah no, Via col vento no, gli indignati antirazzisti c’hanno tolto pure quello), o l’antipatia e la totale irrealtà dei protagonisti – mi rifiuto di credere che gli adolescenti di oggi siano dei perbenisti che durante le vacanze vanno controvoglia a feste pomeridiane in piscina e odiano l’estate.

No, come dicevo sono arrabbiata, parecchio arrabbiata, perché la mia terra è stata data in mano a sceneggiatori e registi che evidentemente in Romagna non c’avevano mai messo piede; a degli attori che manco si sono sforzati di imparare l’accento romagnolo (che è diverso dal bolognese, per chi se lo stesse chiedendo: la maggioranza degli attori americani sa replicare qualsiasi accento, incluso il cockney, mentre noi rimaniamo sotto scacco dell’inflessione romanesca); a colori saturi e a storielle della profondità d’una pozzanghera, dato che la Romagna pare così, leggera e prevedibile.

E il problema è che, eccezion fatta per Fellini (Amarcord, ma soprattutto I vitelloni, il titolo per antonomasia sulla Romagna e i romagnoli), Zurlini (Estate violenta, La prima notte di quiete e La ragazza con la valigia, un trittico devastante), Risi (L’ombrellone) e i loro film, girati tra gli anni ’50 e l’inizio degli anni ’70, la mia Rumâgna è quasi sempre stata bistrattata a destra e a sinistra. Nel decennio successivo, pellicole come Acapulco, prima spiaggia a… sinistra, Abbronzatissimi e Rimini Rimini l’hanno poi svilita e strapazzata, tramutandola nella patria di tettone, tamarri e arrapati, dove regnavano indisturbate la comicità a buon mercato e le volgarità da bar di provincia. Milanesi e bolognesi si riversavano in Romagna per cuccare e mangiar bene – che per carità, in parte ci stava, ma già allora risultava un po’ riduttivo –, attorniati da donnone procaci e contribuendo così a creare un (falso) mito: Rimini e Riccione stanno alla figa come Milano sta all’aperitivo.

Infilarsi ora nel tunnel del revisionismo storico non avrebbe però alcun senso, e sarebbe pure noiosissimo. Stiamo d’altronde parlando del periodo d’oro dello yuppismo, e probabilmente la cosa più grave è stata ignorare ciò che è accaduto dopo. Fino all’inizio del nuovo millennio, la Romagna era una delle mete predilette delle vacanze di adolescenti e neo-ventenni: i genitori dei primi prendevano la casa per la stagione, e i figli scalpitavano per ribeccare gli amici della compagnia che ogni estate si riuniva; i secondi s’ammassavano in appartamenti o in pensioni (ehi, mica esisteva ancora il bed and breakfast) nel mese d’agosto. Non c’era internet, non c’erano le compagnie aeree low cost, c’erano giusto cellulari grandi quanto cabine telefoniche: il mondo stava lentamente cambiando, e le discoteche romagnole erano forse la cosa più internazionale che ci fosse in Italia. Abbiamo inventato balle da rifilare a nostra madre, ci siamo inventati feste comodamente raggiungibili in bicicletta, abbiamo pregato nonni, amici e conoscenti di coprirci, solo per poter correre in stazione a pigliare il Treno Azzurro (la manna per noi spatentati e spaventati dal mostro dell’epoca: le stragi del sabato sera) che ci avrebbe portato a Riccione, e da lì col bus gratuito fino a Misano. Si chiamavano Cocoricò, Echos, Villa delle rose, Pascià, Byblos, Peter Pan, Prince, ognuna aveva la sua serata a cui bisognava presenziare e per qualche strana logica non avvenivano sovrapposizioni di sorta, anzi. Mezza Europa c’invidiava la Piramide del Cocoricò, l’altra mezza il Melody Mecca di Rimini, il luogo di culto degli adepti della musica afro, ma nulla toglieva che, se volevi, c’era pure il Vidia a Cesena, in cui nell’estate del 1995 suonarono nientemeno che le Hole. L’unica che si prese la briga di raccontare senza filtri (e senza punteggiatura) lo struggimento e l’estasi di un’adolescenza romagnola negli anni ’90 fu Isabella Santacroce con il suo romanzo d’esordio, Fluo, che tra i tanti meriti introduceva in tempi non sospetti, elevandolo, il concetto di walk of shame: «La notte può finire da un momento all’altro. Il giorno sarà troppo impietoso con le nostre facce sconvolte dal trucco disfatto e la donna di chiesa avrà sguardi cattivi per noi che in fondo viviamo come le stelle in un mondo buio e lontano».

Un posto bizzarro, la Romagna: terra di ballerini e culla della club culture italiana, ma anche di accaniti giocatori di briscola e di Mah Jong – a Ravenna, la città con il più alto numero di fan assiepati nei bar e nei circolini, chissà poi per quale strana congiuntura astrale –, di epicurei gaudenti che a qualsiasi età non disdegnano i piaceri del sesso, del cibo e del Sangiovese. La mia – anzi, la nostra, mia e delle mie amiche – educazione sentimentale è avvenuta lì, è stata assai poco romantica ma decisamente efficace: noi, le ragazzine di Bologna, Modena, Milano, Brescia, approdavamo in Riviera appena terminata la scuola e imparavamo sulla nostra pelle che là fuori è una giungla, e che per sopravvivere dovevi essere svelta, scaltra e piuttosto scafata. Abbiamo capito come rispondere a tono, come difenderci, come provarci col bagnino e col dj, come confezionare bene una bugia, come resistere più di otto ore su tacchi 12, come entrare in casa evitando ogni minimo rumore e come non prendercela troppo per le stronzate. A volte mi chiedo che donne saremmo diventate se non ci fossimo fatte le ossa in Romagna: di certo meno sicure di noi stesse, più paranoiche e meno divertenti. Forse saremmo diventate quelle che oggi scambiano un complimento da parte di un uomo per una molestia, chi lo sa, sicuramente sopporteremmo con più stoicismo le décolleté di vernice e i sandali dorati che in passato c’hanno massacrato i piedi, tanto da farci passare a convinte sostenitrici del (prima ostracizzato) partito delle Birkenstock.



Sto divagando e perdendo di vista il punto, che però rimane quello da cui sono partita: dov’è questa – la vera – Romagna? Dov’è la Romagna mia? Perché siamo passati da Rimini Rimini direttamente a Summertime senza nulla lì nel mezzo? Perché la Romagna è costretta a tenersi in equilibrio tra due estremi opposti, la volgarità idiota e grossolana di matrice yuppista da un lato e il politically correct che si dà in pasto a millennial e Generazione Z dall’altro? Qualcuno presto o tardi le renderà giustizia e la racconterà come merita d’essere raccontata? Chissà se Sotto il sole di Riccione, prossima uscita firmata Netflix in arrivo il 1° luglio, sarà capace di restituire un vago sentore di ciò che mi sono dilungata a descrivere: il soggetto è firmato da Enrico Vanzina, la regia è affidata al duo di videomaker YouNuts! (Niccolò Celaia e Antonio Usbergo) e nel trailer si vede un’allegra compagnia di ragazzotti che si diletta col gioco della bottiglia, in spiaggia, in pieno giorno. Non per sembrare la solita rompiballe, ma giuro che noi, né di sera né tantomeno di giorno, il gioco della bottiglia non l’abbiamo mai fatto. E ne vado ancora tremendamente orgogliosa.

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