Iggy Pop, la recensione della serie 'Punk' | Rolling Stone Italia
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Quant’è bello e prevedibile il punk raccontato da Iggy Pop

Il cantante e lo stilista John Varvatos chiamano a raccolta decine di musicisti per spiegare storia e carattere del genere che ha mandato affanculo il mainstream. È una vicenda nota, ma è spiegata bene da chi l'ha vissuta

Quant’è bello e prevedibile il punk raccontato da Iggy Pop

Iggy Pop con gli Stooges

Foto: dalla serie di Sky Arte 'Punk'

“Come può essere morto se sono qua?”, dice quello sbruffone di John Lydon all’intervistatore che gli chiede se il punk è morto. Seduto su un divano Chesterfield con la camicia mezza strappata e una sigaretta in mano, è gigantesco e minaccioso, un Hulk punk-rock che impazzisce quando la storia non viene raccontata come vorrebbe. È una delle prime scene della serie in quattro puntate diretta da Jesse James Miller e prodotta da Iggy Pop con lo stilista John Varvatos che racconta la storia del punk, il genere che ha mandato affanculo la cultura mainstream negli Stati Uniti, in Inghilterra, nell’Europa continentale, nel mondo (in onda per quattro mercoledì alle ore 21.15 su Sky Arte a partire dal 4 marzo).

A Iggy Pop hanno cucito addosso l’etichetta di padrino del punk e lui ci si sente a suo agio a tal punto da fare da guida in queste puntate che raccontano il fenomeno dalle origini ai giorni nostri, dandogli una definizione ampia che va da Never Mind the Bollocks a Nevermind e basta. Chiunque abbia letto almeno un paio di libri sull’argomento non troverà grandi rivelazioni in questa storia orale – niente narratore, poche analisi, solo testimonianze – che è un po’ avara nel proporre spezzoni musicali, ma un pregio ce l’ha, eccome: fa sentire le voci dei protagonisti, e sono tanti, Marky Ramone, Ian MacKaye, Sylvain Sylvain, Dave Grohl, Henry Rollins, Kathleen Hanna, Viv Albertine, Billie Joe Armstrong, Debbie Harry e altri tra cui Dave Vanian, che racconta di quando faceva il becchino. Sembra la trasposizione televisiva del libro di Gillian McCain e Legs McNeil Please Kill Me. È un “punk for dummies” che sarà però utile a chi queste storie non le conosce o non le ricorda.

Si parte dalle origini, da Detroit. Punk prima del punk è Iggy Pop che canta I Wanna Be Your Dog perché da bambino era rimasto folgorato dal ruggito secco e tagliente prodotto dal riff di You Really Got Me dei Kinks, “il suono della vita durante l’era industriale”. Punk prima del punk sono gli MC5 che vanno alla convention democratica di Chicago del 1968 a incitare alla rivolta. “Ma erano solo un assaggio di cosa stava nascendo”, assicura Wayne County, altro grande personaggio che distribuisce giudizi taglienti e storie esilaranti.

Dopo l’introduzione sulla scena di Detroit, la prima parte del documentario descrive la New York cupa e pericolosa degli anni ’70 che secondo il giornalista e il fondatore di Punk Legs McNeil “ricordava Dresda dopo i bombardamenti” – sì, anche il gusto per l’iperbole è punk. Non c’è nulla di sorprendente, ma vedere questa storia raccontata dai protagonisti e attraverso foto e filmati d’epoca fa sempre un certo effetto: i New York Dolls che rubano trucchi e vestiti delle ragazze e Wayne County che spruzza latte dal suo dildo di gomma; l’energia pericolosa e folle degli Stooges; i Ramones che sono “come dei Beach Boys fatti di anfetamine”; il chili-killer e i cessi del CBGB’s; i fumetti di Punk; Wayne Kramer degli MC5 che si dà al crimine e finisce in galera; e naturalmente l’abbondanza di droghe. Mica solo l’eroina, anche i tranquillanti per maiali o il detergente per tappeti, va bene tutto.

In America il punk langue quando Malcolm McLaren ha l’idea d’importare lo stile dei New York Dolls a Londra, idea da cui nasceranno i Sex Pistols e il punk inglese che sono al centro della seconda puntata. Da quel momento il documentario attraversa vari temi: l’importanza di stile e politica nel Regno Unito, l’equilibrio di genere, gli sputi, i fraintendimenti con i giornalisti. Ma anche il continuo scambio fra Stati Uniti e Inghilterra e le scene cittadine dell’hardcore, del revival e persino del grunge, Washington DC, Los Angeles, la Bay Area, Seattle. Non c’è alcun tentativo di offrire una lettura del presente. Iggy Pop si tiene la morale rassicurante sul fatto che il punk non morirà mai: “ci sarà sempre qualche teppistello che dice: massì, proviamoci”.

In quattro ore non è possibile raccontare tutto, specie di uno stile che ha attraversato quasi cinquant’anni di storia e s’è infilato nel metal, nel pop, nell’elettronica, ovunque. Il punk raccontato da Miller, Iggy e Varvatos è anzitutto una musica di libertà e ribellione. È folle e potente e distruttivo. Vale per il punk quel che McNeil dice a proposito di Iggy Pop: è “guidare a 200 all’ora mentre ti fanno un pompino e gettarti in fondo a un cazzo di burrone”. È contro le norme, anti-intellettuale, squattrinato, politicamente scorretto. Punk è dire la verità, afferma Lydon.

E pensare che in principio le band detestavano quella parola. Lo spiega Iggy Pop in un’intervista televisiva del 1977 di cui il documentario mostra un frammento. Eccolo col ciuffo nero che gli copre la fronte, il petto nudo sotto la giacca e un crocefisso che pende dal collo dire a Peter Gzowski della CBC che “punk è la parola usata da dilettanti e da sciacalli senza scrupoli”. Ovviamente la sua serie si chiama Punk.

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